Texto utilizado para esta edición digital:
Bruno, Giordano. Il Candelaio. A cura di Giorgio Barberi Squarotti. Torino: Einaudi Editore, 1964. Repr. https://www.liberliber.it/online/autori/autori-b/giordano-bruno/il-candelaio/ (2004).
- Tronch Pérez, Jesús
Nota a questa edizione digitale
Questa pubblicazione fa parte del progetto di ricerca "Teatro spagnolo ed europeo dei secoli XVI e XVII: patrimonio e banche dati", riferimento PID2019-104045GB-C54 (acronimo EMOTHE), finanziato dal MICIN/AEI/10.13039/501100011033.
L'unità di base per il riferimento numerico in questa edizione è la battuta, in modo che i lettori possano citare per atto.scena.battuta.
Comedia del Bruno Nolano,
Academico di nulla academia,
detto il fastidito
In tristitia hilaris, in hilaritate tristis.
Personaggi
| Bonifacio, innamorato di Vittoria |
| Bartolomeo, alchimista |
| Manfurio, pedante |
| Vittoria, signora |
| Lucia, ruffiana |
| Carubina, moglie di Bonifacio |
| Gioan Bernardo, pittore |
| Scaramuré, negromante |
| Ottaviano, spirito faceto |
| Pollula, scolare di Manfurio |
| Cencio, truffatore |
| Marta, moglie di Cencio |
| Consalvo, speziale |
| Sanguino, mariuolo |
| Barra, mariuolo |
| Marca, mariuolo |
| Corcovizzo, mariuolo |
| Ascanio, servitore di Bonifacio |
| Mochione, servitore di Bartolomeo |
| Sang e Marca |
Sonetto proemiale
IL LIBRO
A gli abbeverati nel Fonte Caballino.
Voi che tettate di muse da mamma,
E che natate su lor grassa broda
Col musso, l’eccellenza vostra m’oda,
Si fed’e caritad’il cuor v’infiamma.
Piango, chiedo, mendico un epigramma,
Un sonetto, un encomio, un inno, un’oda
Che mi sii posta in poppa over in proda,
Per farmene gir lieto a tata e mamma
Eimè ch’in van d’andar vestito bramo
Oimè ch’i’ men vo nudo com’un Bia,
E peggio: converrà forse a me gramo
Monstrar scuoperto alla Signora mia
Il zero e menchia, com’il padre Adamo,
Quand’era buono dentro sua badia.
Una pezzentaria
Di braghe mentre chiedo, da le valli
Veggio montar gran furia di cavalli.
Alla signora Morgana B., sua signora sempre onoranda
Ed io a chi dedicarrò il mio Candelaio? a chi, o gran destino, ti piace ch’io intitoli il mio bel paranimfo, il mio bon corifeo? a chi inviarrò quel che dal sirio influsso celeste, in questi più cuocenti giorni, ed ore più lambiccanti, che dicon caniculari, mi han fatto piovere nel cervello le stelle fisse, le vaghe lucciole del firmamento mi han crivellato sopra, il decano de’ dudici segni m’ha balestrato in capo, e ne l’orecchie interne m’han soffiato i sette lumi erranti? A chi s’è voltato, — dico io, — a chi riguarda, a chi prende la mira? A Sua Santità? no. A Sua Maestà Cesarea? no. A Sua Serenità? no. A Sua Altezza, Signoria illustrissima e reverendissima? non, no. Per mia fé, non è prencipe o cardinale, re, imperadore o papa che mi levarrà questa candela di mano, in questo sollennissimo offertorio. A voi tocca, a voi si dona; e voi o l’attaccarrete al vostro cabinetto o la ficcarrete al vostro candeliero, in superlativo dotta, saggia, bella e generosa mia s[ignora] Morgana: voi, coltivatrice del campo dell’animo mio, che, dopo aver attrite le glebe della sua durezza e assottigliatogli il stile, — acciò che la polverosa nebbia sullevata dal vento della leggerezza non offendesse gli occhi di questo e quello, — con acqua divina, che dal fonte del vostro spirto deriva, m’abbeveraste l’intelletto. Però, a tempo che ne posseamo a toccar la mano, per la prima vi indrizzai: Gli pensier gai; apresso: Il tronco d’acqua viva. Adesso che, tra voi che godete al seno d’Abraamo, e me che, senza aspettar quel tuo soccorso che solea rifrigerarmi la lingua, desperatamente ardo e sfavillo, intermezza un gran caos, pur troppo invidioso del mio bene, per farvi vedere che non può far quel medesmo caos, che il mio amore, con qualche proprio ostaggio e material presente, non passe al suo marcio dispetto, eccovi la candela che vi vien porgiuta per questo Candelaio che da me si parte, la qual in questo paese, ove mi trovo, potrà chiarir alquanto certe Ombre dell’idee, le quali in vero spaventano le bestie e, come fussero diavoli danteschi, fan rimaner gli asini lungi a dietro; ed in cotesta patria, ove voi siete, potrà far contemplar l’animo mio a molti, e fargli vedere che non è al tutto smesso.
