Pietro Aretino

L’Orazia





Texto utilizado para esta edición digital:
Cremante, Renzo (ed.), Teatro del Cinquecento, vol. 1 Tragedia. Milano-Napoli: Riccardo Ricciardi Editore, 1988, pp. 577-727.
Adaptación digital para EMOTHE:
  • Semplice, Silvia

A PAOLO TERZO GRAN VICARIO DI CRISTO

Per convenirsi (in quanto a l’essere e cosa di Dio e mirabile uomo) tutta la terrestre laude, tutto il mondano onore e tutta l’umana gloria a l’ottima massima di voi Beatitudine (da che non posso glorificare, onorare e laudar quella se non con l’affetto che in sé tengano i parti che mi procrea ne lo ingegno la Natura che me lo diede), ecco che io, ne l’atto de lo intitolarle, conl’umiltà de la riverenzia con cui le bascio il piè, la presente opera, la laudo, la onoro e la glorifico quasi Nume glorificato, onorato e laudato da le menti, da i cori e da gli spiriti de le più divote creature del mondo. Di Vinezia il primo di Settembre MDXLVI.
Inutil servo
Pietro Aretino


GLI INTRODOTTI NE L’ISTORIA

[LA FAMA]
PUBLIO, padre de gli Orazii
SPURIO, amico di Publio
MARCO VALER[IO], feciale sacerdote
CELIA, di Publio figliuola
NUTRICE, di Celia
ANCILLA SUA
[TITO TAZIO]
SERVO
DUE PERSONE, a caso
ORAZIO, vincitore
POPOLO, Romano
DUUMVIRI, in magistrato
LITTORE
VOCE, udita in aria
CORO DI VIRTÙ, per intermedii

LA FAMA PARLA

ErrorMetrica
Ilustri spettatori,
Io non son ombra uscita
Di grembo in l’altra vita
A gli infernali orrori,
5
Né spirito beato
De i sacri Elisi campi,
Né anima d’onor santificato
Tra i sommi Dei, cinta di chiari lampi.
Non son lor, ma la Fama,
10
Fiato eterno del nome de i mortali;
Però me cerca e brama
Qualunque sempre vòle
Viver nel corpo de le mie parole.
Ch’io sia lei, sol con l’ali
15
Che in su gli omeri regno
E con queste duo trombe,
Il cui suono anche in ciel par che rimbombe,
A farne fede vegno.
Saper dovete intanto
20
Ch’ecco là Roma, dove
Or abito, poi ch’ella
È grande più che mai, più che mai bella;
E sì fatta in mercede
Del suo terreno Giove:
25
Di PAOL terzo parlo,
Ch’oltra il tenerlo il mondo
Sostegno de la fede,
Li par poco il chiamarlo
Tra le fedeli squadre
30
Beatissimo padre
E pontifice santo,
Non che Nostro Signore;
Perché tale può dirsi
Ciascun che nel vestirsi
35
Il mirabile manto
Li è stato primo e li sarà secondo.
Onde lo intitol’io,
Col testimone fido
Di sempiterno grido,
40
De i Papi Papa e de i Pastor Pastore.
Egli è sì amico a Dio
Che lo lascia dar legge
A la instabil Fortuna,
Tal che felicità sotto la luna
45
Non avien che più s’oda
Che in sorte sua l’almo Farnesio gregge
Fatalmente non goda.
E perché nulla manchi
Ne i dì canuti e bianchi
50
A la di lui ventura,
La prodiga in suo pro madre Natura,
Nel bramar un figliuolo de la figlia
Di CESARE al nipote,
Duo glie ne diè in un parto.
55
Or per più grado suo, per più suo merto,
Fa forza al tempo e lo ritorna indietro,
Perch’ei varchi d’assai gli anni di Pietro:
Ma non è maraviglia,
Poi che ha dal ciel l’esser felice in dote.
60
Io già dal ver non parto,
Né caso narro incerto,
Da che l’età più cara
In renderli il vigor fa seco a gara.
Però con l’intelletto,
65
Di più che umana providenza obbietto,
Antivede ogni fine,
Tal che gli accrescimenti e le ruine
Tanto tolgano il seggio e danlo altrui,
Quanto che aggrada a la virtù di lui.
70
Or materia cangiando,
Piaccia a la vostra grazia
Non pur di farvi attenti
Nel muto del silenzio,
Mentre in note or di mèle ora d’assenzio
75
Strani e fieri accidenti
Vi esprimerà l’Orazia,
Ma il tutto tra voi
Considerate, e poi
Giusta sentenza dando
80
Circa lo stil di sì preclara istoria:
Acciò chiaro s’intenda
Se più mertano in sé lode di gloria
De la Natura i discepoli, overo
Gli scolari de l’arte.
85
In cotal mezo è di dover che prenda
Ciascuna penna mia l’aureo suo volo;
E in ogni esterna parte
Di qualunche emispero
Sotto noto si allarga e ignoto polo,
90
Lieta divulghi come
È l’alto Pierluigi in questa etade
Principe veramente
Di bona volontade:
Onde Iddio vòl che in pace,
95
Con approvato nome
Di sincero e clemente,
Regni quanto li piace.
È mio debito ancor caro et onesto
Che d’Alessandro et Ottavio ragioni
100
Con risonante voce
Di dorati sermoni:
Poscia che quel con la di CRISTO croce,
E con la verga de la Chiesa questo,
Son mossi contra il furor manifesto
105
De i popoli infelici,
Di sé stessi e di Dio ebri inimici.
Tosto che l’aere con le piume fendo,
Empirò l’universo,
Non pur i lidi da l’Atlante al Perso,
110
De l’esser il gran Cosmo inclito Duca
Angelo a i buoni, a i rei giusto e tremendo.
Poscia sin dove la terra confina
Col mondo altrui, vo’ che splenda e riluca
Il tre e quattro volte ampio er immenso,
115
Magnanimo e Cristiano Ercole Estense.
Ei che il cor nutre di bontà divina,
Con laude infinita,
Fatta ha don de la vita
A chi d’iniqua sorte
120
Li avea tese le insidie de la morte.
Ma o ch’io più me stessa non sarei
O che d’esser chi sono obliarei
Se, dove stassi il clima freddo e il caldo,
Non ispargessi le virtuti sole
125
Del solo Guidobaldo.
Ei regge e move l’armigere scole
Del Veneto poter, sì d’error vòto
Ch’è ne la sicurezza e nel periglio
Perpetua sede d’eterno consiglio.
130
Ho ne la lingua scritto
Il Gonzaga Ferrante,
Del senno e del valor termine immoto;
Onde non formo ditto
Che non lochi il suo onor vicino a quelle
135
Aventurose stelle,
Anzi di Dio lucerne sacrosante
Che han la protezion di Carlo Quinto,
La cui eccelsa maestade inchino,
Pigliando qualità da l’uom divino.
140
E perchè gli altri han vinto
Gli uomini e il Re Francesco ha domo il fato,
Sempre fia celebrato
E ne i fori e ne i tempi
Da tutte le mie lingue, in tutti i tempi.
145
Ma perché del parlare io mi alimento,
Per dir de i sopra detti, ove mi sia,
Nel venir oltre Publio a passo lento,
Ecco ch’io volo via,
Con sommo onor del conte Pier Maria.


ATTO PRIMO

PUBLIO
ErrorMetrica
150
Poi che l’arbitrio e l’ordine de i fati,
Oltre l’ansia e la invidia de lo impero,
Move Alba e Roma al grave orror de l’armi,
Confusa lode et istrana memoria
Si acquista il pronto consiglio di Mezio,
155
Re de i nostri aversari e Dittatore,
Come anco il presto conchiuder di Tullo,
Dittatore di noi e Re diletto.
Poi che l’uno, trovato un breve modo
Da terminar la così lunga lite,
160
Ha fatto sì che l’altro si contenta
Del preposto partito in diffinirla.
Onde avien che tre giovani discesi
De l’aurea stirpe di Romolo Divo,
Et altretanti egregiamente usciti
165
De l’almo ceppo di Lavinio sacro,
Di età conformi e di valore uguali,
Debbono pur recar la patria propria
Al caso incerto di quella fortuna
Che l’animo et il ferro in un conversi
170
Procacciarle saprà con mano invitta.

SPURIO
Spirito de l’altrui bello intelletto
Veramente può dirsi un buon giudizio
Che nel discorso de gli strani eventi
Non si lascia ingannar da l’apparenza,
175
Falsa certezza de i progressi loro;
Benché l’antiveder di ciò che segue
Dono è di Dio: la bontà sua lo porge
A chi li pare, a chi si dee tra noi.
Io parlo ciò, o amato Publio, amato
180
Da me qual ama sé chi sé stesso ama,
Ciò parlo io perché il destino e il regno,
L’un con le forti potestà prefisse,
L’altro con le superbe ansie del sceptro,
Spingan la volontà d’Alba e di Roma
185
A rivolger la pace in guerra dura,
Come il saggio cor tuo disse di sopra.
D’ambi è la colpa e non del rozo et aspro
Rustico stuol che depredò le ville
De le predette alte città soprane:
190
Tal che le tolte e non rendute cose
Fanno a la plebe creder che si rompa
La confederazion tra gente e gente.
Ma perché, o umana brama ingorda
Di soggiogare altrui, tanto t’infiammi?
195
E perché, stelle, imporre ad altri un fine
Che a schifarlo nessun trova principio?

PUBLIO
Né cupidigia d’uom, né ardir di stella
Può ciglio alzar, dove pon mente Iddio:
La cui pietade larga, alta e profonda,
200
Promosso il tutto a cedere a quel cenno
Del quale trema pur la terra e il cielo,
Farà che Roma, già discesa d’Alba,
Seggio di monarchia cercando altrove,
In comune union colleghi insieme
205
I Romani e gli Albani, avi e nipoti,
Tal che in amor la inimistà conversa
Noi sarem loro et essi noi saranno.
Ringrazio intanto quel patrizio Nume,
Quella patricia Deità ringrazio
210
Che permesso ha che l’uno e l’altro Rege
Elegga sol, tra il gran numero illustre
Di duo incliti popoli a la pugna,
Dal di noi lato i figli miei graditi
E dal lor canto, co i fratelli appresso,
215
Il genero di me: che Giove prego
Che vivo mi profondi ne gli abissi
Quando pur sia che del mio seme i germi
Per via men che d’onor salvin sé stessi
O in parte alcuna lor virtute manchi
220
A l’alta oppenion di Roma tutta.
E così d’esser suto padre a tali
Proverbiato non sarò da i vinti,
Né a dito mostraranmi i vincitori.
Ma torna l’augurio empio del dirlo
225
In propizio favor d’averlo detto,
Sì mi par che al cor mio giuri il suo spirto
Che forse adesso de gli Orazii il telo
Va rompendo la fede e il sacramento
Del matrimonio non consunto ancora
230
Tra il cognato infelice e la sorella;
E i Curiazii in cotal mentre armati
Cangiano il fausto de le altere nozze
In oscura funebre orrida pompa.
Ma l’uom ch’io veggo in sacre bende cinto
235
E di religioso abito adorno,
Grave nel moto e grato nel sembiante,
Mi sembra il buon Valerio: o Marco salve,
Salve perch’anco a me salute apporti,
O ne lo effetto, o ver ne la speranza.

MARCO VALERIO
240
Publio, se mai gir dispensando i poli
Le grazie lor sopra nazion terrestre,
I Romani son quelli; e se nel mondo
Animo interi e di valor composti
Denno ottener la vincitrice palma,
245
Prescritto è ciò de la tua prole in gloria.
Perché la sorte ha di noi cura innata,
La sorte, ch’una mente errante e fissa
È de i superni influssi ottimi e rei:
La qual ciò che vuol pò e vòl sempre ella
250
Ciò che la lor contrarietà possente
Le fa voler. Però quel ben, quel male
Che sopra sta a gli uomini diversi
Quando trattan la somma di quei gesti
Che pareggiano i nostri d’eccellenza,
255
Seguir bisogna, come seguiàn noi
Ora che l’amicabile fortuna
Piglia l’occasione atta a gradirne
Con il braccio de i segni protettori
Del regno che pervienci e che daranne
260
La virtù de i tuoi figli. or queta il core,
Per ben che qualche turbido accidente
Ardisse di adombrartelo co i casi
Che a la felicità sceman la gioia.
E perché in la vittoria è posto il tutto,
265
Come aperto si vede e si comprende,
Ella patria ti fia, ella figliuoli,
Ella beatitudine, ella vita,
Libertà ella; sì che segua ormai
Ciò che in tal atto ormai seguitar debbe.
270
Che poi che non traligna in modo alcuno
L’altezza del tuo animo constante
Dal legitimo alter Roman valore;
E che pur la fortalezza, ch’è scienza
De le cose ch’ardir porgano e tema,
275
Il cor non ti rivolge a pensier vile,
Né a temerità vana insolente,
Di magnanimo e forte il privilegio
Tosto avrai, tosto ti sarà concesso.
Che spargendo la Fama in ogni lido
280
La di te virtù alta, è di mestiero
Che si registri in tutti gli emisperi.

PUBLIO
Io, che il vorrei, nel tuo parlar lo scorgo,
Ne l’alma il sento e ne la mente il noto.
Belché, se lice a me saperlo, dimmi:
285
Che sasso è quel? che strumenti son questi?
E perché la gramigna e la verbena?
A che fin vesti il feciale ammanto
E del gran sacerdozio il grado osservi?

