Da che Tullo mi manda perché il tutto
Dica a te, padre de lo invitto duce,
E perché poi al popolo et a i Padri
Narri il successo, ti comincio a dire
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Che i sacerdoti non ebber sì tosto
Collegato l’accordo, che i fratelli
De le due nazioni preser l’armi;
Tal che ciascuna parte si ridusse
A confortare i suoi, gli Dei paterni,
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Le madri, i padri, i figliuoli e la patria
Ne la loro memoria riducendo:
Mostrando a quei che i prossimi e i lontani
Solo a le mani lor ponevon mente.
Intanto i chiari giovani feroci
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Per età, per virtute e per natura,
Inanzi fersi a passo pronto e saldo,
Rappresentando ne gli altieri aspetti
La libertà dal loro ardir promessa
A la cara di lor patria gradita.
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Eransi fermi ambeduo gli osti esperti,
Liberi dal pericol di sé stessi
Ma non giè del pensier punto sicuri,
Perché tutta la somma de lo impero
Nel valore era posto e ne la sorte
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Di sì pochi campioni; e riguardando,
Con gli animi però tutti sospesi,
Lo spettacolo in sé pieno di noia,
Il segno dier le bellicose trombe.
Onde sembrando due picciole schiere,
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Con animosità di grossi stuoli
Si mossero i superbi e furibondi:
Che tali gli avea fatti al core dentro
L’ambizion del lor valor soprano.
Onde incontrarsi e dier di petto insieme
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Con quel tuon, con quel suon che tona e sona
Il cielo e il mar, se le procelle e i nembi
E del mare e del ciel turban la pace.
Folgori alor sembraro i degni eroi
Di romor carchi e cinti di baleni:
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In modo ferno in le spade brandite
E in l’armi ripercosse da i lor colpi
E sentire e vedere in un momento
Isplendore et istrepito tremendo.
A tal che, soprapresi i circostanti
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Da un certo crudo e smesurato orrore,
Pareano da viltà rotti e conquisi,
Sì mancato era lor la voce e il fiato.
Ma del pari durando la contesa,
In cambio del lodar l’agile e destre
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Persone lor, la valentigia e l’arte,
Succedeva il terror la passione,
Che avean mirando le ferite e il sangue
In cinque di quei sei, restando illeso
Orazio, luce di Roma e speranza
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De i Romani regnanti in virtù sua.
Onde ciascuno Iddio non pure aggiunti
Ha gli anni de i fratelli a i di lui giorni,
Ma la morte di lor conversa ancora
Ne la immortalità che lo conviene.
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Or al caso venendo, duo de i nostri
Cadder quasi in un tempo un sopra l’altro;
Alora gli aversari alzar le grida,
Restando noi e sbigottiti e muti:
Che impossibil parea che un sol s’avesse
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A difender da tre, conversi in uno,
S’i erano ristretti e insieme uniti.
Ma Orazio immortal, che tenea certo
Di rimaner superiore quando
Si trasformasse la zuffa in duello
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(In l’arte militar compreso avendo
Che il valor senza il senno sembra un fuoco
Che non ha esca da nutrir la fiamma,
E che il senno e il valor paiano un lume
A cui non manca il nutrimento proprio),
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In più parti divise la battaglia,
Col soffrir che il suo animo fingesse
La viltà de la fuga: tal che sparti
Gli inimici il seguissero de lungo,
Come il vero il seguiro. Et ei non molto
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Innanzi corse che, rivolto indietro,
Visto color che il seguitavan presti
L’un discosto da l’altro, uccise il primo
D’un solo colpo; e incontrando il secondo,
Pure d’un colpo sol la morte dielli:
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L’ultimo fratel suo non lo potendo
Punto aiutar, sì fu ratta la spada
Che il petto penetrogli. Onde i Romani
Uno di quei romori alti levaro
Che sogliono levar lieti coloro
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Che la perduta speme han ritrovata.
Acquetate le voci, Orazio disse:
Doi a l’anime già n’ho consacrati
De i fratei miei, or vo’ consacrar l’altro
A la causa sol di questa guerra,
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E perché ad Alba signoreggi Roma
E a ciò tra lor d’affinità congiunti
Sempre si godan ne i beati campi
Di quella parentela che la sorte
Non ha patito che godino in questi.
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Ora, se ben del pari era la briga,
Orazio, non ferito e non istanco,
Nulla stima facea più del ferito
E stanco sì, sì di speranza ignudo,
Che si offerse a la morte di sé stesso
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Più tosco che a l’offesa del nimico.
Ma per esser non men degno di lode
L’aver pietà del nimico infelice
Che il vederselo a i piè languiso e vinto,
Il guerrier nostro in voce senza orgoglio
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Disse non lieto: O misero cognato,
Non già di nimistà odio protervo,
Ma de la patria amor vòl ch’io ti uccida,
Che or a me perdona la vendetta
Come a te io, che m’hai i fratelli uccisi,
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Ho perdonato la crudele offesa.
Così detto le canne trapassoli,
Tal ch’egli diede con le reni in terra
Senza batter più polso o aprirci occhio.
Or con fausto conforme a l’allegrezza
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Che richiedea l’importanza del caso,
Ricevero i Romani il vincitore;
E con tanto maggior grido ridente,
Quanto la cosa era stata più presso
A la temenza del perder l’impresa
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Che a la speranza del vincer la guerra.
Ma perché Tullo, l’essercito e tutti
Sapean che Roma era sospesa e in forse
Di ciò che in gloria sua successo è pure,
Nunzio mi fer di quel che avete udito.
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Sì che i prieghi, che a i Dei porgea ciascuno
Perch’a i Romani rimanesse il regno,
Rivolga ognuno in render grazie loro,
Da che secondo il voto è pur rimaso.
E tu, popol, concorso ad ascoltare
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Il commune contento, allori e palme,
Ogni erba, ogni fiore et ogni onore
Spargendo va’ per la cittade allegra.
Ma prima che nessuna cosa facci
Di quante far ne dèi, rompi e dischioda,
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Dischioda e rompi le prigioni oscure,
A ciò i sepolti ne lor centri vivi
Non moian tuttavia, mai non morendo.
In questo i sacerdoti, inni cantando
Con celeste armonia, ordine diano
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A ferie, a processioni, a sacrificii;
E poscia il Re a spettacoli nuovi
E a giuochi inusitati attenda lieto.
Tu, Publio, in questo in la tua gloria esulta,
Perché più vita è nel figliuol che vive
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Che non è morte in quei duo che son morti.
Oltra a ciò si prepone a ogni cosa
Il fatto de la patria; et oro e vita
Si disprezza per lei, che vita et oro
A noi è ella; e ciascun grado cede
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A quel che si ritrae da l’aver posto
Ciò che ci è in pro suo, cede ogni grido,
Benché acquistato col ferro e col senno,
A la fama di tali, e statue e templi
Drizzansi in pregio lor con sacri onori.
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Ma in quanto a te, di duo figliuoli in vece
Tutto il Romano stuolo, il popol tutto
Ti resta in figlio e diè chiamarti padre.
Sì che, per esser più grande lo acquisto
Che non è stata la perdita grave,
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Resti superiore il gaudio al duolo.