Salutate da mia parte quell’altro Candelaio di carne ed ossa, , delle quali è detto che “Regnum Dei non possidebunt”; e ditegli che non goda tanto che costì si dica la mia memoria esser stata strapazzata a forza di piè di porci e calci d’asini: perché a quest’ora a gli asini son mozze l’orecchie, ed i porci qualche decembre me la pagarranno. E che non goda tanto con quel suo detto: “Abiit in regionem longinquam”; perché, si avverrà giamai ch’i cieli mi concedano ch’io effettualmente possi dire: “Surgam et ibo”, cotesto vitello saginato senza dubbio sarrà parte della nostra festa. Tra tanto, viva e si governe, ed attenda a farsi più grasso che non è; perché, dall’altro canto, io spero di ricovrare il lardo, dove ho persa l’erba, si non sott’un mantello, sotto un altro, si non in una, in un’altra vita. Ricordatevi, Signora, di quel che credo che non bisogna insegnarvi: — Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s’annichila; è un solo, che non può mutarsi, un solo è eterno, e può perseverare eternamente uno, simile e medesmo. — Con questa filosofia l’animo mi s’aggrandisse, e me si magnifica l’intelletto. Però, qualunque sii il punto di questa sera ch’aspetto, si la mutazione è vera, io che son ne la notte, aspetto il giorno, e quei che son nel giorno, aspettano la notte: tutto quel ch’è, o è cqua o llà, o vicino o lungi, o adesso o poi, o presto o tardi. Godete, dunque, e, si possete, state sana, ed amate chi v’ama.
Argumento ed ordine della comedia
Son tre materie principali intessute insieme ne la presente comedia: l’amor di Bonifa[cio], l’alchimia di Bartolomeo e la pedantaria di Manfurio. Però, per la cognizion distinta de’ suggetti, raggion dell’ordine ed evidenza dell’artificiosa testura, rapportiamo prima, da per lui, l’insipido amante, secondo il sordido avaro, terzo il goffo pedante: de’ quali l’insipido non è senza goffaria e sordidezza, il sordido è parimente insipido e goffo, ed il goffo non è men sordido ed insipido che goffo.
Bonifacio, dunque, nell’atto I, SCENA I, inamorato della s[ignora] Vittoria, ed accorgendosi che non possea reciprocarsi l’amore, — del che era la caggione che quella er’amica, come si dice, di fiori di barbe e frutti di borse, e lui non era giovane né liberale, — pone la sua speranza ne la vanità de le magiche superstizioni, per venire a gli amorosi effetti; e per questo manda il suo servitore a trovar Scaramuré che gli era stato descritto efficace mago. [II SCENA ] Avendo inviato Ascanio, discorre tra se medesmo, riducendosi a mente il valor di quell’arte. [III SCENA] Gli sopragionge Bartolomeo che con certo mezzo artificio gli fa vomitare il suo secreto, e mostra la differenza dell’ogetto dell’amor suo. [IV SCENA] Sanguino, padre e pastor di marioli, ed un scolare, che studiava sotto Manfurio, che da parte aveano uditi questi raggionamenti, discorreno sopra quel fatto; e Sanguino particularmente comincia a prender il capo per ordir qualche tela verso di Bonifacio. [VI SCENA] Compare Lucia ruffiana con un presentuccio che Bonifacio mandava, e ne fa notomia, e si dispone a prenderne la decima, e poco mancò che non vi fusse sopragiunta da lui. [VII SCENA] Bonifacio se ne viene tutto glorioso per certo suo poema di nova cola in onor e gloria della sua dama: nella qual festa [VIII SCENA] fu ritrovato da Gioan Bernardo pittore, al quale arrebbe discoperto il suo nuovo poetico furore, ma lo distrasse il pensier del ritratto, ed il pensier sopra un dubbio che gli lasciò Gio. Bernardo nella mente. E [IX SCENA] rimane perplesso su l’enigma; perché o più o meno intende il termino candelaio, ma non molto può capir che voglia dir orefice. Mentre dimora in questo pensiero, ecco [X SCENA] riviene Ascanio col mago, il quale, dopo avergli fatte capir alcune pappolate, lo lascia in speranza d’accapar il tutto.