MARCO VALERIO
La causa che i Romani e che gli Albani,
290
Di sangue e d’odio egualmente congiunti,
Con triplice certame agitar denno,
È cagion de le cose che in me scorgi;
Ma perché a te doppia ragion richiede
Nel publico interesse che ti preme,
295
Sì per amor de la nativa patria
Che sicura in sé sola e dubiia stassi,
Sì per lo affetto del tuo proprio sangue
Che a mortal rischio in pro di tutti esponsi,
Onde ti è debitor d’obligo ogniuno,
300
La tua risposta sodisfò con dirti
Che subito che i Re ebber concluso
Il combatter di questi e quei fratelli
Con l’arme usate in l’uno e in l’altro campo,
A ciò l’imperio libero e sicuro
305
In sempiterno si rimanga dove
Il ceilo, i Dei, la sorte e la virtude
A i vincitor destinano il trionfo,
Le maestadi loro unitamente
E del tempo e del luego convenute,
310
Senza punto alterar patto né forma,
Replicaro a gran voce intra le schiere
Le qualità del nuovo appuntamento:
Confermando che quel popolo, quello
Che inferior si ritrova al contrasto,
315
Ubidisca al vincente tuttavia.
Per la qual cosa fu mestier ch’io fussi
Creato in sacerdote feciale,
Con autorità di protestare
Pace e guerra; e così, l’abito preso,
320
Con modesta sembianza mi rivolsi
Riverente al Re nostro, a lui dicendo:
Mi fai tu nunzio tuo? vuoi tu ch’io faccia
Lega solenne con patrato padre
Qui de gli Albani? Se ciò, Re, tu vuoi,
325
L’erba pura mi da’. Consentendo egli,
Con real gesto la gramigna diemmi,
Colta nel poggio de la nobil Rocca
Alor che Cinzia rilucea ritonda.
Io, tocco presto il capo et i capegli
330
Di Fisio pio con la verbena sacra,
Il procreai di noi padre patrato:
A ciò che il giuramento senza frode
La confederazion servasse illesa
Senza dubbio verun de gli aversari.
335
Poscia con cerimonie sacrosante
Lette le condizioni de l’accordo,
E con lungo proemio e gran silenzio
Registrate in le tavole presenti,
Dissi con gli occhi in verso il cielo fissi:
340
O tu che parti le fatiche eterne
De la luna e del sole, e il chiaro e il fosco
Porgi a le meste notti e a i lieti giorni,
Fattor de gli astri larghi e de gli avari,
Che ne le empiree loggie affigi il trono
345
Del volubil collegio de i pianeti,
Le stagion volgi e tempri gli elementi,
Né spunta frutto o fior da verde ramo
Che la di te ministra alma Natura
Da la tua volontà non l’abbia in grazia,
350
In somma alta cagion d’ogni cagione,
In questo istesso dì rompi e ferisci
Visibilmente e senza pietà alcuna
Il popolo Roma, caso ch’ei sia
Per publico consiglio a mancar primo
355
A le convenzioni intese e fatte
Con decreto real, con mente intera.
E tanto più il romperlo e il ferirlo
In sé tenga di giusta violenza,
Quanto maggior sei di possanza, Giove,
360
Ch’io già non sono. E così detto, alzato
Il braccio in sù e declinatol poi
Con furia in giuso, del cenghial la testa
Ferii, con questa selice tagliente.
Gli Albani, fatto co i lor sacerdoti
365
E col Dittator lor quel che in lor legge
Costuman fare in tòrre e in dar la fede,
La fede sacra de gli umani petti,
Ben santissimo e sol che nol corrompe,
Che non lo astringe in nessun tempo mai
370
Premio o necessitade, ora fornito
Tra loro il tutto e ciascun fiero stuolo
A i suoi luoghi ritratto e in gesto altero
Cerchio facendo a i combattenti degni:
Perché li parve, commandommi Tullo
375
Che a i Padri in nome suo io presentassi
L’acuta pietra, i reveriti cespi
E i riquadrati spazii in cui si legge
Ciò ch’essi leggeranvi, risolvendo
Con grato affetto di religione
380
In qual tempio, a qual Dio, sopra qual ara,
Con nuova foggia di solennitade,
Si debban dedicar gemme sì care;
Sì che andrommene a lor nel commun foro
Con sollecito piè, con passo pronto.

PUBLIO
385
Difficile ti fia certo il trovargli,
Se a gli Dei sculti non gli trovi innanzi
Divottissimamente suplicanti;
Che non prima l’accordo publicossi
Ch’ivi si trasferirno, ivi si uniro,
390
E tenero et umile insieme seco
Il preclaro drappel de i cittadini,
De le donzelle pie l’alta caterva,
De le leggi i ministri e de gli ufficci,
Il numero infinito de i plebei,
395
Ogni studio et ogni arte deponendo
Per impetrar pace e mercé dal cielo.
Tal ch’esercizio alcun non pone in opra
La industria manual, né s’ode fabro
Che martel risonar faccia in la incude;
400
Et io co i prieghi ho commandato in casa
Non pure a i servi, a i liberti, a l’ancille,
Che faccian ciò che fa ciascuno in Roma,
Ma l’ho imposto a la mia figlia ancora.
Il valore de l’asta e de la spada
405
E ’l timore de i riti e de le pene
Non tiene in alto le cittadi magne,
Come la riverenza e l’osservanza
De la religione e de gli Iddii.
Egli è così come tu dici e sempre
410
Così sarà, che così fu d’ogni ora.
Però da parte il lascio e perdon chieggo
A la degnità tua pietosa tanto,
Che più tosto ha voluto compiacere
A l’interrogar lungo ch’io ti ho fatto,
415
Con lo indugiar l’opra che il Re t’impose,
Ch’apprestarti a fornir sì gran servigio.
L’avertir me del dove certo e tosco
La reale de i Padri maiestade,
Da le turbe divisa e in sé raccolta,
420
Ritrovarò, dono mi par sì grato
Che in ricompensa di tal cosa il prendo
Quando altro merto in te non fusse, o Publio.
Or ambi meco venitene, amici.

PUBLIO
Così facciam: tanto ci piace il farlo.

CELIA
425
Ch’io arda incensi e ch’io accenda lumi
E che rose, viole e gigli sparga,
Spiegando veli candidi e sottili
Sopra gli altari, in qual mi aggrada tempio,
E che la mia innocenzia si dimostri
430
Di sacerdote in guisa e sembri un d’essi,
Vòle il genitor mio saggio e prestante:
Aciò che il ciel si mova a far regina
Roma d’Alba, che onor seco pretende.

NUTRICE
Non vi par che ’l degno uom, del qual voi sete
435
Spirto, sangue, vigor, carne, ossa e pelle,
V’abbia con amor dolce imposto cosa
Cara et onesta?

CELIA
Non che ciò non parmi,
Che onesta cosa e cara stata fora
Che procreata non mi avesse in terra;
440
O che nataci, il fil tronco si fusse
De lo stame vital sul far del nodo.
Onde il mio spiritel prima averebbe
Visto il cielo che il mondo e Iddio che l’uomo;
E così non sarei la più dolente,
445
La più infelice isventurata donna
Che persegua tra noi stella maligna,
Pianeta iniquo e dispietato influsso.

NUTRICE
Celia, a me figlia per il dato latte,
Ma per grado madonna, io sì vi dico
450
Che il saggio padre vostro ora volendo
A gli Dei farvi supplicare in guisa
Che supplica et in publico e in privato
Ogni ordine, ogni etade et ogni sesso,
Cossa v’impine che più tosto merta
455
Letizia e riso che dolore e pianto.

CELIA
Madre, qualunque in Roma è creatura,
Perdendosi l’impresa altro non perde
Che la sua libertade, ch’è tal volta
(Benché misera sia la servitute)
460
Di miglior condizion che il mantenerla.
Avenga che chi libero ci nasce
Bisogna ch’ubidisca a la superbia,
Vizio aborrito son da i suoi seguaci;
E chi suggetto ad altri entra in le fasce,
465
Gli è l’umiltade ubidiente ancella,
Virtute a cui ogni virtù s’inchina.
Oltra ciò più si loda chi ben serve
Che chi ritrosamente signoreggia.
Ma io, io se Roma vince, perdo
470
Il marito dolcissimo e i cognati;
E vincendo Alba, qual vincer potria,
Oltre il dominio de la libertade,
De i fratelli privata mi rimango.
Or chi provò giamai fortuna iniqua,
475
Che la sorte mia dura in parte aguagli?
Perché, lassa, non nacqui maschio anch’io?
Ch’ora de i prodi Orazii uno sarei,
O che ’l soperchio numero de i quattro
A la somma de i tre sendo dispari,
480
In altri riducea la elezione,
Onde non languirei, come languisco.
Ma da che ci son pur femina nata
(Quasi povero fusse l’universo
D’ogni altro essempio di calamitade),
485
La natura devea, deveva darmi,
In cambio vago de le treccie d’oro,
De le labbra, de i denti, de le ciglia
E d’ebeno e di perle e di rubini,
La sembianza d’un mostro spaventoso.
490
E così la beltà, la beltà frale,
Per lusinghe d’amar non averia
Constretto Curiazio a tormi in moglie:
Tal che fuora sarei di tanto affanno.

NUTRICE
Poi che in l’aversitadi si diventa
495
Prudente e saggia, imparate ora voi,
Dotta d’ingegno, a essere in voi stessa
Saggia e prudente: che di tempre tali
Tenuta è la persona che in un tempo
Sodisfà et al cielo et a la terra.
500
Che a la terra et al ciel sodisfarete
Caso che la viril prudenza usiate
In frangente sì strano: la prudenza,
Grandissima virtù tra le virtuti
Che d’eroico titolo son degne.

CELIA
505
Saputa mia Nutrice, ottima donna,
Io più quella non sono, io non mi sento
Più in me stessa; e vi prometto e giuro
Che, mentre eglino fan mortal battaglia,
Anco in me la propria anima contende
510
Co i suoi spirti medesmi e il cor pronto
Seco stesso a combatter si rivolge.
La mente è il campo lor, l’armi i pensieri,
Che sì cari parenti han per obietto.

NUTRICE
Per averci la provida Natura
515
D’una sola materia generati
E a un sol fin, tutti congiunti siamo.
Onde ciascun che mor pianger dovremmo,
Quasi che uscisser del sangue ch’uscimmo.
Certo ch’anima e spirto e cor mi sono
520
Gli Orazii illustri e i Curiazii soli;
Ma e vita e salute e membra e senso
E senso e membra e salute e vita emmi
Lo sposo mio, il mio sposo diletto,
Lo sposo ch’io adoro; e s’egli more,
525
Anch’io morommi, e viverò s’ei vive.
Fragilità vie più che feminile
È il dolersi de i sinistri ch’anco
Non precedano a noi contra co i mali.
Ma quando pur l’orribel fortuito
530
Ocorresse a lui solo, è da quetarsi,
Perch’uscir del sepolcro è il gir sotterra
Per cagion laudabile e famosa.
Oltre che chi ben mor, felice scampa
Del mal vivere il facile periglio.

CELIA
535
In massa tenerissima mi trovo
Et in vivace imago essere impressa,
Non in terso diamante o in diaspro
In forma d’alma Dea vaga scolpita:
Però virtù non è che possa tòrre
540
Le sue giuridizioni al mio dolore.
Benché non penso che sia mai di carne
Colui che ne i guai suoi non si risente;
E chi mostra di fuor sereno il ciglio
Quando assalito è da le aversitadi,
545
A sé medesmo adula e sé schernisce
Con la miseria de la sorte mala:
Onde il cor, che ha di ciò vergogna extrema,
Non ardisce apparir suso in la fronte.

NUTRICE
Se voi poteste temperar la doglia,
550
Come sapete esprimerla e sentirla,
Il consiglio di me fora soperchio.

CELIA
Il più certo e il miglior ch’altri abbia amico
È il cor del suo petto: ei che non finge,
Ei che non si compiace, ei che non mente,
555
Senza rispetto alcun rivela il tutto.
Ond’io che osservo il mio che mi fa fede
Del futuro cordolio, aggiungo tema
A la paura del presente orrore.
Imperoché una desta visione
560
E non istrano adormentato sogno
Mi ha colmo di terror sul far del die.

NUTRICE
Le visioni e i sogni son tutt’uno,
Che non gli varia in la menzogna il nome.
E queste e quelli la dieta e il cibo
565
Creano ne la mente di chi dorme,
Onde si rapresentan cose a noi
Che mai non si pensaro, e chi lor crede
È vano come loro; sì che, o Celia,
In cambio del turbarvi, consolate
570
Voi medesima in ciò e stia pur sempre
L’aversità che intervenir potrebbe
Ne i fantasmi de i sogni sì bugiardi:
Che quel vero che dicano di rado
Va mentendo a sé stesso, e le chimere
575
Di quella che chiamate visione
Son degne di ridicolo dispregio.

CELIA
Foste voi la Sibilla e sì mentisse
Il profetar del pronostico atroce,
Che volendolo udir, forse il terrete
580
Quel ch’io lo tengo.

NUTRICE
Or sù, dite, che ascolto.

CELIA
Oimè, che con questi occhi aperti e chiusi,
Con questi chiusi et aperti occhi a l’alba
Vidi qual veggo voi, io vidi chiaro,
Col senso non corrotto da quel sonno
585
Che in sé e di sé fuor mostra colui
Il qual si frega i cigli e sbadigliando
Torce il guardo abbagliato e l’aere mira;
Né sì tosto lo scorge che ritorna
A riserrar le luci che sicure
590
Riapre al fine e ciò che vòl discerne.
Io, con la vista d’ogni velo scarca,
Vidi nel suol de i nostri tetti altieri
Tre faci accese di fulgenti lumi;
Ma quella che sedea tra l’altre in mezo
595
D’eterno fuoco ne la guisa ardea
Che ardon le lampe a i simulacri intorno.
E standosi così, ecco a l’incontro
Tre rabbiosi apparir venti condensi,
Con volto orrido e nero e con le chiome
600
Dinanzi al fronte scompigliate et aspre,
Pregne di sdegno, di fortezza e d’ira:
Da le cui bocche perigliose usciva
Stridente orror di foribondo suono.
E mentre lo spettacolo tremendo
605
Tira a sé gli occhi di turbe non poche,
Ecco che un soffio del lor fiato ispegne
Due di quelle mirabili lucerne,
Che ne la sommità del nostro albergo
Ale faceano al torchio risplendente:
610
Che indietro ritirato, quasi ch’egli
Fuggisse in sé le rapide tempeste
Come avesser di spegnerlo valore.
Poi rivoltate le sicure fiamme
Inverso l’inimiche atre sembianze,
615
Col vampo de lo incendio isfavillante
Due n’estinse et in cenere converse,
E poco dopo fe’ sparir la terza,
Come l’altre spariro. E perché io
Me ne dolea, quasi che a me toccasse,
620
Mi saettò d’una scintilla amara
Che m’arde sì che consumarmi sento
Non altrimenti ch’io ne fussi accesa
E da dover ne ardessi; e già converte
In fumo e in vento il mio spirto e me stessa.

NUTRICE
625
L’altrui tragedie, come voi sapete
Per esser meco in le scienze istrutta,
Ancor che siano de l’istorie fole,
Non ardirebber ne le scene loro
Una imaginazion tener per certa,
630
Se avesser bene in ciò per testimoni
Quanti oracoli i Dei tengano in terra,
Non che tutti i prodigi et i portenti.
Ma voi in voi medesima accertate
Cosa che forse fia com’io vorrei
635
E qual voi meritate; sì che, figlia,
Mutate un poco oppenion, di grazia,
Però che a la divina providenza
Non manca modo di trovare un mezzo
Che, l’onor salvo de le due nazioni,
640
Ambe le parti in sé restin concordi.
Chi sa che Giove, ch’è somma bontade,
Somma union, misericordia somma,
Tra Roma et Alba non iscelga un fine
In cui la lite lor termine in bene:
645
Onde poi Curiazio sposo vostro
Vi riprenda di quel ch’io non vi lodo.

CELIA
Il tutto sta che ciò mi convertisse,
Tosto ch’io pongo dentro al tempio il piede,
In vittima o in ostia, consacrando
650
Questo sì tristo e tormentato corpo
A la infelicità del suo martirio.

NUTRICE
Da che peccate in sì perverso umore,
Essendo spezie di felicitade
Il saper altri ciò ch’è di mistiero
655
Ne le disgrazie sue, cercate dunque,
Che il modo vi darà di ritrovarlo
La pazienza: che virtute alcuna
In l’uom non è che in degnità l’aguagli;
Né miracol si tenga, però ch’ella
660
D’Iddio è invenzione, Iddio trovolla
Perché la cieca e vil disperazione
Insieme con la sorte che la guida,
De la imprudenzia sua si vergognasse.