Nell’atto II, III SCENA, si monstrano la s[ignora] Vittoria e Lucia entrate in speranza di premer vino da questa pumice e cavar oglio da questo subere: e sperano, col seminar speranze nell’orto di Bonifacio, di tirar messe di scudi nel proprio magazzino; ma s’ingannavano le meschine, pensando che l’amor gli avesse tanto tolto l’intelletto, che non avesse sempre avanti gli occhi della mente il proverbio che gli udirrete dire nel principio della sesta scena nell’atto quarto. [IV SCENA] Rimasta la s[ignora] Vittoria sola, fa di bei castelli in aria, presupponendo che questa fiamma d’amor facesse colar e fonder metalli, e che questo martello di Cupido co l’incudine del cuor di Bonifacio stampar potesse almen tanta moneta, che, fallendo col tempo l’arte sua, non gli fusse necessario d’incantar quella di Lucia, iuxta illud: “Et iam facta vetus, fit rofiana Venus”. Mentre dunque si pasce di que’ venticelli che gonfiano la panza e non nutriscono, [V SCENA] sopraviene Sanguino, che, per quel ch’avea udito dalla propria bocca di Bonifacio, comincia a tramar qualche bella impresa, e si retira con lei per discorrere come si dovessero governar col fatto suo.
Nell’atto III, II SCENA, viene Bonifacio con Lucia, che lo contrista, tentandolo di pacienza per la borsa: or, mentre masticava come avesse in bocca il panferlich, gli cascò il lasagno dentr’al formaggio, idest ebbe occasion di levarsela d’avanti per quella volta, per dover trattar cose importanti con dui che sopragiunsero. [II SCENA] Questi erano Scaramuré ed Ascanio, co i quali si tratta come si dovesse governare ne’ magichi cerimoni; dona parte del suo conto al mago e se ne va. [IV SCENA] Rimane, beffandosi de la smania di costui, Scaramuré; e [V SCENA] ritorna Lucia che pensava che Bonifacio l’aspettasse, e costui la rende certa che la speranza era vana e la fatica persa; e con ciò vanno alla s[ignora] Vittoria per chiarirla del tutto: il che fece costui, a fin che, col fingere di quella potesse graffar qualch’altra somma da Bonifacio. [IX SCENA] Compaiono Sanguino e Scaramuré, come quei ch’aveano appuntato qualche cosa con la s[ignora] Vittoria e m[esser] Gioan Bernardo: e questi dui con dui altri venturieri sotto la bandiera di Sanguino trattano di negociare alcuni fatti con stravestirsi da capitano e birri: del qual partito [nella X SCENA] si contentano molto.
Nell’atto IV, I SCENA, la s[ignora] Vitt[oria] vien fuori fastidita per molto aspettare; discorre sopra l’avaro amor di Bonifacio e sua vana speranza; mostra d’esser inanimata a fargli qualch’insapore insieme col finto capitano, birri e Gio. Bernardo. Tra tanto, venne Lucia [II SCENA] che mostra di non aver perso il tempo ed [esser] vana la fatica: espone come abbia informata ed instrutta Carubina, moglie di Bonifacio; e [SCENA III] sopragionte da Bartolomeo, sdegnate si parteno. [IV SCENA] Rimane Bartolomeo, discorrendo sopra la sua materia; ed ecco [V SCENA] gli occorre Bonifacio, e raggionano un pezzo insieme, burlandosi l’un de l’altro. Tra tanto, Lucia che non dormeva sopra il fatto suo, [VI SCENA] trova m[esser] Bonifacio, il quale, disciolto da Bartolomeo, vien ad esser molto persuaso dall’estreme novelle che quella gli disse: cioè che per il meno la s[ignora] Vittoria gli arrebbe donato tutt’il suo, con questo che la andasse a chiavar per quella sera, ch’altrimente moreva: il che, per le cose che erano passate della magica fattura, non fu difficile a donarglielo ad intendere: prese ordine di stravestirsi lui come Gio. Bernardo. Lucia si parte co le vesti di Vittoria a mascherar Carubina; [VII SCENA] rimane Bonifacio, facendo tra se medesmo festa dell’effetto che vede del suo incantesimo; apresso, [VIII SCENA] si berteggia insieme con Marta, moglie di Bartolomeo, per un pezzo; e poi è verisimile ch’andasse subbito al mascheraro per accomodarsi come S. Cresconio. [XII SCENA] Ecco Carubina, stravestita ed istrutta da Lucia, fa intendere i belli allisciamenti e vezzi,che questa sofistica Vittoria dovea far al suo alchimico inamorato; e prende il camin verso la stanza di Vittoria. E [XIII SCENA] rimane Lucia con determinazione d’andar a trovar Gio. Bernardo; ma ecco che [XIV SCENA] colui viene a tempo, perché non vegliava meno sopra il proprio negocio, che Lucia sopra l’altrui. Cqua si determina de le occasione che dovean prendere, come le persone si doveano disporre al loco e tempo: e poi Lucia va a trovar Bonifacio e Gioan Bernardo a dar ordine all’altre cose.
Nell’atto V, SCENA I, eccoti Bonifacio, in abito di Gioanbernardo, che spirava amor dal culo e tutti gli altri buchi della persona; e con Lucia, dopo aver discorso un poco, sen va alla bramata stanza. Tra tanto, Gio. Bernardo teneva il baston dritto, pensando a Carubina, ed aspettò un gran pezzo, facendo la sentinella, mentre Sanguino mariolava e Bonifacio prendeva i suoi disgusti; sin tanto che, [IX SCENA] venendo fuori Bonifacio confusissimo con l’ancor sdegnatissima Carubina, a l’impensata de l’uno e l’altra, trovorno un altro osso da rodere e gruppo da scardare, cioè si trovorno rincontrati con Gioanbernardo. Quindi nacquero molti dibatti di paroli, ed essendono prossimi a toccarsi co le mani, [X SCENA] sopravien Sanguino stravestito da capitan Palma con sui compagni stravestiti da birri; e per ordinario della corte ed instanza di Gio. Bernardo menorno Bonifacio in una stanza vicina, fingendo intenzione di condurlo dopo spediti altri negocii in Vicaria. Con questo, [XI SCENA] Carubina rimane nelle griffe di Gio. Bernardo, il quale, com’è costume di que’ che ardentemente amano, con tutte sottigliezze d’epicuraica filosofia, — Amor fiacca il timor d’omini e numi, — cerca di troncare il legame del scrupolo che Carubina, insolita a mangiar più d’una minestra avesse possuto avere. Della quale è pur da pensare che desiderasse più d’esser vinta che di vencere; però gli piacque di andar a disputar in luoco più remoto. Tra tanto che passavano questi negociii, Scaramuré ch’avea l’orloggio nel stomaco e nel cervello, andò [XIV SCENA] con specie, di sovvenire a Bonifacio; e [XV SCENA] trova Sanguino co i compagni ed impetra licenza di parlar a Bonifacio; e, avendola impetrata con certe mariolesche circostanze [XVI SCENA], viene [XVII SCENA] a persuadere a Bonifacio, che l’incanto avea, per fallo di esso Bonifacio, avuto confuso effetto; e dice di voler negociar, per il presente, la sua libertà. Il che facendo, [XVIII SCENA] con offrire qualche sottomano al Capitano, riceve, da quel che non era novizio nell’arte sua, una asprissima risoluzione, la quale da dovero mosse Bonifacio, e Scaramuré, in quel modo che posseva, a ingenocchiarsi in terra e chieder grazia e mercé, sin tanto ch’impetrorno da lui che si contentasse di farli grazia. La qual gli fu concessa con questa condizione, che Scaramuré facesse di modo che venessero la moglie Carabina e Gioanbernardo a rimettergli l’offesa. Cossì, questo accordo si venne a trattar con molte apparenti difficultà [XIX, XX, XXI e XXII SCENA]; sin tanto che, [XXIII SCENA] dopo aver chiesa perdonanza in ginocchioni a Gio. Bernardo e la moglie, e ringraziato Sanguino e Scaramuré, ed onta la mano del Capitano e birri, fu liberato per grazia del signor Dio e della Madonna: dopo la cui partita, [XXIV SCENA] Sanguino ed Ascanio fanno un poco di considerazione sopra il fatto suo. Considerate, dunque, come il suo inamorarsi della s[ignora] Vittoria l’inclinò a posser esser cornuto, e, quando si pensò di fruirsi di quella, dovenne a fatto cornuto: figurato veramente per Atteone, il quale, andando a caccia, cercava le sue corne, e, allor che pensò gioir de sua Diana, dovenne cervo. Però, non è maraviglia si è sbranato e stracciato costui da questi cani marioli.
Bartolomeo compare nell’atto I, III SCENA, dove si beffa dell’amor di Bonifacio, concludendo che l’inamoramento de l’oro e de l’argento, e perseguire altre due dame, è più a proposito; ed è verisimile che, quindi partito, fusse andato a far l’alchimia nella quale studiava sotto la dottrina di Cencio. Il quale Cencio [nella XI SCENA] si discuopre barro, secondo il giudizio di Gio. Bernardo; e poi [nella XII SCENA] egli medesmo si mostra a fatto truffatore. Viene Marta, sua moglie [nella XIII SCENA] e discorre sopra l’opra del marito; e [nella XIV SCENA] è sopragionta da Sanguino che si burlava di lui e lei. Nell’atto II, VI SCENA, raggionando Barro con Lucia, mostra parte del profitto che facea Bartolomeo: cioè che, mentre lui attendeva ad una alchimia, la moglie Marta facea la bucata ed insaponava i drappi.