CELIA
Ecco il tempio u’ gir soglio: Ancilla, u’ sono
665
Le bianche cere e i preziosi incensi,
Con l’altre cose che dianzi ti diede?

ANCILLA
Il tutto è in questo bel vago canestro.

CELIA
Entriam dentro, Nutrice, dentro entriamo,
Né si resti di far quanto si dee:
670
Faccia Iddio poi.

NUTRICE
Così, Celia, si parla.

CORO DI VIRTÙ

ErrorMetrica
Noi virtuti siam molte,
A varie opre rivolte,
Tal che in diversi modi
Convien ch’altri ci pregi e che ci lodi.
675
Parte a sé Dio ne toglie
Senza torle a sé stesso,
E ’n chi più degno n’è le infonde spesso
Con graziose voglie.
L’intelletto ne crea,
680
La lingua ne produce,
Ma la fortuna è duce
A quelle di cui l’animo si bea,
Però che in alti effetti
Esprimano il valor de i lor concetti.
685
Onde il buon Publio, amando
La patria libertade,
Real virtù de la sua gran bontade
Ha dimostro parlando.
Spuio giudizio grave
690
In ascoltarlo ha discoperto; e Marco
Ne le racconte cose
Che a i duo erano ascose,
De la religion di cui tien carco
Testimone fatto have.
695
Taciam di Celia, d’ogni speme fore,
E lodando il consiglio in la Nutrice,
Con ventuoso amore
Fine atendiam felice.


ATTO SECONDO

PUBLIO
ErrorMetrica
Sogliano si può dir tutti i mortali
700
Rivolgersi a gli Iddii con voti e preghi
Alor che la speranza gli abbandona.
Ma i Romani, quanto più son presso
A conseguire i desideri loro,
Tanto più verso il ciel corron ferventi.
705
Però la moltitudine infinita
Di noi divoti, intorno a i sacri altari,
Con le ginocchia de l’anima umili
E con quelle del corpo in terra fisse,
Altro non fa che chiederle con fede
710
Quello che pur siam certi d’ottenere.

SPURIO
È la religion scala per cui
Il mondo ascende al cielo; onde il Motore
Immutabile, immenso, omnipotente,
Prospera i buoni perversando i rei.
715
Ma chi conosce Iddio sol ne i travagli,
Da lui non è compreso in alcun tempo.
Ringraziamolo adunque, da che noi,
In cosa dritta o tòrta che ci avenga,
Non restiam di ricorrere a i suoi piedi.
720
E di chi vien che il lauro e che l’olivo,
Ambi duo consumati, arridi tronchi,
Hanno fuora spuntato e frondi e fiori.
Dico l’olivo e il lauro, arbori eletti,
Che in segno di pace e di vittoria
725
Piantò di mano sua Romolo giusto
Appresso al tempio di Giove Statore
E a lato a quel del Feretrio tonante,
Alor che il Re de i Ceninensi uccise
E quando in carità l’odio protervo
730
Convertì de i Sabini infuriati.
Onde gloria e concordia ne indovina
Il miracol sì grande, rapportato
Da la ministra de la Dea Vesta
A i Padri ch’anco non sanno ove porre
735
Le cose che Valerio offerse loro:
Benché le impenderan dove le spoglie
De i Curiazii soggiogati e vinti
Appenderansi in ricordanza eterna.
Perché, sopo il poter de i sommi Dei,
740
Di consenso fatal l’inclita Roma
Debbe esser di fortezza e di potenza
Superiore a tutte le nazioni,
Como afferman gli auguri e i vaticini
E l’altre menti in ciò fatte presaghe.

PUBLIO
745
D’Apollo detti son quel che tu dici.
Or io del tempio ti ho fuor tratto, Spurio,
Perché il cor, che devrebbe essere intento
Al divin culto, al pregar Dio che adempia
L’universal de i Roma credenza,
750
È là, non dico dove tengo i figli,
Ma u’ l’imperio di noi altri stassi
Ne la bilancia de le spade loro.
Oltre di ciò, il vampo del rossore
Mi arde alor che ciascun mi guarda: come
755
Veder potesti subito ch’entrammo
Nel sacro luogo, quando tutti i volti
De i circonstanti si affisar nel mio,
Che fia, Publio, di noi? nel cor dicendo.

SPURIO
Ciascun suggetto di mirando affare
760
E gli uomini prestanti e i circospetti,
Insieme con le turbe ignare e vane,
Con temerario error, con moto stolto,
A contemplar la sua sembianza sforza.
Peroché quelle cose le quai sono
765
Esenpio singular di maraviglia,
Rivolgano in sé stesse ogni occhio ingordo
De l’eccellenze sue, de le sue grazie,
Con imprudente e pueril vaghezza.

PUBLIO
L’amicizia, ch’è una certa e dolce
770
Union di perpetua volontade,
Et il fine di lei, essa e non altro,
Sì come quel de l’amico è l’amare
Nel modo che da te sento amarmi io,
Causa ch’io ciò che non son ti sembri.
775
Ma se in me o in la progenie mia
Cosa si vede che lodar si possa,
È che ci nasce la Romana prole
Dotata di virtù sole e divine,
Ond’è naturalmente ammaestrata
780
Di gravi discipline e di severe.
Però di Celia la Nutrice e lei
Son, qual si dice, di eloquenza vasi:
Ch’anco ne le academie dotte e saggie
Si fan sentire i feminili ingegni.
785
Ma costui ch’oltre viene e che ognun corre
A vederlo, chi è? Ei parte ha in dosso
De l’armi e ne la destra un troncon d’asta,
Eroico ha l’aspetto e il capo inculto:
Certo in l’abito ruvido dinota
790
E in la persona senz’arte sprezzata
Lo strenuo amor che a la milizia porta.

SPURIO
Mi par de le centurie un cavaliero,
Che per vederlo di ridente ciglio
Sento il cor palpitarmi in la maniera
795
Che palpita nel petto di colui
Che si vede vicino a la speranza.
Ei s’è rivolto indietro a sgridar forse
La gente, che vorria cerchiarlo intorno.

PUBLIO
Da che più tosto intervengon le cose
800
Che non si speran, che quelle sperate,
E però che la speme e la paura
Duo carnefici son taciti e crudi
De gli esiti di noi, ne lo apparire
Del milite che pur viensene via,
805
Da le vene e dal volto emmi fuggito
Et il sangue e il color; ma perché sempre
Sperar si debbe e non temer giamai,
Torna al suo luogo et il colore e il sangue.

SPURIO
Di campo vien, gli è Tito Tazio: Tito?

TITO
810
L’esercizio di Marte e le fatiche
Che fan la notte dì, letto il terreno,
Mi varian sì la faccia da quel ch’era
Ch’anche tu, Publio, non mi raffiguri:
E son pur Tazio, che novella arreco
815
Che replicati merita complessi.

SPURIO
Se ben si teme, mai non si spaventa
Se non quando il pericol sopragiunge;
E però Publio, che ambiguo si stava
Circa il fin de la pugna, te veduto
820
Tornar di campo, s’è tutto confuso.

PUBLIO
Per saper io che gli esiti de l’armi
Variano spesso da quel ch’altri stima,
Nel vederti ho temuto non udire
Del mio creder l’opposito, e mi scuso
825
Col porre al collo tuo le braccia mie:
Ch’altro segno maggior non so mostrarti
Nel caro annunzio che prometi darmi.

SPURIO
Gli abbracciamenti e i basci sono i frutti
Che le viscere, il cor, gli spirti e l’alma
830
Colgano con le mani affettuose
Ne gli orti de la lor benivolenza.

TITO
Publio, il Re ti satuta e si rallegra
Teco tutto l’esercito et Orazio,
Orazio vincitor, per la mia lingua,
835
Con la bocca del cor ti bascia il fronte.

PUBLIO
E perché non gli Orazii? Adunque un solo,
Un solo adunque avrà il trionfo? Overo
Tutti gli altri son morti? Tito, dillo,
Dillo a me senza indugio, che per Dio
840
Non mancarò d’esser quel uom ch’io debbo.

TITO
Da che Tullo mi manda perché il tutto
Dica a te, padre de lo invitto duce,
E perché poi al popolo et a i Padri
Narri il successo, ti comincio a dire
845
Che i sacerdoti non ebber sì tosto
Collegato l’accordo, che i fratelli
De le due nazioni preser l’armi;
Tal che ciascuna parte si ridusse
A confortare i suoi, gli Dei paterni,
850
Le madri, i padri, i figliuoli e la patria
Ne la loro memoria riducendo:
Mostrando a quei che i prossimi e i lontani
Solo a le mani lor ponevon mente.
Intanto i chiari giovani feroci
855
Per età, per virtute e per natura,
Inanzi fersi a passo pronto e saldo,
Rappresentando ne gli altieri aspetti
La libertà dal loro ardir promessa
A la cara di lor patria gradita.
860
Eransi fermi ambeduo gli osti esperti,
Liberi dal pericol di sé stessi
Ma non giè del pensier punto sicuri,
Perché tutta la somma de lo impero
Nel valore era posto e ne la sorte
865
Di sì pochi campioni; e riguardando,
Con gli animi però tutti sospesi,
Lo spettacolo in sé pieno di noia,
Il segno dier le bellicose trombe.
Onde sembrando due picciole schiere,
870
Con animosità di grossi stuoli
Si mossero i superbi e furibondi:
Che tali gli avea fatti al core dentro
L’ambizion del lor valor soprano.
Onde incontrarsi e dier di petto insieme
875
Con quel tuon, con quel suon che tona e sona
Il cielo e il mar, se le procelle e i nembi
E del mare e del ciel turban la pace.
Folgori alor sembraro i degni eroi
Di romor carchi e cinti di baleni:
880
In modo ferno in le spade brandite
E in l’armi ripercosse da i lor colpi
E sentire e vedere in un momento
Isplendore et istrepito tremendo.
A tal che, soprapresi i circostanti
885
Da un certo crudo e smesurato orrore,
Pareano da viltà rotti e conquisi,
Sì mancato era lor la voce e il fiato.
Ma del pari durando la contesa,
In cambio del lodar l’agile e destre
890
Persone lor, la valentigia e l’arte,
Succedeva il terror la passione,
Che avean mirando le ferite e il sangue
In cinque di quei sei, restando illeso
Orazio, luce di Roma e speranza
895
De i Romani regnanti in virtù sua.
Onde ciascuno Iddio non pure aggiunti
Ha gli anni de i fratelli a i di lui giorni,
Ma la morte di lor conversa ancora
Ne la immortalità che lo conviene.
900
Or al caso venendo, duo de i nostri
Cadder quasi in un tempo un sopra l’altro;
Alora gli aversari alzar le grida,
Restando noi e sbigottiti e muti:
Che impossibil parea che un sol s’avesse
905
A difender da tre, conversi in uno,
S’i erano ristretti e insieme uniti.
Ma Orazio immortal, che tenea certo
Di rimaner superiore quando
Si trasformasse la zuffa in duello
910
(In l’arte militar compreso avendo
Che il valor senza il senno sembra un fuoco
Che non ha esca da nutrir la fiamma,
E che il senno e il valor paiano un lume
A cui non manca il nutrimento proprio),
915
In più parti divise la battaglia,
Col soffrir che il suo animo fingesse
La viltà de la fuga: tal che sparti
Gli inimici il seguissero de lungo,
Come il vero il seguiro. Et ei non molto
920
Innanzi corse che, rivolto indietro,
Visto color che il seguitavan presti
L’un discosto da l’altro, uccise il primo
D’un solo colpo; e incontrando il secondo,
Pure d’un colpo sol la morte dielli:
925
L’ultimo fratel suo non lo potendo
Punto aiutar, sì fu ratta la spada
Che il petto penetrogli. Onde i Romani
Uno di quei romori alti levaro
Che sogliono levar lieti coloro
930
Che la perduta speme han ritrovata.
Acquetate le voci, Orazio disse:
Doi a l’anime già n’ho consacrati
De i fratei miei, or vo’ consacrar l’altro
A la causa sol di questa guerra,
935
E perché ad Alba signoreggi Roma
E a ciò tra lor d’affinità congiunti
Sempre si godan ne i beati campi
Di quella parentela che la sorte
Non ha patito che godino in questi.
940
Ora, se ben del pari era la briga,
Orazio, non ferito e non istanco,
Nulla stima facea più del ferito
E stanco sì, sì di speranza ignudo,
Che si offerse a la morte di sé stesso
945
Più tosco che a l’offesa del nimico.
Ma per esser non men degno di lode
L’aver pietà del nimico infelice
Che il vederselo a i piè languiso e vinto,
Il guerrier nostro in voce senza orgoglio
950
Disse non lieto: O misero cognato,
Non già di nimistà odio protervo,
Ma de la patria amor vòl ch’io ti uccida,
Che or a me perdona la vendetta
Come a te io, che m’hai i fratelli uccisi,
955
Ho perdonato la crudele offesa.
Così detto le canne trapassoli,
Tal ch’egli diede con le reni in terra
Senza batter più polso o aprirci occhio.
Or con fausto conforme a l’allegrezza
960
Che richiedea l’importanza del caso,
Ricevero i Romani il vincitore;
E con tanto maggior grido ridente,
Quanto la cosa era stata più presso
A la temenza del perder l’impresa
965
Che a la speranza del vincer la guerra.
Ma perché Tullo, l’essercito e tutti
Sapean che Roma era sospesa e in forse
Di ciò che in gloria sua successo è pure,
Nunzio mi fer di quel che avete udito.
970
Sì che i prieghi, che a i Dei porgea ciascuno
Perch’a i Romani rimanesse il regno,
Rivolga ognuno in render grazie loro,
Da che secondo il voto è pur rimaso.
E tu, popol, concorso ad ascoltare
975
Il commune contento, allori e palme,
Ogni erba, ogni fiore et ogni onore
Spargendo va’ per la cittade allegra.
Ma prima che nessuna cosa facci
Di quante far ne dèi, rompi e dischioda,
980
Dischioda e rompi le prigioni oscure,
A ciò i sepolti ne lor centri vivi
Non moian tuttavia, mai non morendo.
In questo i sacerdoti, inni cantando
Con celeste armonia, ordine diano
985
A ferie, a processioni, a sacrificii;
E poscia il Re a spettacoli nuovi
E a giuochi inusitati attenda lieto.
Tu, Publio, in questo in la tua gloria esulta,
Perché più vita è nel figliuol che vive
990
Che non è morte in quei duo che son morti.
Oltra a ciò si prepone a ogni cosa
Il fatto de la patria; et oro e vita
Si disprezza per lei, che vita et oro
A noi è ella; e ciascun grado cede
995
A quel che si ritrae da l’aver posto
Ciò che ci è in pro suo, cede ogni grido,
Benché acquistato col ferro e col senno,
A la fama di tali, e statue e templi
Drizzansi in pregio lor con sacri onori.
1000
Ma in quanto a te, di duo figliuoli in vece
Tutto il Romano stuolo, il popol tutto
Ti resta in figlio e diè chiamarti padre.
Sì che, per esser più grande lo acquisto
Che non è stata la perdita grave,
1005
Resti superiore il gaudio al duolo.

PUBLIO
Tito Tazio, d’ardir, di veder pieno,
Ben so io che tra l’armi si rinasce
Solo nel nome e ne la carne muorsi,
Qual son morti e rinati i tuoi e i miei
1010
Orazii cari; e che ridonda in quello
Che vivo è sol, diadema al patrio nido,
L’essenza di color che più non sono.
E se ben tu narrandolo mi scossi
Con triemito accorato e doloroso:
1015
Anche i monti sé scuotano, se irate
Gli percuotan saette, anco la terra,
Elemento sì duro, mostra aprirsi
Se in le vicere sue chiudesi il vento.
Ma sì come la terra e i monti, dopo
1020
I prefati accidenti, immoti e fermi
Riducano sé stessi, così io,
Poi che il fio ho pagato a la natura
Di dolore onestissimo, a la patria
Il tributo vo’ dar de l’allegrezza.
1025
Che ben so che, scampando gli altri Orazii,
Il mio animo in sé non averebbe
Potuto sopportar la somma intera
D’una felicità tale e cotanta.
Sì che tede, ginepri, edere e mirti
1030
Su i nostri alberghi e sopra i tetti nostri
Ispargiamo et ardiamo, celebrando
Col vestirci de porpora solenne
Questo felice dì, questo dì santo.

TITO
Mentre che mi congratulo con teco
1035
De la virtude, origine divina
D’ogni ventra, che in te chiara splende
Con real tempre (tanto ben distingui
Il contro e il pro de la gioia e del duolo,
Dando a la patria e la natura quanto
1040
A la natura et a la patria danno
I saggi e i forti), io te forte e saggio
Lascio qui con Ispurio, per mostrarmi
A i Padri e a la cittade in festa e in giuoco.

PUBLIO
Va’, Tito Tazio, va’: che previlegio
1045
Ti concedino i Dei di portar sempre
Novella a Roma trionfale et alta.

SPURIO
Se le parole efficaci, eccellenti
Di vocaboli e note che, formate
In voci venerabili e sublimi,
1050
Espriman le virtuti di colui
Degno di lode in tutti i suoi progressi,
Si componesser tutte quante insieme
Con iscelto tenor, con grave modo,
Non potriamo ridir solo una parte
1055
De la commendazion di che sei degno.

PUBLIO
Come io sono, io son tuo; qual di me proprio
Sarò fin che vorrà Giove ch’io sia.
Ma ecco la Nutrice, ecco la donna
Latte a Celia e dottrina, a Celia moglie
1060
D’un de i tre morti Curiazii rari.
Certo la Fama che, l’ali spiegando,
Il volo ratto d’ogni uccello avanza,
Il gran successo raccontato avralle:
Tal che il tenero suo feminil sesso
1065
Tormentato sarà da qualche angoscia.

SPURIO
Anch’io di ciò dubito forte e temo.

PUBLIO
O nuvolo che adombri nel mio petto
Il bel sol del suo animo, che cerchi?
Che ti manca? Du’ vai? dove, Nutrice?

NUTRICE
1070
Cerco me stessa smarrita in la doglia,
Mancami il cor con che solea scacciarla,
E vado u’ non so dirvi, spaventata
Dal duol di Celia: che, il romore udito
Del fin de i Curiazii là nel tempio,
1075
Un membro parve subito ferito,
Che sta un pezzo a gettar fuora il sangue,
Sì lo smarrisce il colpo entro le fibre;
Donde poi, risentito de l’offesa,
Esce come di vena acqua stillante.
1080
Io vo’ inferir che, udendo ella il conflitto,
Perdé lo spirto e, ritrovatol poi,
Sì è derotta in un pianto che la gioia
D’altrui sentita in sì alta ventura
Mostra languido viso intorno a lei.
1085
Ma non i sacerdoti giubilanti
Per la fatal vittoria a ciascun nota,
Non le donzelle nel tempio ridotte
Come lei a pregar per lo adempito
Voto che tiene in sé palma e corona,
1090
Non le matrone che autoritade
Hanno in sé tanta che ubidite sono,
Né i simulacri de gli Dei che pare
Che la divinità che han suso in cielo
Abbino anco ne i marmi u’ sono isculti,
1095
Con l’ombra santa de la lor presenza
Non ponno confortarla in alcun verso.
Ci mancate ora voi suo genitore,
Voi genitor suo or ci mancate,
Con la grazia a’pprovar de le parole
1100
Se gli affetti paterni hanno potere
Ne i petti filiali: ch’altrimenti,
Disperato di Celia il caso parmi.

PUBLIO
Amor, tiranno di quel cor ch’egli arde,
Raro consente che i consigli fidi
1105
Possino partorir cosa giamai
Che sia rimedio a chi si more amando.
Di poi è sì tenace e sì severo
Lo affetto ch’esso ne l’animo imprime,
Che sol chi ama è tormentato sempre
1110
Da miserrima e vil calamitade.
Onde dubbio non è che i miei conforti
Debbin nulla giovare a Celia afflitta:
Che sì le offusca amor gli occhi in la fronte,
E sì le serra il duol quei de la mente,
1115
Che non iscorge ciò che vede ognuno.
Sì che andiamo, Nutrice, o Spurio, andiamo
In prima a lei che Orazio arrivi a noi.
Gli uffizii di pietà mi piaccion molto,
Però ti lodo, t’imito e ti seguo:
1120
Benché, per esser di tal figlia padre,
Quel che procacci a lei opre in te stesso.

PUBLIO
Gran tristezza nel cor, grave pensiero
Ne la mente mi ha posto l’udir come
Celia si crucia: onde non so che farmi.
1125
Non fur mai giorni e, se mai fur, son pochi,
Pochi quei giorni sono che il lor sole
Abbino avuto senza velo alcuno;
Ma si possono porre intra i più chiari
Quando l’ore che il tempo gli prescrive
1130
Non son, da che si leva a che si colca,
Tutte di pioggia, di nevi e di nebbie.

PUBLIO
Pur ch’io n’abbi di tali, sarò quasi,
Felice non vo’ dir, ma non discaro
Troppo a la sorte che ben tratta quegli
1135
Che miseri non fa: così si dice.

SPURIO
Ecco Celia esce fuor, Celia fuor esce.

PUBLIO
L’ombra più tosto, perché l’ombra sembra
Di lei, che a pena in piè, lassa, si regge.

SPURIO
Poca cosa la lena toglie e rende
1140
A giovincella e delicata donna;
Un non so che colora e discolora
Il viso lor simile a quelle guancie
Che, da tema assalite e da vergogna,
Si spargon di vermeglio e di pallore.

CELIA
1145
Padre, o padre!

PUBLIO
Figlia cara, o figlia!
E perché questo?

CELIA
Amor legge non have.

PUBLIO
Se bene ad ogni affetto d’amor colmo
Quel si antepone che a la patria debbe
Mostrar qualunche ha nobiltà di core,
1150
Il contrario fai tu: come più degna
Fusse la vita di colui che piagni,
Che la vittoria in cui giubila ognuno.
Io, quanto a me, vorrei che il ciel volesse
Che in ciascun dì mi avenisser tai casi.
1155
Perché felicità certo è quel danno
Che dà luogo a uno utile, qual veggo
Che ha dato il nostro: et a chi, Celia? a Roma,
A Roma, Celia, e lei fatta regina
Di chi esser le volle imperatrice.
1160
Oltra di questo, debbi tu scordarti,
Ne la morte de l’unico marito,
Il morir de i legittimi fratelli?
Tempre con l’odio di sì fatto eccesso
L’amor estremo di cotal cagione;
1165
E se pur vuoi di lagrime esser larga,
Liberale ne sii a quelli Orazii
Teco d’un seme in un solo orto nati.
Perché non sei per riaver più mai
I fratelli defunti; ma gli sposi
1170
Offeriransi a te onesta e grata,
Vertuosa e gentile: e quanto ancora
Bella dicessi, onorarei la grazia
Con che ti partorì che morì in parto,
Partorito che t’ebbe, forse forse
1175
Per non sentir di te pena maggiore
Di quella che provò te partorendo.

CELIA
Poi che dopo gli Dei riverir diesi
Chi generato ci ha, voi riverisco,
Io riverisco voi, padre, e vi dico
1180
Che giù cadendo i miei fratelli amati,
Cadder duo parti de le membra mie,
Ma nel cader del mio sposo sublime,
Io stessa caddi: però che le mogli
Vivano con la vita de i mariti
1185
E moian con la morte de i consorti.
Per il che io non odo e non intendo
Ciò che udire et intendere devrei.
So ch’è stoltizia di pianger colui
Il qual ci va per quel sentiero inanzi
1190
Che aveamo anco a far noi; so che la morte
Veruno mai non ingannò; so certo
(Da che non è se non tenebre il mondo)
Che il morir può chiamarsi l’orizonte
Che ne rimera il più lucente giorno.
1195
Ma che mi val saper che de i mortali
È morte ciascun ben, se io non sento
Ciò che i paterni documenti siano,
Né l’alma gioia de la libertade,
Sì m’ha trafitta e sì mal concia il duolo?
1200
Ma oimè, Curiazio, o Curiazio,
Vita et anima: pure il ciel negommi
Le palpebre serrarti al punto estremo.
Devea conceder Giove a queste braccia,
Se in vita non deveano esserti letto,
1205
Che in morte al men ti fusser sepoltura.

NUTRICE
Aita, Publio, aita, Spurio, ch’ella
In angoscia dolente et affannata
Vassene, oimei! Allenta ove la stringe
L’abito, Ancilla, e poi corri a l’albergo
1210
E porta qui a noi, porta volando
Acqua di rose e aceto, a ciò si possa
Spruzzarle il viso e suscitarle i polsi,
Tal che tornin gli spirti a i luoghi usati.

PUBLIO
Portiamla pur in casa, e tra le piume
1215
Spogliata e posta, al suo ristor si attenda.

CORO DI VIRTÚ

ErrorMetrica
Le saggie e valorose,
L’eccelse e gloriose
Virtù d’Orazio invitto
Han Roma alzata e il cor di Celia afflitto:
1220
Onde il gioir di quella
Et il languir di questa
Ne gli estremi a ciascun si manifesta
Con sorte amica e fella.
Laudo Publio in tanto,
1225
Publio di etade pieno,
Che, la manna e il veneno
Pigliato in uno, ha più riso che pianto,
Cedendo, col dolore
De i figli suoi, de la patria a l’amore.
1230
Ma perché la figliola,
Perduta nel duolo empio,
Specchio facendo a sé di tal essempio,
Sé stessa non consola?
Ne l’ingegno ha scienza
1235
La misera, e ne l’animo dolente
Nulla di noi fa segno:
Tal che a dubitar vegno
Ch’ella, ch’altro non è che affetto ardente,
Di sé non resti senza.
1240
E forse ancora la sua passione
(Se in ciò non porge il ciel pietosa mano)
Potria esser cagione
D’accidente più strano.


ATTO TERZO

SPURIO
ErrorMetrica
Creatura gentil, notabil uomo,
1245
Prestante cittadin, persona egregia
È, o Nutrice, Publio. Onde m’incresce
Che Celia, deplorando il morto sposo
(Se ben cotal languire a l’altre insegna
Ad aver come lei cari i mariti),
1250
Perturbi lui quanto a la tenerezza
Che il move ad aver cura de la figlia:
Che in quanto a quel ch’a la patria richiede,
Nol moverebbe il perder sé medesmo.

NUTRICE
Il non nascerci è gran felicitade
1255
E gran beatitudine se presto
Chi ci nasce si amor: che stato alcuno
Di quiete non ha chi vive in terra.
S’abiti le cità, l’ambizione
Ogni or ti noia; se ne i boschi stanzi,
1260
De le fere hai commerzio; s’altri servi,
Vendi te stesso; se domini altrui,
Compri la invidia e te la movi contra;
S’hai prole hai cura, se non l’hai tormento,
Circa la brama c’hai sempre d’averla.
1265
Se giovan sei, ti amministra il furore,
Se vecchio, il tedio ti avilisce e schifa;
Se in pace stai, ti è cibo la lussuria,
Se in guerra, la impietade ti alimenta.
Ma questo è poco et il più dirne troppo:
1270
Peroche se il ciel vòl, se vòle il cielo
Che ne uccidino insino a l’allegrezza,
Quai cose ci fan vivere nel mondo?

SPURIO
Nissuna, mi credo io.

NUTRICE
Tu credi bene:
Ma finischino pur, Publio, i tuoi guai
1275
Nel casto duolo di Celia innocente.

PUBLIO
Severo è sempre il fisico perito
A lo inferno già fuor d’ogni periglio,
E sempre pio a chi nel male escluso
È d’ogni speme di rimedio umano:
1280
Che in moderar ne le sue voglie quello,
La sanità di lui riduce in porto;
E in compiacer ne gli appetiti questo,
Li acqueta un poco il fuggitivo spirto.
Ond’io che Celia disperata veggo,
1285
Quasi con duro cor le ho detto e dico
(Poi ch’ella sola di quel fatto piange
Che Roma tutta ha rallegrata in uno)
Che si stia, che ne vada ove più crede
Isfogare il dolor che la martira.
1290
Ma sentir parmi e suoni e voci insieme
Di militi e di bellici stormenti.
Vattene tu, Nutrice, a intertenere
Colei che ama più il consorte estinto
Che sé stessa vivente; in tanto noi
1295
Andremo inverso la porta Capena:
Ch’esser potria che il romore e le trombe,
Ch’empiano di letizia il vento e l’aria,
Fusser d’Orazio in gloria; e forse ch’egli,
Coronato d’alloro, innanzi a tutti
1300
A la patria et al padre altier ritorna.

SPURIO
Anche a me pare udire e voci e suoni,
Trombe e romor di concorde letizia.
Quanto popolo, Iddio, quanta gran gente
Corre a vedere il vincitor garzone!
1305
O giovane immortalmente felice,
Giovane asceso a quello onore, a quello
Che ha virtute di far gli uomini eterni
E le patrie famose in tutti i tempi!
Per dal lato di qua, ch’è la via nostra.

SERVO
1310
Cittadinesca e popolar brigata,
Personaggi integerrimi et egregi,
Signor miei e voi tutti a veder corsi
Queste spoglie d’onor ricche e di gloria:
Di gloria e d’onor ricche, perché Orazio,
1315
Et onorato e glorioso eroe,
Di dosso a i vinti Curiazii estinti
L’ha tratte col magnanimo suo core.
Onde andatene via senza far motto,
Imperoché il gran giovane fe’ voto,
1320
Restando vincitor come è rimaso,
Che un uom vile et abietto qual io sono,
Senza alcun testimone, le appendesse
Su le porte del tempio di Minerva,
Ch’è questo qui. Onde inchino a la Dea,
1325
A cui lo dedicò Numa Pompilio,
E le appendo in suo nome umilmente,
Poi ch’è partito, qual dovea, ciascuno,
E che solo pon mente al sacro uffizio
Palla, che un lui senno e valore infuse.
1330
Restate dunque in sì bel luogo, spoglie,
E di secolo in secolo vivete,
Vivete qui, come vivrete sempre
Nel ricordo di quei che nasceranno.
Ora entrand’io ne la machina sacra
1335
Per uscirmene poi fuor per l’altro uscio,
Lascio le spoglie a chi veder le brama.