Nell’atto III, I SCENA, Bartolomeo discorre sopra la nobilità della sua nuova professione: e mostra con sue raggioni che non v’è meglior studio e dottrina de quello de minerabilibus, e con questo, ricordato del suo esercizio, si parte.
Nell’atto IV, III [e V] SCENA, va Bartolomeo aspettando il servitore ch’avea inviato per il pulvis Christi, e [IV SCENA] discorre sopra quel detto: “Onus leve” assomigliando l’oro alle piume. [VIII SCENA] La sua moglie dimostra quanto fusse onesta matrona nel raggionar che fa con m[esser] Bonifacio: mostra quanto lei fusse più esperta nell’arte del giostrare ch’il suo marito in far alchimia; e [nella IX SCENA] dona ad intendere ciò non esser maraviglia, perché a quella disciplina fu introdotta nella età di dodici anni; e donando più vivi segnali della sua dottrina da cavalcare, fa una lamentevole e pia digressione circa quel studio di suo marito, che l’avea distratto da sue occupazioni megliori; mostra anco la diligenza che teneva in sollicitar gli suo’ Dei, a fin che gli restituissero il suo marito nel grado di prima. Con questo [X SCENA] comincia a veder effetto di sue orazioni, per essere l’alchimia tutta andata in chiasso per un certo pulvis Christi, che non si trovava altrimente, che facendolo Barto[lomeo] medesmo: il quale de cinque talenti gli arrebbe reso talenti cinque. L’uomo, per informarsi meglio, va col suo Mochione a ritrovar Consalvo.
Nell’atto V, II SCENA, vengono Consalvo e Bartolomeo che si lamentava di lui, come consapevole e complice della burla fattagli da Cencio; e cossì, dalle paroli venuti a’ pugni, [III SCENA] furno sopragionti da Sanguino e compagni in guisa di capitano e birri: li quali, sotto specie di volerle menare in priggione, le legarono co le mani a dietro, e, avendole menati a parte più remota, gionsero le mani dell’uno alle mani dell’altro, a schena a schena: e cossì gli levorno le borse e vestimenti, come si vede nel discorso delle IV, V, VI, VII, VIII SCENA E poi [nella XII SCENA] avendono caminato, per fianco e fianco, per incontrarsi con alcuno che le slegasse, giunsero al fine dov’era Gio. Bernardo e Carubina che andavano oltre: i quali volendo arrivare, Consalvo, con affrettar troppo il passo, fe’ cascar Bartolomeo che si tirò lui appresso; e rimasero cossì, sin che [XIII SCENA] sopravenne Scatamuré e le sciolse, e le mandò per diversi camini a proprie case.
Manfurio [nell’atto I, V SCENA] comincia ad altitonare; e viene ad esser conosciuto da Sanguino per pecora da pastura: cioè ch’i marioli cominciorno a formar dissegno sopra il fatto suo.
Nell’atto II, I SCENA, vien burlato dal s[ignor] Ottaviano, che prima monstrava maravigliarsi di sui bei discorsi, appresso de far poco conto di suoi poemi, per conoscere come si portava quando era lodato, e come quando era o meno o più biasimato. E [II SCENA] partitosi il s[ignor] Ottaviano, porge Manfurio una lettera amatoria al suo Pollula, inviandola a m[esser] Bonifacio, per il cui servizio l’avea composta: la quale epistola poi [nella VII SCENA] viene ad essere letta e considerata da Sanguino e Pollula.
Nell’atto III, [IV SCENA], sguaina un poema contra il s[ignor] Ottaviano, in vendetta della poca stima che fece di sui versi, sopra i quali mentre discorre con il suo Pollula, sopraviene m[esser] Gioan Bernardo [SCENA VII], col qual discorse sin tanto che gli cascò la pazienza. Ritorna [nella XI SCENA], appare con Corcovizzo, che fe’ di modo che gli tolse i scudi de mano. Or, mentre di ciò [XII SCENA] si lagna e fa strepito, gli occorreno Batta e Marca e [XIII SCENA] Sanguino: i quali, ponendolo in speranza di ritrovar il furbo e ricovrare il furto, li ferno cangiar le vesti e lo menorno via.
Nell’atto IV, XI SCENA, riviene cossì mal vestito com’era, lamentandosi che gli secondi marioli gli aveano tolte le vestimenta talari e pileo prezioso, facendolo rimaner solo, nel passar di certa stanza; e con questo avea vergogna di ritornar a casa. Aspetta il più tardi, retirandosi in un cantoncello, sin tanto che [nella XV SCENA] si fa in mezzo, passeggiando e discorrendo circa quel che ivi avea udito e visto. Tra tanto, [XVI SCENA] viene Sanguino, Marca ed altri in forma di birri, e volendosi Manfurio ritirar in secreto, con quella ed altre specie, lo presero priggione e lo depositorno nella prossima stanza.
Nell’atto V, penult. SCENA, gli vien proposto che faccia elezione de una di tre cose per non andar priggione, o di pagar la bona strena a gli birri e capitano, o di aver diece spalmate, o ver cinquanta staffilate a brache calate. Lui arrebbe accettata ogni altra cosa più tosto che andar con quel modo priggione: però delle tre elegge le diece spalmate; ma, quando fu alla terza, disse: “Più tosto cinquanta staffilate alle natiche”. De quali avendone molte ricevute, e confondendosi il numero or per una or per un’altra causa, avvenne che ebbe spalmate, staffilate, e pagò quanti scudi gli erano rimasti alla giornea, e vi lasciò il mantello che non era suo. E fatto tutto questo, posto in arnese come don Paulino, [nella SCENA ult.] fa e dona il Plaudite.
Antiprologo
Messer sì, ben considerato, bene appuntato, bene ordinato. Forse che non ho profetato che questa comedia non si sarrebbe fatta questa sera? Quella bagassa che è ordinata per rapresentar Vittoria e Carubina, ave non so che mal di madre. Colui che ha da rapresentar il Bonifacio, è imbraco che non vede ciel né terra da mezzodì in qua; e, come non avesse da far nulla, non si vuol alzar di letto; dice: “Lasciatemi, lasciatemi, ché in tre giorni e mezzo e sette sere, con quattro o dui rimieri, sarrò tra parpaglioni e pipistregli: sia, voga; voga, sia”. A me è stato commesso il prologo; e vi giuro ch’è tanto intricato ed indiavolato, che son quattro giorni che vi ho sudato sopra, e dì e notte, che non bastan tutti trombetti e tamburini delle Muse puttane d’Elicona a ficcarmene una pagliusca dentro la memoria. Or, va’ fa il prologo: sii battello di questo barconaccio dismesso, scasciato, rotto, mal’impeciato, che par che, co’ crocchi, rampini ed arpagoni, sii stato per forza tirato dal profondo abisso; da molti canti gli entra l’acqua dentro, non è punto spalmato, e vuol uscire e vuol fars’in alto mare? lasciar questo sicuro porto del Mantracchio? far partita dal Molo del silenzio? L’autore, si voi lo conosceste, dirreste ch’ave una fisionomia smarrita: par che sempre sii in contemplazione delle pene dell’inferno, par sii stato alla pressa come le barrette: un che ride sol per far comme fan gli altri: per il più, lo vedrete fastidito, restio e bizzarro, non si contenta di nulla, ritroso come un vecchio d’ottant’anni, fantastico com’un cane ch’ha ricevute mille spellicciate, pasciuto di cipolla. Al sangue, non voglio dir de chi, lui e tuti quest’altri filosofi, poeti e pedanti la più gran nemica che abbino è la ricchezza e beni: de quali mentre col lor cervello fanno notomia, per tema di non essere da costoro da dovero sbranate, squartate e dissipate, le fuggono come centomila diavoli, e vanno a ritrovar quelli che le mantengono sane ed in conserva. Tanto che io, con servir simil canaglia, ho tanta de la fame, tanta de la fame, che si me bisognasse vomire, non potrei vomir altro ch’il spirto; si me fusse forza di cacare, non potrei cacar altro che l’anima, com’un appiccato. In conclusione, io voglio andar a farmi frate; e chi vuol far il prologo, sel faccia.
Proprologo
Dove è ito quel furfante, schena da bastonate, che deve far il prologo? Signori, la comedia sarà senza prologo; e non importa, perché non è necessario che vi sii: la materia, il suggetto, il modo ed ordine e circonstanze di quella, vi dico che vi si farran presenti per ordine, e vi sarran poste avanti a gli occhi per ordine: il che è molto meglio che si per ordine vi fussero narrati. Questa è una specie di tela, ch’ha l’ordimento e tessitura insieme: chi la può capir, la capisca; chi la vuol intendere, l’intenda. Ma non lascierò per questo di avertirvi che dovete pensare di essere nella regalissima città di Napoli, vicino al seggio di Nilo. Questa casa che vedete cqua formata, per questa notte servirrà per certi barri, furbi e marioli, — guardatevi, pur voi, che non vi faccian vedovi di qualche cosa che portate adosso: — cqua costoro stenderranno le sue rete, e zara a chi tocca. Da questa parte, si va alla stanza del Candelaio, id est m[esser] Bonifacio, e Carubina moglie, ed [a] quella di m[esser] Bartolomeo; da quest’altra, si va a quella della s[ignora] Vittoria, e di Gio. Bernardo pittore e Scaramuré che fa del necromanto; per questi contorni, non so per qual’occasioni, molto spesso si va rimenando un sollennissimo pedante, detto Manfurio. Io mi assicuro che le vedrete tutti: e la ruffiana Lucia per le molte facende bisogna che non poche volte vada e vegna; vedrete Pollula col suo Magister per il più, — quest’è un scolare da inchiostro nero e bianco; — vedrete il paggio di Bonifacio, Ascanio, — un servitore da sole e da candela. Mochione, garzone di Bartolomeo, non è caldo né freddo, non odora né puzza; in Sanguino, Batta, Marca e Corcovizzo contemplarrete, in parte, la destrezza della mariolesca disciplina; conoscerrete la forma dell’alchimici barrarie in Cencio; e per un passatempo vi si farrà presente Consalvo speciale, Marta, moglie di Bartolomeo, ed il facetissimo signor Ottaviano. Considerate chi va chi viene, che si fa che si dice, come s’intende come si può intendere: ché certo, contemplando quest’azioni e discorsi umani col senso d’Eraclito o di Democrito, arrete occasion di molto o ridere o piangere.