CELIA
Ancor che senso non sia ne i miei sensi,
In quel de l’audito anco ritengo
Tanta virtù che grande applauso sento
1340
D’universal festeggiante brigata.

NUTRICE
Dal popolo non pur, ma da le mura
Di sì alta città, da gli edifizii
Dentro al cerchio di lei, da l’onze ancora
Del fiume Albula nasce il romor lieto:
1345
E voi sola piangete? Io ne stupisco,
Ne rinasco e trasecolo, vi giuro.
Peroché se mai più non vi piacesse
Rimaritarvi, ecco là il concistoro,
Là ecco la magion di Vesta Dea,
1350
Dove potete, tuttavia divota
A l’ombra de lo agli inferi transito
Sposo di voi, la castitate vostra
Santamente offerire e dedicare.
Così egli, che il seggio ha tra i beati,
1355
Egli fatto immortal per esser morto
Con l’armi che la patria in man li pose
D’amor, di fede e di religione,
Vantarà voi, voi vantarà tra l’alme
Religiose, amabili e fedeli.

CELIA
1360
Rispondetele voi sorti, voi, voi
Per me le rispondete; perché io,
Vostra crudel mercé, seguir non posso
Né la mia volontà, né i suoi consigli:
Che ne l’ordin di voi consiste il tutto.
1365
Ma che caterva, che tumulto è quello
Che d’intorno di Pallade a la porta
Alza il viso et aprendo ambe le braccia
Segno fa di stupor? che è? che fia?
Se alcun ci è Dio, che in sua pietà riguardi
1370
Il vedovile stato e che ripari
De le vedove a i casi et abbia cura
De la calamità che le distrugge,
O sotto scuro e tenebroso manto,
O in solitario e tenebroso letto,
1375
Che mi aiuti lo prego, perché temo
Di qualque repentino empio sinistro
Apparecchiato a la mia vita sopra.

NUTRICE
Questi duo che ragionano tra loro
Ascoltiam di qui dopo e saperemo
1380
Ciò che fa cotal gente ove voi dite.

PERSONE [I]
Preclaro è l’atto d’Orazio e notando,
Poi che in sì gran fortuna, in sì gran gloria,
Ottenendo a Minerva la promessa
Del real voto suo, senza alcun fasto,
1385
In cossì basso grado ha pur deposte
Con man servile le spoglie ammirande
De i vinti e morti parenti e nimici,
Per il ben de la patria che devrebbe
Quasi un Dio adorarlo, e poco fora,
1390
Sì sono i merti suoi più che d’uom chiaro.

PERSONE [II]
Dice quel tale, a cui se impose ch’egli
Deponesse le spoglie u’ l’ha deposte,
Che il mirabil guerrier pregar si è fatto
A consentir che se li metta in testa
1395
La corona di lauro, e non volea
Che l’esercito a lui dietro venisse,
Come pur se ne viene; e il magno Tullo,
Col menarlo con seco a la man destra,
A la Romana gioventù dinota
1400
Che chi fa opre tali è riverito
Insin dal Re, che ogniuno ha in riverenza.

PERSONE [I]
Madre de la superbia è la vittoria,
Né mai avendo in sé ragion veruna,
Ogni disonestà lecita fassi,
1405
Spregia le cose umane e le divine
Con una equal d’insolenza brutezza.
Però è da lodar supremamente
La modestia d’Orazio, anzi deviamo
Reputarla miracol: non è vero?

PERSONE [II]
1410
Sì certo, et in un giovane è sì grande
Che più sperar né più bramar si puote.

PERSONE [I]
Mi era scordato: hai tu Spurio veduto,
Di porpora togato, e Publio seco,
Suo fratello in amore? Anch’ei vestito
1415
Di color sì allegro: e pur duo figli
Li son rimasi in campo esangui e freddi.

PERSONE [II]
L’ho visto andar verso Capena e in volto
Tener quella letizia signorile
Che suol mostrar chi è Romano e Roma
1420
Per figlia tiene: onde sì nobil patria
Guiderdona poi lui di onori eccelsi.
Ma ritorniamo a rivederlo appresso
Al soprano fifliuolo, al figliuol chiaro,
Mezo uomo e mezo Iddio: che Semideo
1425
Nomarallo d’ognior sino a la invidia.

NUTRICE
Avete voi, avete voi udito
Con che prudenzia, l’umiltade usando,
Precede il soprauman fratel di voi
Ne lo inneffabil suo trionfo sommo?

CELIA
1430
Altro inteso non ho da le persone
Che insieme per la via vanno parlando
Con pura intenzion d’uomini buoni,
Che il come (io our dirillo) il Roman crudo
Colui mi ha morto che mi tenea viva.
1435
Tal ch’io men vado, quanto posso ratto,
Ad impetrar co i preghi da le turbe
Che mi si dia tanto di spazio ch’io
Lavi con le mie lagrime quel sangue
Di che bagnata è quella nobil vesta
1440
Che tessei di mia mano e in dosso posi
Di man mia pure al giovane infelice:
Degno però che la sua mesta sposa
Con gioia nuzial gliene spogliasse
E rivestisse ancor matino e ser.

NUTRICE
1445
Meglio saria di gire ad incontrare
Orazio, fama al militare onore:
Che rivedendo quella causa illustre
Del vostro penar crudo, aspra cagione
Potria rendervi tutto quel vedere
1450
Che vi ha tolto, per Dio, cosa che in vero
Merta riprension certo non poca.
Onde tornando nel pristino stato
De lo intelletto, diverreste un’ altra.
Perché cadendo duo saette fiere
1455
Appresso del pastor che gregge o mandra
Corregga o guidi, scorgesi in un punto
Ch’una il fa tramortir, l’altra lo desta.

CELIA
Di cerulea seta in or contesta
Fu di te, Curiazio, il vestimento
1460
Del quale io feci a te largo presente.
Scansatevi, pietose genti, ch’ecco,
Ecco le spoglie trasforate e guaste
E sanguinose sì che lo splendore
De la seta e de l’or più non riluce.
1465
Né perciò resto che quei cari basci
Che dar devevo a chi, spoglie, vestisse
Di voi, a voi non dia, spoglie dolenti,
Quanto che meritate esser giocose.
Certo che a me già vi mostraste dolci,
1470
Qual or mi sete accerbamente amare.
Ma foste voi de la mia alma invoglio,
Di questo corpo in guisa, che saria
Come in celeste amanto involta fosse.
Benché, o Scita crudel, devea bastarti
1475
Aver de i Curiazii uccisi doi
E il terzo salvar, che a me consorte
E a te cognato era. E perché alora
Che il ferro li drizzasti in vêr la gola,
Di me non ramentarti? Oimè, dicendo,
1480
Che a Celia il cor trappassa questo colpo,
S’oltre con esso mortalmente varco.
Se ciò dicevi, il generoso uffizio
Testificare a la pietà poteva
Ch’è opprobrio il travincere il nimico,
1485
Che, se ben non si rende, prigion resta
Nel giudizio fedel de i circonstanti.
Peroché il non poter campar la vita
E il non volere al vincente inclinarsi,
Ostinazione e non virtù vien detta.

NUTRICE
1490
Io che, parlando, de la vostra pena
Partecipo, e tacendo anco ne ho parte,
Ciò mi trapasserei, se la frequenza
De lo assiduo dolor che pianger favvi,
In tutto non fornisse di accorarmi.
1495
E tanto più mi duol di quel che duolvi,
Quanto men veggo che d’onor vi arrechi
Il diluvio che fuor de gli occhi vi esce.
Ecco, le genti che adesso eran quinci,
Sonsene gite, d’inimica quasi
1500
Stimando il pianto che fate sì duro.
Ma l’acque asciugaransi a lo apparice
Del grandissimo Orazio: io il sento, io il veggo
In la faccia che folgora e lampeggia
Con lo splendor de la sua gloria ardente.
1505
Tal che il suo scintillar lucidi rai
Le nebbie del dolor sgombrarà via.
Ma ecco a noi uno attempato servo:
Risentitevi suso. Ahi, oimè trista,
Perché così impallidirvi il viso?
1510
Chi gli occhi vi ha sanguinolenti fatti?
Chi per le guancie delicate sparte
Macchie sì nere? Stagnate le luci,
Rasserenate il tenebroso fronte;
E si vi aggrada pur mesta restarvi,
1515
Ritorniamci a lo albergo, a ciò che Orazio
Non prendesse per tristo augurio il volto
Che più che oscuro dimostrate e il ciglio.

CELIA
Altro bisogna e con altro devreste
Procedere in pro mio.

NUTRICE
Voglio più tosto
1520
Offender altri in dir le cose vere,
Che ad altrui compiacer con le bugiarde.

SERVO
Quelle spoglie che là, donne, vedete,
Ivi appese l’ho io: onde che Orazio,
Che accompagna il Re suo sino al palazzo,
1525
A sé medesmo poterà far fede
Come ubbidito io l’ho, e sì mi glorio
Che ciò degnasse un tanto duce impormi.
Ma eccolo, egli è desso: donne, o donne,
Eccolo, e poco dopo Publio e Spurio,
1530
E dietro a lor gran popolo. Guardate,
Guardate se non par che il suo aspetto,
Non già mortal ne la istessa sembianza
E in l’aria di sé proprio, ora non abbia,
Con le fiamme del suo vigore acceso,
1535
Fatto nascere un lume equale al sole.
Che petto più che d’uom, che late spalle,
Che presenzia mirabile, che vista
Grata terribilmente!

NUTRICE
Andiamo, Celia.

CELIA
Andrò io dunque a toccar quella mano,
1540
Quella man che mi ha morto ogni mio bene?
Poi che ciò vòl la sorte, in queste chiome,
Che ornamento intrecciato in varie guise
Mi fanno al capo, e in ciascun altro crine
I diti porgo; e a te, Orazio, innanzi
1545
Con disciolti capegli io pur ne vengo.
Onde sarà, come desio, presente
A l’essequie ch’io faccio al dolce sposo:
Perché in vece di essequie queste, queste,
Lagrime, che ora spargo, sono a lui.

ORAZIO
1550
Chi sei, che teco parli e intanto piangi?

CELIA
Celia, nol vedi tu? che di quel colpo
Che mi occidesti il buon marito, moro.

ORAZIO
Non t’intendo: che dici? Parla, parla!

CELIA
Dico che Celia, non essendo, sono.

ORAZIO
1555
Se la sorella mia Celia tu fusse,
Senz’altro duol sentir del fin d’altrui,
Corda saresti ad abbracciarmi allegra,
E non venuta a conturbarmi mesta.
Ma Furia essendo giù del centro uscita
1560
E in l’onde Stigie trasformata in lei
Per far minor la mia letizia immensa,
Vo’ che ritorni ne le grotte inferne
In figura di tal.

CELIA
Se pur nel core
Mi porgi il ferro, l’imagine viva
1565
Non toccar del mio sposo, che due volte
Uccider lui ti saria biasmo.

ORAZIO
Ahi stolta!

ANCILLA
Per le treccie dorate, per le chiome
Bionde e sottili egli l’ha presa e tira.

NUTRICE
Anch’io voglio i dì miei finir co i suoi.

ORAZIO
1570
Indietro, indietro tutti!

CELIA
O mio consorte,
Colui che a me ti tolse, a te mi manda!

NUTRICE
Così era in sua sorte.

ORAZIO
E così sia.

ANCILLA
Oimè, oime, oimè, sotto a quell’arco,
Risospingendo ognun col guardo indietro,
1575
La strascina il crudele e forse adesso,
Oimè, le toglie la vita. O Nutrice,
Non andate sì oltre, ch’ecco il crudo
Che il fier colter, che gocciola di sangue,
Ripone ardito in la guaina sua.

ORAZIO
1580
Vanne, o d’affetto maritale ingorda,
Col tuo pur troppo frettoloso amore,
Vanne al marito, che del Leteo fiume
Su la riva ti aspetta, vanne, insana,
Dimenticata de i fratelli morti,
1585
Di quel che vive e de la patria e d’altri:
Ma tal finisca chi osarà più mai
Pianger la morte de i nimici nostri.
Corri, Ancilla, or da Celia e col tuo fiato
Ritieni il suo, s’ella ne ha punto, e poi
1590
Con la Nutrice pia sana la piaga
Che il giusto sdegno mio nel cor le ha impressa.
Io andromene intanto a spogliar l’armi
Ne la magion natia. Popolo, vale!

POPOLO
Potrebbe il Re, potrieno i Padri e voi
1595
Scusare e aver pietà di tal delitto,
Ma lodarlo non mai, ch’egli è nefando.
Com’esser può ch’una donzella casta,
Per piangere lo sposo, alor che vidde
Totto immerso il fratel nel sangue suo,
1600
Sia suta condannata a sì gran pena?
Quasi che il pianto di cotal fanciulla
La vittoria a la publica letizia
Avesse ad alterare. Publio, certo
Ch’io per me non so dir qual sia più grande,
1605
Nel figliuol tuo prevaricato tanto,
O l’onor contra gli aversari avuto,
O la vergogna de la vita tolta
A la formosa e tenera sorella.

PUBLIO
S’oggi legge e non Popolo tu fusse,
1610
Et in severità tutta conversa
(Volendo aver però nome di giusta),
Premio e non pena al figliuol mio daresti:
Perché ha ben fatto, e quando altro ne avenga,
Ciò che far si potrà certo farassi.
1615
Che in ver l’esser non è quel che ne inganna,
Peroché mai non ingannò persona,
Ma il parere tradisce ciascuno.
Ecco, se un reo per ciò ch’egli è si scopre,
Ogniun conosce lui per uom malvagio:
1620
In la qual cosa non è più che dire.
Ma di bontade il pessimo velando
La malizia che il cor gli agita e pasce,
Con la sagace frode ci constringe
A tenerlo innocente creatura.
1625
E così il maligno e quello e questo
Fassi divoto, sì che ognun l’osserva.
Io vo’ inferir che pae orribil cosa
L’avere Orazio la sorella uccisa,
Perché il velame de la crudeltade
1630
L’atto ricopre: che da ragion mosso
Fece ciò ch’egli ha fatto e ch’io farei
Contra me stesso, non che d’un mio figlio,
Quando che io in me medesmo ardissi
Ombrar col duolo il comun gaudio e solo.
1635
Perché chi turba il publico contento
Riprende Iddio che lo permette: ond’egli
Per incognite vie fanne vendetta.
Tal che ho speranza che la legge istessa,
La legge cieca, che non puote mai
1640
Invaghirsi di cosa che la infami,
La legge sorda, per il che non ode
Né lusinghe, né prieghi, né lamenti,
La legge senza tatto, onde non piglia
Quel utile atrattivo, quel gran pezzo
1645
Che l’onesto corrompe tuttavia,
Per sua misericordia aprirà gli occhi
Et il merto vedrà d’Orazio degno,
Diserrerà l’orecchie per odire
Le querele giustissime di noi,
1650
E riavrà le sue troncate mani
Per liberarlo da ciascun supplizio.
Ma sallo Giove ch’io non ho fidanza,
Dopo quella che debbo avere in lui,
Se non in te, Popolo mio, che sei
1655
Vario da tutti i popoli che sono:
Stolto non già, non temerario et empio,
Né incostante, né infedel, né improprio,
Senza conclusion, senz’alcun fine,
Precipitoso e facile a lo sdegno.
1660
Ma è tale, cotanta e così fatta
La prudenzia con cui movi la lingua,
Che a l’animo non mai trapassa inanzi.
Tal che il Re et i Padri non fan motto
Quando sopra d’alcun sentenzia dài,
1665
Né interpongano replica veruna
A le cose che indugi e che risolvi.