Eccovi avanti gli occhii ociosi principii, debili orditure, vani pensieri, frivole speranze, scoppiamenti di petto, scoverture di corde, falsi presupposti, alienazion di mente, poetici furori, offuscamento di sensi, turbazion di fantasia, smarrito peregrinaggio d’intelletto, fede sfrenate, cure insensate, studi incerti, somenze intempestive e gloriosi frutti di pazzia.
Vedrete in un amante suspir, lacrime, sbadacchiamenti, tremori, sogni, rizzamenti, e un cuor rostito nel fuoco d’amore; pensamenti, astrazioni, colere, maninconie, invidie, querele, e men sperar quel che più si desia. Qui trovarrete a l’animo ceppi, legami, catene, cattività, priggioni, eterne ancor pene, martiri e morte; alla ristretta del core, strali, dardi, saette, fuochi, fiamme, ardori, gelosie, suspetti, dispetti, ritrosie, rabbie ed oblii, piaghe, ferite, omei, folli, tenaglie, incudini e martelli; l’archiero faretrato, cieco e ignudo; l’oggetto poi del core, un cuor mio, mio bene, mia vita, mia dolce piaga e morte, dio, nume, poggio, riposo, speranza, fontana, spirto, tramontana stella, ed un bel sol ch’a l’alma mai tramonta; ed a l’incontro ancora, crudo cuore, salda colonna, dura pietra, petto di diamante, e cruda man ch’ha chiavi del mio cuore, e mia nemica, e mia dolce guerriera, versaglio sol di tutti miei pensieri, e bei son gli amor miei non quei d’altrui. Vedrete in una di queste femine sguardi celesti, suspiri infocati, acquosi pensamenti, terrestri desiri e aerei fottimenti: — co riverenza de le caste orecchie — è una che sel prende con pezza bianca e netta di bucata. La vedrete assalita da un amante armato di voglia che scalda, desir che cuoce, carità ch’accende, amor ch’infiamma, brama ch’avvampa, e avidità ch’al cielo mica e sfavilla. Vedrete ancora, — a fin che non temiate diluvio universale, — l’arco d’amore, il quale è simile a l’arco del sole, che non è visto da chi vi sta sotto, ma da chi n’è di fuori: perché de gli amanti l’uno vede la pazzia dell’altro e nisciun vede la sua. Vedrete un’altra di queste femine, priora delle repentite per l’ommissione di peccati che non fece a tempo ch’era verde, adesso dolente come l’asino che porta il vino; ma che? un’angela, un’ambasciadora, secretaria, consigliera, referendaria, novellera, venditrice, tessitrice, fattrice negociante e guida: mercantessa di cuori e ragattiera che le compra e vende a peso, misura e conto, quella ch’intrica e strica, fa lieto e gramo, inpiaga e sana, sconforta e riconforta, quando ti porta o buona nova o ria, quando porta de polli magri o grassi: advocata, intercessora, mantello, rimedio, speranza, mediatrice, via e porta, quella che volta l’arco di Cupido, conduttrice del stral del dio d’amore, nodo che lega, vischio ch’attacca, chiodo ch’accoppia, orizonte che gionge gli emisferi. Il che tutto viene a effettuare mediantibus finte bazzane, grosse panzanate suspiri a posta, lacrime a comandamento, pianti a piggione, singulti che si muoiono di freddo, berte masculine, baie illuminate, lusinghe affamate, scuse volpine, accuse lupine, e giuramenti che muion di fame, lodar presenti, biasmar assenti, servir tutti, amar nisciuno: t’aguza l’apetito e poi digiuni.