POPOLO
Quel grande Iddio che in testimone adduci
Circa la fede che, lui sol posposto,
Dici d’aver in me, spirimi, ond’io
1670
Pur giovi a te senza nocere ad altri.
Ma sento voce che suona: egli è preso,
Preso è Orazio e al Re condotto a i piedi.
Mi trasferisco là, che il caso importa.

PUBLIO
Per gli usci dietro sono entrati certo.
1675
Spurio, di’ a l’Ancilla e a la Nutrice
Che lascin lei ove si giace morta,
Secondo il merto e come aggrada a i Dei,
E ritornino in casa; e a me poi vieni
Nel foro o dove ch’io mi sia; fa’ presto.

SPURIO
1680
Io amiro di Publio che si oppone
Con la constanzia de l’animo integro
Tra il caso occorso e il pericol seguente;
E fa ciò con un volto sì ardito
Che par che nel cor suo nulla si dolga
1685
Di quel ch’io giurarei ch’altri morisse.

PUBLIO
Che parli tu?

SPURIO
Niente.

PUBLIO
Va’ via.

SPURIO
Vado.

PUBLIO
Nessun merito uman sopra la legge
Non può salir né risederle appresso:
1690
Questo so io; e quando pur converte
In equità la sua giustizia, a pena
Ch’ella il crede a sé stessa, e però tengo
Molta difficultà nel caso: in questo
Temo, da che non sono uomo arrogante,
1695
Né tremo già, perché non nacqui vile.

NUTRICE
Gelide mi tornar le carni e l’ossa,
Tosto ch’io viddi là Celia distesa,
Celia del sesso muliebre pregio,
Come la luna è de le stelle onore
1700
E quale il sole è anima del mondo.
A Celia, spirto del divin costume,
L’aspra ferita di sangue gemente
Che in sé gorgogliava ho rasciugata,
Mentre, errando con gli occhi, pur tentava
1705
Me riveder; né pria veduto m’ebbe,
Che il singulto preruppe, e in me intenta
Con un sospiro esalò fuor lo spirto.
Ma fuss’io almen, non d’una morte istessa,
D’un medesmo dolore e d’un sol ferro
1710
Morta con voi, isprezzata, insepolta,
Ma offerta al morir di voi in vece,
E là gettata, come in bosco cerva
Dal feritore suo cercata in vano.
Perch’io vi ho persuaso, io v’ho sospinta,
1715
Vittima oblata per l’umano affetto,
A gir, qual agna, al sacerdote incontra.
Onde si è visto, si vede e vedrasse,
Nel passato, al presente e in lo avenire,
Che lo sposo e la sposa son due alme
1720
Ch’uno amore, una fede, un voler solo
Tiene inserti e congiunti in una carne.
Sì che a me perdonate, poi che il sogno,
Poi che la vision, poi che il cor vostro
Più di me ne ha compreso; e più vi prego
1725
Che anco mi si perdoni s’or vi lascio.
Però che Publio, de gli affanni erario
(Che tal se li pò dir, poi che riserba
Dentro al petto di lui tanto dolori),
Mi comanda ch’io vada in casa e meni
1730
L’Ancilla meco et abandoni Celia.

ANCILLA
Oimè, oimè, oimè, oimè, oimè!

NUTRICE
Ma devrian tutti quelli e tutte quelle
Ch’esser debban tra lor mogli e mariti,
In nostro scambio corteggiarla insino
1735
Che qualque tomba nel pietoso grembo
Le reliquie sue caste raccogliesse.
Benché senz’altro monimento o avello,
Perché altamente il mertano, averanno
Per urna il mondo e per coperchio l’aria,
1740
Per epigramma di perpetui inchiostri
Le terse lingue; et i posteri, in guisa
Di viatori, andran narrando il caso.
E se ben non ci è cosa la qual ci usi
Fraude maggior che il parer nostro istesso,
1745
Non inganna già me l’oppenione
Circa gli onor di Celia. Ancilla, vienne,
Vienne ne la magion con meco, Ancilla.

ANCILLA
Io vengo, entrate pur, che mi è caduto
Il velo ch’io ponea sul viso a lei,
1750
Se Spurio a me non lo vetava: io il veggo.
O velo dolce, o velo caro, o velo
Felice, alora che in leggiadra foggia
Rivolgevi quei biondi e bei capegli,
Quei crini d’oro, quelle vaghe treccie,
1755
Che in sé raccolte e in la lor grazia sparte
Arrichivan di sé le spalle e il petto
De la mia Celia, oimè, di Celia mia.
Ma che piacer, quando, mosse da l’aura,
Scherzavan poi con lei, non si curando
1760
Scherzar con altre! O Iddio, perché non moro
Mentre me ne ricordo? Io vengo, io vengo;
Celia mi chiama; ella chiede le perle,
La ghirlanda, gli odori; io ve gli porto,
Et il monile ancor. Ma du’ sono io?
1765
Questo l’uscio non è? Sognassi io pure!

CORO DI VIRTÚ

ErrorMetrica
D’allegrezza si more,
Ma non già di dolore,
Peroché vòl la sorte
Ch’un giocondo piacer costi la morte;
1770
Come anco a lei aggrada
Che la doglia infinita,
Nel levare a un misero la vita,
Non trovi mai la strada.
Ch’altri saria felice,
1775
Se ottenesse il suo fine
Da le proprie ruine;
Onde Celia beata esser si dice,
Poscia che nel mondo ella
Non è piu in odio a la sua fera stella.
1780
Ma che di’, nostro Coro,
Di Publio, essempio solo
Di quanto servar diè nel maggior duolo
La prudenza decoro?
La figliola dal figlio
1785
Vede uccidersi inanzi; onde si acorge
Che rompendo nel pianto
Non rende il vital manto
A quella, ma che a questo aita porge
S’arma sé di consiglio.
1790
E però lascia in disprezzata guisa
La nobil donna, quasi che tal atto
Mostri in chi l’ha uccisa
Lode et onor del fatto.


ATTO QUARTO

PUBLIO
ErrorMetrica
Io dissi a Spurio che, quando nel foro
1795
Non ritrovasse me che vado errando
(Con che core il sa Dio), che ovunche io fussi,
Vedesse di trovarmi; e mossi il passo
Per gire al Re e spiar del mio figlio;
E ne lo alzar del piè, come se spinto
1800
Andarvi, a casa me ne andai. Oh, Spurio,
Parlava meco stesso, a me dicendo
Che in quel ch’io volsi andare u’ non son gito
(Il perché non so dirti), dentro in casa
Mi viddi esser comparso. Or che mi dici?

SPURIO
1805
Orazio, di persona grossa e grande,
D’ulivigno color, ma grato a l’occhio,
Composto, come sai, d’ossa e di nervi,
Però la testa in nessun lato pende,
Con quel suo non so che, il qual si adossa
1810
Sì ben ch’animo par tutto e fortezza,
Nel conspetto del Re senza far motto
Stavasi alor ch’io, dove stava, giunsi.
E rincontrando i suoi con gli occhi miei
Sorrise e sorridendo parve il sole
1815
Che tra i nuvoli a un tratto nasce e more;
Poi ristretto in le spalle, il ciel guardando,
Parea dir: pugna tu mo per la patria.
Ma standosi così dinanzi a Tullo
Fu esposto il caso, onde l’altezza sua,
1820
Nel trono d’or sedendo: Io statuisco,
Disse, il Popolo a sé fatto venire,
Duumviri prestanti e circospetti,
Aciò rendin ragione a Orazio, quale
La legge vòl del perduellione.
1825
Le cui parole orribili e crudeli
E fiere sono e di mortal timore,
Come ognun di noi sa. Seguì poi egli:
E se cotal magistrato sentenza
Per omicida Orazio, e Orazio apelli
1830
Al Popolo, et il Popol non convica
Magistrato sì fatto, Orazio sia,
Con la testa coperta e il laccio al collo,
A l’arbore infelice appeso, come
Reo e malvagio. Ma pria che si copra
1835
Il capo a lui e la corda il rivolga
Per impenderlo u’ impendansi gli erranti,
O di dentro o di fuor di queste mura
Battasi con le verghe a corpo ignudo.
Questa conclusion, questo giudizio
1840
Sollevò d’ogni parte gente, e parve
Un pronto stuol che con l’orecchie tese
Cosa aspetti d’udir che poi riesce
A chi diversa da ciò che pensava,
Et a chi più né men che si pensasse:
1845
Onde il mormorio in ogni luogo s’ode
Con vario dare altrui di biasmo e laude.
Creò tal magistrato il Dittatore
(Interpetre clemente de la legge),
Sol per non esser l’autor tenuto
1850
Di giudizio sì empio e sì perverso,
Né de la pena essecutor dipoi,
Col diventarne anche odioso a molti.
Che se bene et a i Padri et a la plebe
Pareva strano il delitto et atroce,
1855
Contrastando il suo merito al peccato,
Onde appar la virtù maggior che il fallo,
Eran per insentirsene aspramente.
In tanto Orazio l’alterezza usata,
Con maraviglia sin de lo stupore,
1860
Ritenne ne l’ardita illustre faccia,
Che per tema o viltà non mor né imbianca
Ma io, che sento al cor quel che il tuo prova,
Indovino del du’ potea trovarti,
Qui me ne son venuto; e tal novella
1865
Con le lagrime a gli occhi non ti porto,
Peroché Tullo, pio come prudente,
Hallo quasi assoluto, concludendo
Il potersi appellare al Popol suo.

PUBLIO
Perch’anco chi si mor vivere spera,
1870
È forza ch’io, per conformarmi, prenda
La libertà che ha d’appellarsi Orazio,
E col nuovo sperar il cor dubbioso
Regga cadendo; il qual tre casi apena
Han potuto chinar tanto che paia
1875
Che chinato si sia. Non i duo figli,
Non la figliola, questa e quelli senza
Vita e sepolcro, non sono in lor morte
Suti bastanti a sminuire, a tòrre
Pur una dramma de la contentezza
1880
Che nel contento de la patria ho preso.
Ma il sentir del fune e de le verghe
E de l’arbore al qual, col qual, con cui
Dee impendersi, battersi e legarsi
Orazio mio, il mio Orazio, quello
1885
Che per grado, per zelo e per onore
Di sé e de i Romani e del lor nome
Ha ucciso colei che l’uccidea
Col tòsco del dolor, ne la maggiore
Letizia che giamai Roma sentisse;
1890
Ne lo intender ciò, dico, certo sembro
Nave che insieme combatton fra loro
Euro, Noto et Affrico adirati,
Mentre l’aere oscuro ha per lucerne
I lampi spaventosi de i baleni:
1895
Ch’Affrico e Noto et Euro crudeli
Si mostrano a la mia barca vitale,
Che per il mare agìran de i travagli
Le morti de i miei figli. Onde se Celia
Non mi duol quanto a sé, duolmi perch’ella
1900
Mi causa un fastidio che trapassa
Qualunche duol si sia. Onde mi sento
Simile a quel nocchier che, non potendo
Resistere al furor de i venti in rabbia,
Mira lo scoglio, ove di dar paventa
1905
Se fortuna, che il fa, l’ira non frena;
Onde poi non sen vada e rotto e sparso
Nel pelago profondo, come ch’io
Temo di gir, s’altro soccorso il cielo
Non rivolge in vêr me: che spero ch’egli
1910
Non tardarà di farlo; e se pur tarda,
Gli errori miei gliene daran cagione.

SPURIO
Si è mostrato terribile nel detto
Tullo, perché la punizion si vegga
Moderata, placabile et umile.
1915
Egli è certo così: per il che lodo
Lo appoggiarti a la speme. Perché sòle
Un arco forte di ferro spezzarsi
Che in mille prove mille onor si diede,
E poscia ne i suoi pezzi in fuoco posto,
1920
Subito che in sé tenero diventa,
Del martello i tormenti e le tempeste
Lo riuniscan, sì che più tenace
Si fa veder dove il rompé la forza,
Che in quelle parti u’ si rimase intero.
1925
È dunque meglio il mai non ischernire
L’andar de la speranza, ancor che incerta:
Che talor pianta oppressa al sol risorge,
Né simiglia il dì d’ieri al giorno d’oggi,
E spesso un cor, che il suo penar sopporta,
1930
Più si contenta u’ vien che meno il pensi.
Ma se ben ciò non fusse e non aviene,
Da che non siamo Iddii, onde si possa
Adempier come lor gli intenti nostri,
Bisogna, uomini essendo, sofferire
1935
Qualunche ne succeda empia fortuna.

PUBLIO
Spurio, acquetati un poco, che mi pare
Udire un non so che e veder anco
Persone insieme: elle son duo di punto.
Caminiamo in vêr loro, anzi stiam saldi,
1940
Che forse qui verranno, e qui venendo,
A chi nol crede mostrarò col ciglio
Che padre mai non fui di cotal belva.

SPURIO
I Duumviri: a i gesti gli conosco,
A i panni et a lo andare; eccogli fermi.

PUBLIO
1945
Da che son lor, che vuoi, Spurio, ch’io mova?

SPURIO
Stiamci da canto, or che son volti in suso,
Et ascoltiamo il consultar de i doi.

PUBLIO
Certo il Re voul che la cosa si tratti
Dove il caso è successo: io il credo, io il veggo.

SPURIO
1950
Parlano in voce molto sciolta e alta.

DUUMVIRI
Per disposizion celeste il regno
È permesso a chi domina le genti;
Onde chi ottien lo scettro et il diadema,
Di Dio la volontade have esseguita.
1955
Tal ch’egli è forza d’ubbidire a i Regi,
Reggenti l’azioni, i cor, le vite
De gli uomini obligati a riverirgli,
Quasi Numi terrestri et aiutrici.
Ma bontà somma e somma sapienza
1960
Si può dir quella del Re che si regge
Sì come ch’egli diè regger sé stesso,
Mostrandosi a ciascun forte, clemente,
Grave, sincero, liberale e giusto.
Il buon Re (che de i popoli è pastore
1965
E si nutrisce con modeste tempre
De la gloria, la qual madre è de gli anni:
Il cui perfetto d’ogni laude onore
Veramente consiste in disprezzarla)
Né dì, né notte di metter non resta
1970
La deligenzia de la pronta cura
Ne le necessità di ciò che accade
In ciascun grado, in ogni condizione
Di uomo vivente. Però Tullo, il quale
Riguarda il tutto con real giustizia,
1975
Vòle che noi, in magistrato posti,
In viva voce condanniamo Orazio,
Caso che la giustizia lo comporti,
In questo sito, incontro al dove langue
Il corpo di colei che l’empio ha morta.

PUBLIO
1980
Forse ch’errai, forse che fu menzogna!

DUUMVIRI
Viene oltre, Orazio, e voi altri restate,
Restate o gite ove di gir vi pare.

PUBLIO
O figliuol, che sarà? Segue me, Spurio:
Forse ch’è sbigottito. O magistrato,
1985
È gran divinità di grazia diva
Quella di quel degno uom, di quello uom degno
Che sa pietade aver d’un mal sortito.
Or pensisi, se dir si può divino
Colui che leva in piedi un fortunato,
1990
In un tratto caduto dal cielo alto
Ne la cupa voragine del centro,
U’ mai non trova la rovina il fondo:
Come la mia non trovarebbe, quando
Voi consentiste che restassi nulla
1995
Orazio, che pur mo era ogni cosa.
Certo avrei di ciò dubbio, se vio foste
De i giudici che attendano al volere
Che la severitade in la giustizia
Gli affermi per giustissimi, dannando
2000
Gli innocenti per rei et assolvendo
I rei per innocenti; e chi più increspa
Il fronte in sé, e più le labbra stringe,
E torce il ciglio e più turbato parla,
Più per uom grave e buon l’hanno i regnanti.

DUUMVIRI
2005
Perché la legge, ch’è una ragione
Tolta da la potenza de gli Iddii,
La qual comanda sol l’oneste cose
E vieta le cattive, et ancor vòle
Che sempre sia astretta l’audazia
2010
E che viva sicura l’innocenzia,
Sappi, Publio, che a noi forte rincresce
Di sentenziar per omicida Orazio.

PUBLIO
Se de l’uomo ben solo è la pietade,
S’ella è di Dio conoscimento certo,
2015
E se a lei non fu prescritto mai
Supplizio alcuno, patrizii onorati,
Non la negate a me che lagrimando
Con gli occhi e con il cor la chieggo a voi,
Che pur sapete che assolvere un reo
2020
È meglio che punire uno innocente.

DUUMVIRI
Va’, dimanda la legge, e s’ella tiene
Per innocente Orazio et a noi giura
Ch’egli tal sia, in te rimetterasse
Quel che far se ne dee; in questo mentre,
2025
Aciò che la giustizia il suo dritto abbia
E perché a la legge non si manchi,
Noi, Publio, noi giudichiamo il tuo figlio
Puro omicida. Viene oltra, o Littore,
Lega le mani a lui. Poscia si segua
2030
Il batterlo a le mura nostre dentro,
Di poi si appenda a l’arbor disgraziato,
Incolpando di ciò la sorte iniqua.

PUBLIO
Che odo io? e che sento? Sta’ indietro,
Littore, alquanto, che anco i tigri Ircani,
2035
Anco i draghi di Libia in tal frangente
Mi farebber la grazia ch’io dimando.

DUUMVIRI
Ubbidiscelo, aciò ch’egli favelli,
Al tuo uffizio non mancando poi.

PUBLIO
Chi condanna al morire Orazio? Dite.

DUUMVIRI
2040
La legge, che bisogna ch’altri osservi.

PUBLIO
Non è legge veruna in Roma ancora.

DUUMVIRI
Il duol ti occupa sì che il senno stempri.

PUBLIO
Sì voi, che vaneggiate per parervi
Che la legge ci sia, errando forte;
2045
Ma né Re, né decreto, né Senato,
Né libertà, da che il mio figlio in campo
Co i nimici affrontossi, ha Roma avuto.
Peroché tutto è ito dependendo
Ne la spada di lui, nel valor suo.
2050
Che se punto minore oggi appariva,
Senato, libertà, Rege e decreto
Era a noi Alba: onde tutti i prudenti
Confermeranno che almen questo giorno
Memorabile, sacro e glorioso
2055
Mercé de le virtù del giovan fido,
A i merti propri suoi è dedicato.
Oggi egli sol diè punire i superbi,
Perdonare a gli erranti, e poi far grazie
A qualunche n’è degno; e poi dimane
2060
A la città ristituire il tutto:
Tal che le leggi ritornate in loro
Possino cominciare a esercitarse.

DUUMVIRI
Gravi cose ne detta il caldo zelo,
Che amare altri ci fa come noi stessi.

PUBLIO
2065
Or sù, io voglio che la legge possa
Quel che sempre ha potuto; parvi in vero
Che sia d’onestà sua il dar la morte
A chi l’ha ora conservata in vita?

DUUMVIRI
Sorda e cieca è la legge, qual dicesti
2070
Dianzi al Popol, che a noi poscia il ridisse.

PUBLIO
Io cedo a quanto voi savi sentite,
Onde vi prego che senz’altro indugio
Il mio figliuol se leghi, impenda e batta,
Se la sorella ha de la vita spenta.
2075
Che se ciò fusse, io stesso il punirei
Per autorità certo paterna.

DUUMVIRI
E che ha fatto il furioso adunque?

PUBLIO
Estinte quelle lagrime insolenti
Che aveano invidia a la Romana gloria.

DUUMVIRI
2080
Come si sia, conserviam pur la legge
Nel grado suo e il magistrato nostro.

PUBLIO
Ahi, che la colpa de i cordogli miei
Non è di voi, non da la legge viene,
Ma dal livore che non può soffrire
2085
L’altrui virtute; e subito ch’un buono
Fa opre degne, contra si provoca
La setta de i peggiori, esche e fucili
Che, acceso il fuoso u’ spegner si devria,
Causano la ruina di coloro
2090
Che in rivereza si debbano avere.
E di qui vien che di tòsco e d’esiglio,
Di carcere, di opprobri e di tormenti,
D’imposte gravi e di caduti gradi
E di confiscazion de i propri beni
2095
Remunera la patria spesse volte
Quelli che la sublimano col sangue.
Ma beato colui che si contenta
D’essere solamente cittadino,
Schifando i seggi de l’ambizione.

DUUMVIRI
2100
Non parli tu: la passion ragiona.

PUBLIO
Anzi il dever la lingua mi discioglie,
E la protezion, che de le leggi
Prender devrebbe ognun; peroché sono,
Ancor che abbino origine da quelle
2105
Ch’ordinò prima Iddio, fatte tiranne
De le innocenzie altrui; non per lor vizio,
Ma per cagion di chi l’usa secondo
Che d’usarle li pare, onde comanda
Il perduellion, rito efferato,
2110
Quel che devria dissuader con pena
A qualunche republica tentasse
Il voler eseguir gli aspri rigori
Per parer di concorrere co i Dei
Ne la giustizia e non in la clemenza:
2115
Che guai a noi s’ella pur fusse meno.
Ma che fai, o Littor? chi ti fa cenno
Che senza altro parlare Orazio leghi?

LITTORE
I Duumviri qui.

PUBLIO
Ahi inumani!

LITTORE
Il guardo sol d’Orazio tremar fammi:
2120
Egli ha nel ciglio un certo terror fiero,
Che il laccio a me toglie di mano. Pure
Torno a far l’opra: perdonami, Orazio,
Et ubbidisce a chi tu debbi ormai.

ORAZIO
Io al Popolo appello.

DUUMVIRI
Littor, fermo,
2125
Che noi più non abbiam che far con seco.

PUBLIO
Saggio figliuol, ti hanno spirato i Dei
A tale appellazión, perché in duo petti
Et in duo menti non potea capire
Tanta pietà e prudenza che bastasse
2130
Ad abbracciare e risolvere il caso
Che le menti et i petti d’assai gente
Con zelo umano e con ragion capace
Espediranno, s’è ben nuovo e duro.

ORAZIO
Io ho dolore del duol vostro, padre,
2135
Perché lo debbo aver, sendovi figlio;
Ma di ciò che mi avien, nulla mi dolgo,
Con ciò sia che non posso in ciò dolermi.
Imperoché il cor mio sparge il furore
Nel seno d’altri, e la vita e la morte
2140
Non prezzo o sento, se non quanto voi,
Oer amar me, l’apprezzate e sentite.
Ma s’io credessi non vi accrescer doglia,
Cosa farei che mi trarria d’impaccio.

PUBLIO
Mille e mille per ciò grazie ti rendo.

DUUMVIRI
2145
Ecco là ne la piazza lunga e lata,
Qui dirimpetto, il Popolo che appelli,
Ecco venirne a noi gran parte in fretta.
Vanne dunque in vêr lui: e tu, Littore,
Prima che Orazio al Re si trasferisca,
2150
Narra a l’altezza sua tutto il successo;
Perché noi tosto a confermar verremo
Il parlar tuo, poi che pur siamo privi
Del magistrato da l’appellazione.

PUBLIO
Ben verrò, figlio, ben ti verrò dietro.

DUUMVIRI
2155
O amico Publio, or che non siam sì gravi
Di quel rispetto che mertan le leggi,
E quasi che privati de l’uffizio
Del qual parve di farci degni a Tullo,
Oltre il pregar ciascuno Iddio che Giove
2160
Preghin per la salute del tuo figlio,
Ogni nostro favor vogliam prestarti,
Ancor che inutil sia: perché averai
Molto da far, tanto forte è il letigio.

PUBLIO
Padri, io ringrazio la bontade vostra
2165
Che sì umanamente si commove
In pro de le mie strane affizioni;
E di voi anco le proferte accetto,
Perché spero di trarne alto profitto.
Ma perché in questo mondo, in questa vita
2170
Cosa non è di ammirazion più degna
Che la bontà e che l’umanitade,
Risplendendone voi, come si vede,
Ne avet obligo a Dio e a la Natura.
Peroché in noi e la Natura e Dio
2175
Così alme virtù largisce e infonde:
A tal che l’una è sustanzia gioconda
De gli animi reali e generosi
E l’altra soavissima vivanda
De l’anime beate et immortali.
2180
Ora, in quanto a quel dubbio che v’inforsa
La salvezza d’Orazio, esser non puote
Che non sia alcun Nume che riguardi
Sopra il capo di lui; e in tal sinistro,
Se la Fortuna, ch’è senza vergogna,
2185
Si potesse una volta vergognare,
Tacita seco si vergognarebbe
Ne l’aver dato de i suoi mali in preda
Orazio, che l’anichila e convince
Non pur con l’aere de l’altiero fronte,
2190
U’ stansi imperiose e trionfanti
L’armi, il senno, il valor, la fede e ’l vero,
Ma con la tolleranza del cor saldo
Che, non che tema, mirar degna a pena
Il dispietato pericol presente:
2195
Che un morire innocente in l’età verde
Molto più vale, assai più caro tiensi
Che un viver contumace di più lustri.

DUUMVIRI
Andiancene a la corte e procacciamo
Tutto il ben che si può, poi che affermato
2200
Avremo al Re ciò che il Littor diralle.
Noi teniam tanti tra il Popolo amici,
Che nuocer no, ma ci potran giovare.
Sì che, o uomo onestissimo, aviamci:
Che ti apportan men doglie i figli morti,
2205
Di questo che, pur vivo, in compromesso
Vedesi aver la vita; ond’era meglio
Il suo mancare armata mano in campo,
Che suso il legno inerme busto in Roma.

PUBLIO
Passiam per dove ciascun sasso tinge
2210
Non già il mio sangue, ma quel di colei
Ch’io devrei calpestar co i propri piedi.
Non è severità dimostrativa,
Né fortezza di core artifizioso
La crudeltà ch’io mostro; io già non fingo
2215
La di lei pertinacia, acioché ognuno
Mi abbi pietade e che favor mi porga.
Che in vero ira giusta a ciò mi sprona,
Poi che la ingrata procacciò il morire,
Perché il padre e il fratel più non vivesse.

SPURIO
2220
Da che tu hai, o Publio, il core in pugno
Di quegli Padri, sollecita il gire
Dove è suto indrizzato il figliuol tuo.
Va’ di pian passo, va’ con piede ratto,
E quivi et ivi dimanda et intende,
2225
Ripara, prega, provede e scongiura
Secondo che ti par, come diè farsi.
Perché quercia non è sì antica e salda
In erta, alpestre, innaccessibile alpe,
Che il vento de i sospir d’un padre, quale
2230
Tu sei, e per un caso al tuo simile,
Non isvegliasse insin da le radici.
Onde non sarà uom, benché crudele,
Che non ti dia il suo voto e non constringa
Anche de gli altri a consolarti l’alma.

PUBLIO
2235
Il dir consolatorio è uno impiastro
Che, posto sopra la profonda piaga
De l’altrui certa aversità perversa,
Ricopre sol la bruttezza del membro
Che languido rimansi, enfiato e guasto.

DUUMVIRI
2240
Ecco a noi il Littore: esser non puote
Che in là gito sia molto. Che vòl dire
Il tuo tornar sì tosto? il Re che dice?

LITTORE
Tullo, l’appellazion d’Orazio intesa,
Fece sapere al Popolo, che il carco
2245
Ha del suo caso, che non accadeva
L’alte marmoree del palazzo scale
Per tal conto salire, perché avendo
Rimessa in lui la potestate intera
(Quando voi duo patrizii altro contrasto
2250
Non faciate con lui, qual far potete),
A lui tal cura lascia; e così intorno
Al giovane è ciascun concorso quasi.
Ma egli stassi a le gran turbe in mezzo,
Di scoglio in guisa che nel mar risiede
2255
In sé stesso eminente; et i giudizii,
Che diversi si fan sopra di lui,
Simiglian l’onde che, percosso che hanno
I fianchi del gran sasso, il petto e il dorso,
Riedano indietro e in verso lui tornando
2260
L’assaliscan di nuovo, e sin che dura
La tempesta, non ha tal guerra pace.
Or ch’io vi ho detto come sta la cosa,
Quinci oltre mi starò passando il tempo:
Perché s’Orazio si condanna o assolve,
2265
In questa via, in questo propio sito
Assolvere si debbe o condennare,
Del successo in perpetua memoria.

DUUMVIRI
Le parole son l’ombra de le cose,
E le cose il model de le parole;
2270
Però del Re la risoluzione
E d’Orazio il travaglio in cui si trova,
Vediamo nel dir tuo; or va’ du’ vuoi.

PUBLIO
Io andavo pensando meco, o Padri,
Che assai son quelli che temon la fama,
2275
E pochi han cura de la conscienza.
Che s’andasse una cosa e l’altra al paro,
Di comune consenso la gran Roma,
Posto da parte il mostrar d’esser giusta,
Cominciaria in questo punto, in questo,
2280
A comandar per via d’un premio largo
A tutti quei che figuran ne i marmi
L’essenzie altrui, che sculpisser d’Orazio
In mille statue l’imagine vera;
Imponendo anco a ciascun che registra
2285
Con lo stil de gli inchiostri ne le carte
I gesti di color che il mondo canta,
Che depennasser tutte l’altre istorie:
Imperoché ogni cronica et annale
Sono oscurati da gli atti di lui.

SPURIO
2290
Le virtù sue, senza alcun pari al mondo
(Che così dir si debbe, uniche essendo
In Roma che del tutto esser dee donna),
Solennità li son di maggior pompa
Che non saria tal cerimonia degna;
2295
Né le fa meno il caso in che si trova,
Che l’or si affina nel fuoco u’ gli è posto,
E quanto più si batte, più si purga:
Che quel che il martel leva è sol la schiuma.
Egli il sol fia e l’accidente un nube
2300
Che dura un pezzo e poi tosto si allarga;
Pur che voi, Padri mansueti e santi,
Vincere non vogliate il Popol buono
Per mostravi anco in magistrato, e poi
Dar la sentenza, che a pensarla accoro.