Vedrete ancor la prosopopeia e maestà d’un omo masculini generis: un che vi porta certi suavioli da far sdegnar un stomaco di porco o di gallina, un instaurator di quel Lazio antiquo, un emulator demostenico, un che ti suscita Tullio dal più profondo e tenebroso centro, concinitor di gesti de gli eroi. Eccovi presente un’acutezza da far lacrimar gli occhi, gricciar i capelli, stuppefar i denti, petar, rizzar, tussir e starnutare; eccovi un di compositor di libri bene meriti di republica, postillatori, glosatori, construttori, metodici, additori, scoliatori, traduttori, interpreti, compendiarii, dialetticarii novelli, apparitori con una grammatica nova, un dizionario novo, un lexicon, una varia lectio, un approvator d’autori, un approvato autentico, con epigrammi greci, ebrei, latini, italiani, spagnoli, francesi, posti in fronte libri. Onde l’uno e l’altro, e l’altro e l’uno vengono consecrati all’immortalità, come benefattori del presente seculo e futuri, obligati per questo a dedicarli statue e colossi ne’ mediterranei mari e nell’oceano ed altri luochi inabitabili de la terra. La lux perpetua vien a fargli di sberrettate, e con profonda riverenza se gl’inchina il saecula saeculorum; ubligata la fama di farne sentir le voci a l’uno e l’altro polo, e d’assordir co i cridi, strepiti e schiassi il Borea e l’Austro, ed il mar Indo e Mauro. Quanto campeggia bene, — mi par veder tante perle e margarite in campo d’oro, — un discorso latino in mezzo l’italiano, un discorso greco [in] mezzo del latino; e non lasciar passar un foglio di carta dove non appaia al meno una dizionetta, un versetto, un concetto d’un peregrino carattere ed idioma. Oimè che mi danno la vita, quando, o a forza o a buona voglia, e parlando e scrivendo, fanno venir a proposito un versetto d’Omero, d’Esiodo, un stracciolin di Plato o Demosthenes greco. Quanto ben dimostrano che essi son quelli soli a’ quai Saturno ha pisciato il giudizio in testa, le nove damigelle di Pallade un cornucopia di vocaboli gli han scarcato tra la pia e dura matre: e però è ben conveniente che sen vadino con quella sua prosopopeia, con quell’incesso gravigrado, busto ritto, testa salda ed occhii in atto di una modesta altiera circumspezione. Voi vedrete un di questi che mastica dottrina, olface opinioni, sputa sentenze, minge autoritadi, eructa arcani, exuda chiari e lunatici inchiostri, semina ambrosia e nectar di giudicii, da farne la credenza a Ganimede e poi un brindes al fulgorante Giove. Vedrete un pubercola sinonimico, epitetico, appositorio, suppositorio, bidello di Minerva, amostante di Pallade, tromba di Mercurio, patriarca di Muse e dolfino del regno apollinesco, — poco mancò ch’io non dicesse polledresco.
Vedrete ancor in confuso tratti di marioli, stratagemme di barri, imprese di furfanti; oltre, dolci disgusti, piaceri amari, determinazion folle, fede fallite, zoppe speranze e caritadi scarse; giudicii grandi e gravi in fatti altrui, poco sentimento ne’ proprii; femine virile, effeminati maschii: tante voci di testa e non di petto; chi più di tutti crede, più s’inganna; e di scudi l’amor universale. Quindi procedeno febbre quartane, cancheri spirituali, pensieri manchi di peso, sciocchezze traboccanti, intoppi baccellieri, granchiate maestre e sdrucciolate da fiaccars’il collo; oltre, il voler che spinge, il saper ch’appressa, il far che frutta, e diligenza madre de gli effetti. In conclusione, vedrete in tutto non esser cosa di sicuro, ma assai di negocio, difetto a bastanza, poco di bello e nulla di buono. — Mi par udir i personaggi; a dio.
Bidello
Prima ch’i’ parle, bisogna ch’i’ m’iscuse. Io credo che, si non tutti, la maggior parte al meno mi dirranno: — Cancaro vi mangie il naso! dove mai vedeste comedia uscir col bidello? — Ed io vi rispondo: — Il mal’an che Dio vi dia! prima che fussero comedie, dove mai furono viste comedie? e dove mai fuste visti, prima che voi fuste? E pare a voi ch’un suggetto, come questo che vi si fa presente questa sera, non deve venir fuori e comparire con qualche privileggiata particularità? Un eteroclito babbuino, un natural coglione, un moral menchione, una bestia tropologica, un asino anagogico come questo, vel farrò degno d’un connestable, si non mel fate degno d’un bidello. Volete ch’io vi dica chi è lui? voletelo sapere? desiderate ch’io vel faccia intendere? Costui è — vel dirrò piano: — il Candelaio. Volete ch’io vel dimostri? desiderate vederlo? Eccolo: fate piazza; date luoco; retiratevi dalle bande, si non volete che quelle corna vi faccian male, che fan fuggir le genti oltre gli monti.
Atto I
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Atto II
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Atto III
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Atto IV
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Atto V
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