DUUMVIRI
2305
Da che non dassi al parlar nostro fede,
Non perché in voi somma bontà non sia,
Ma perché il caso diffidenza porta,
La man ve ne porgiamo in sacramento.

PUBLIO
O Padri invero santi e mansueti,
2310
Andate, che verrem dietro di voi.

SPURIO
Tempo non ci è da far pratiche, o Publio,
Che assai fatte ne aviam quetando i Padri;
E il consultar con sì lunga tardanza
Ha scordato in gran parte il fatto nostro.
2315
Ma ora importa ben trovare Orazio.

CORO DI VIRTÙ

ErrorMetrica
Sono infiniti i mali
De i miseri mortali;
Ma nel caso de i beni,
Tra mille oscuri hanno duo dì sereni.
2320
Però meno superbe
Devriano aver le voglie,
Che i diletti son fior, serpi le doglie
Che attoscan le lor erbe.
Ecco la sorte Orazio
2325
Col sacro allor consola;
Poi li acenna a la gola
Un empio laccio e in così breve spazio
Apresso di lui tene
L’imago de la gloria e de le pene.
2330
Ma sarà ben severo
Il cor di Publio in lutto,
Se ne lo afflitto rompersi del tutto
Ei si rimane intero.
Infine il ciel dispone
2335
(Affatichinsi pur gli uomini quanto
Affaticar si sanno)
Che nel terrestre scanno
Non viva alcun, sia pur beato o santo,
Privo di passione.
2340
Or da che torna pur tranquilla calma
Del mar l’irato seno,
Potria del duol la salma
Premere il vecchio meno.


ATTO QUINTO

NUTRICE
ErrorMetrica
Oimè l’Ancilla pur adesso, or ora,
2345
Tagliatesi le treccie, halle tessute
Sì bene insieme che, fattone un laccio
E acconcio in modo a un travicel nel palco
E intorno a la di lei tenera gola,
Che strangolata s’è miseramente,
2350
Non per altra cagion che per l’amore
Ch’ella portava ismesurato a Celia.
Et io che madre a lei era e non serva,
Come che peggio mi fusse la morte
Ch’una vita sì aspra, anco son vivo.
2355
Per il che l’ossa mie al cener suo,
E la mia ombra a la sua ombra denno
Render ragion d’una impietà cotanta.
Ma ecco Publio: o Publio, non potendo
Più viver senza Celia, s’è l’Ancilla
2360
Appesa a un legno.

PUBLIO
Ci mancavon guai
Ch’esercitasser ne la pazienza
Il mio animo, obietto de i cordogli.
Or ritornati dentro, che tal caso
Anullarà quel che minaccia Orazio,
2365
O Popolo illustrissimo, per dirti.
La gioventù debbe scusare Orazio,
Quando ch’egli abbia pur commesso errore:
La gioventù, furor de la Natura,
Che in l’esser suo un caval fiero sembra,
2370
Da i legami disciolto in un bel prato,
Che in sé ritroso, la giumenta vista
Ne i campi aperti, alza su i crini folti,
Le nare allarga e la bocca diserra,
Fremita, ringe, calcitra e vaneggia.
2375
Poi, dopo alcuni salti e forti e destri,
Mosso il gagliardo e furioso corso,
Né precipizio u’ traboccar si possa,
Né tronco dove dar di petto debbia,
Né sasso o altro ivi in suo danno guarda.
2380
Ma questo è nulla: sai tu, saggio e grave
Popolo senza menda, ciò che pare,
Anzi quel ch’è la gioventute altiera?
Una sfrenata volontade ardente
Che non ha fine alcuno: e però ella
2385
Ciò che le pare esseguisce e non mira
A le cose esseguite et ha i pensieri
Strani et a caso; e la mente u’ gli crea,
Senza tener memoria di sé stessa,
A l’animo ubidisce, il qual licenzia
2390
Ha sopra tutti gli appetiti suoi.
Tal che il di lei intento vagabondo,
Che il premio da la pena non distingue,
Né la lode dal biasimo discerne,
Senza considerar procede via.
2395
Sì che merta perdono Orazio, ch’anco
Sparte non ha le delicate guancie
De la bionda lanugine virile.
Onde nel far ciò che ha fatto pensosse
Che fusse onore il farlo, e lo farebbe
2400
La giovinezza sua di nuovo ancora.

POPOLO
Come si può scusar per giovin quello
Che ne i suoi gesti si governa come
Usa di governarsi un uom maturo?
Se il senno apparso nel tuo figlio prima
2405
Ch’egli vincesse, in lui fusse apparito
Poi che vinto ebbe, saria fuor di noia.
Ecco morti ch’ei vidde gli altri Orazii,
Si mise in fuga ad arte, per far poscia
Ciò che fe’ de i nimici; e dove lascio
2410
Il recusar la corona d’alloro?
E il non voler gir a lo stuolo innanzi?
Né su alto le spoglie de i perdenti?
Certo il veder del suo proceder dopo
A la vittoria, d’insolenza colma
2415
Giudico adulazion, non temperanza,
Ogni suo voto; che se qualche indugio
S’interponea tra l’obligo e il pagarlo,
Non persona servil, ma il Re nostro
Era sforzato da l’ambizione
2420
Del figliuol tuo a sospendere in cielo
Intorno del Zodiaco tra i segni,
O sopra i corni lucenti del Tauro,
Le spoglie ch’io ti dico e che tu sai.
Deveva Orazio, che ha pur Celia estinta
2425
Per più fiero parer, devea certo,
Piangendo l’uom, ch’ella piangea con pianto
Più tosto degno d’onor che di morte,
Schernir con un sorriso, e di tal duolo
Farsi beffe con atti dimostranti
2430
La inutil passion de la fanciulla.
E così de l’avere il petto casto
Trapassato col ferro sanguinoso,
Tutte de i cieli le virtù divine
Restarien di gridar dinanzi a i Dei
2435
Vendetta del morir de la innocente;
Per la qual cosa le lor maestadi
Con non dritto occhio rimirando il vanno.

PUBLIO
Ben sa de i sommi Dei la providenza
Che il tutto è intervenuto perché Celia
2440
Gran cagion dienne a lui, giovane altiero.
Devea la crudeltà, dal suo marito
Usata in tòr del mondo i fratei suoi,
Ispegner la pietà, ch’ella ebbe tanta
De la morte di tale, e saria viva,
2445
E ’l cor proprio d’Orazio, che sospinto
Fu al giusto atto da reale sdegno.
E però devi, o Popolo discreto,
Rispettare il garzon, che anco non varca
Quattro lustri d’età: venti anni ha egli.

POPOLO
2450
Che s’abbia alcun rispetto a chi non have
Nessun riguardo a la natura nostra,
Illecito mi pare; e se pur fia,
Potrà dirsi non già di uman favore,
Ma dono sol di Dio, per man di noi
2455
Offerto a te che le parole formi
Con la stampa del cor che te le insegna.

PUBLIO
I Duumviri, Popolo gentile,
Parlano un grado mio senza aprir bocca.
E ’l provo col poter eglino opporsi
2460
Al tuo asbitrio e vincer il letigio,
E dipoi in onor de l’empia legge
La vita sottopor de la mia vita
A l’orribil suplizio; non fan motto,
Che il preceder più oltre, senza forse
2465
Pregiudicaria lor, me offendendo.

POPOLO
Ecco il Littor: Littore, Orazio chiama,
Che si sta da le turbe circonfuso,
Come là sotto il superbo arco vedi,
E conducilo qui, che ognuno il vegga.

PUBLIO
2470
E tu, pietà, chiama quei tanti e tanti,
Quei tanti e tanti chiama tu, pietade,
Chiamagli, pietà, dico: e in lingua loro
Sino al cielo da sentir qual, sua mercede,
Essi e mille altri e di poi mille e mille
2475
Hanno, come si sa, spirto nel petto,
Carne in su l’ossa, sangue entro le vene,
In bocca fiato, in la persona membra,
Lena in la vita e in la pelle vigore.
Con ciò sia che la morte de i miei figli
2480
E la virtù di quel che vive han salva
De la patria di noi gente infinita
Che già si preparava al fatto d’arme,
Terminato per man de la battaglia
A gli Orazii commessa; onde che vivi
2485
Gran numero per ciò di color sono
Che in mezzo combattendo a i ferri crudi
Morti sarieno, altri uccider volendo.
Sì ch’essi, Popol pio, essi più ch’io,
Se ben padre li sono, inginocchiarsi
2490
Debbeno inanzi a te, da te impetrando
La salvezza di lui; perché in la pugna
Non ero per andar, che gli ultimi anni
Annovero oggimai, onde alcun frutto
Non potea far la giovenile spada
2495
Che de la pace ho dedicata al tempio.
Benché vaneggio in dir che solo quelli
Che seguan Marte, a supplicar per lui
Tenuti sono, che il debbon far anche
Le case, i tetti, gli edifizii, i fori,
2500
Era sforzato da l’ambizione
Del figliuol tuo a sospendere in cielo
Intorno del Zodiaco tra i segni,
O sopra i corni lucenti del Tauro,
Le spoglie ch’io ti dico e che tu sai.
2505
Deveva Orazio, che ha pur Celia estinta
Per più fiero parer, devea certo,
Piangendo l’uom, ch’ella piangea con pianto
Più tosto degno d’onor che di morte,
Schernir con un sorriso, e di tal duolo
2510
Farsi beffe con atti dimostranti
La inutil passion de la fanciulla.
E così de l’avere il petto casto
Trapassato col ferro sanguinoso,
Tutte de i cieli le virtù divine
2515
Restarien di gridar dinanzi a i Dei
Vendetta del morir de la innocente;
Per la qual cosa le lor maestadi
Con non dritto occhio rimirando il vanno.

PUBLIO
Ben sa de i sommi Dei la providenza
2520
Che il tutto è intervenuto perché Celia
Gran cagion dienne a lui, giovane altiero.
Devea la crudeltà, dal suo marito
Usata in tòr del mondo i fratei suoi,
Ispegner la pietà, ch’ella ebbe tanta
2525
De la morte di tale, e saria viva,
E ’l cor proprio d’Orazio, che sospinto
Fu al giusto atto da reale sdegno.
E però devi, o Popolo discreto,
Rispettare il garzon, che anco non varca
2530
Quattro lustri d’età: venti anni ha egli.

POPOLO
Che s’abbia alcun rispetto a chi non have
Nessun riguardo a la natura nostra,
Illecito mi pare; e se pur fia,
Potrà dirsi non già di uman favore,
2535
Ma dono sol di Dio, per man di noi
Offerto a te che le parole formi
Con la stampa del cor che te le insegna.

PUBLIO
I Duumviri, Popolo gentile,
Parlano in grado mio senza aprir bocca.
2540
E ’l provo col poter eglino opporsi
Al tuo arbitrio e vincer il letigio,
E dipoi in onor de l’empia legge
La vita sottopor de la mia vita
A l’orribil suplizio; non fan motto,
2545
Che il preceder più oltre, senza forse
Pregiudicaria lor, me offendendo.

POPOLO
Ecco il Littor: Littore, Orazio chiama,
Che si sta da le turbe circinfuso,
Come là sotto il superbo arco vedi,
2550
E conducilo qui, che ognuno il vegga.

PUBLIO
E tu, pietà, chiama quei tanti e tanti,
Quei tanti e tanti chiama tu, pietade,
Chiamagli, pietà, dico: e in lingua loro
Sino al ciel fa sentir qual, sua mercede,
2555
Essi e mille altri e di poi mille e mille
Hanno, come si sa, spirto nel petto,
Carne in su l’ossa, sangue entro le vene,
In bocca fiato, in la persona membra,
Lena in la vita e in la pelle vigore.
2560
Con ciò sia che la morte de i miei figli
E la virtù di quel che vive han salva
De la patria di noi gente infinita
Che già si preparava al fatto d’arme,
Terminato per man de la battaglia
2565
A gli Orazii commessa; onde che vivi
Gran numero per ciò di color sono
Che in mezzo combattendo a i ferri crudi
Morti sarieno, altri uccider volendo.
Sì ch’essi, Popol pio, essi più ch’io,
2570
Se ben padre li sono, inginocchiarsi
Debbeno inanzi a te, da te impetrando
La salvezza di lui; perché in la pugna
Non era per andar, che gli ultimi anni
Annovero oggimai, onde alcun frutto
2575
Non potea far la giovenile spada
Che de la pace ho dedicata al tempio.
Benché vaneggio in dir che solo quelli
Che seguan Marte, a supplicar per lui
Tenuti sono, che il debbon far anche
2580
Le case, i tetti, gli edifizii, i fori,
Gli acquedutti, le mete, le colonne,
I templi, gli archi, i teatri, le moli,
I colossi, le terme, i simulacri
Et insieme co i sette colli altieri
2585
Gli intrighi che in le vie rompano i passi.
Perché si vincitrice Alba di Roma
Restava in cotal dì, non rimaneva
Qui pietra sopra pietra, andando il tutto
In rovine et in ceneri, elevando
2590
L’una città con il cader de l’altra.

POPOLO
Se tu giudice fusse de l’errante,
Come padre li sei, non saperesti
L’efficazia del cor per la tua lingua
Esprime così ben; ma essendo al reo
2595
Padre molle e non giudice severo,
L’animo che li tieni dir ti face
Cose di padre veramente degne.
Orazio, in tanto appressati, ch’io voglio
Che la giustizia in grado si conservi,
2600
Come anco Orazio vorrebbe, se fusse
Il caso in altri et ei fuor d’interesse.

PUBLIO
Ahi, Popolo benigno, miserere,
Miserere di me, vecchio infelice:
Che certo veder parmi ora la morte,
2605
Sempre senza pietà, conversa in pianto,
Per farle forza ogni pianeta infido
Di offendermi sì oltre. O Popol grato,
Farai tu, tu farai batter qual corpo
Che, abbattendo gli inimici Albani,
2610
Tutte le membra del Romano impero
Restaro inviolabili et intatte?
Popolo sopr’uman, Popol sublime,
Farai velar, velar farai tu gli occhi
Al gran liberator del nostro regno?
2615
Il cui sguardo feroce et immortale
Scintilla raggi d’ardire e di onore,
Per il che fu eletto a quella impresa
Che guai a noi s’ella cadea in altrui?
Io, o Popol divin, creder non posso,
2620
Non io che non so creder che ti piaccia
Veder di nodi ingiuriosi astrette
Quelle armigere, franche, uniche mani
Che di servile ubidienza han cinto
Tutto l’arbitrio de i liberi Albani
2625
E disgombrate le catene dire
Che si non gite ragirando intorno
A la Romana libertà serena.
Benché poco hanno fatto in quanto a l’opre
Che per far sono de la patria in grado
2630
Quando l’occasion, l’ora opportuna
A le virtuti lor presenteranno.
Ma cingeransi mai d’orrido fune
Quella gola e quel collo che di gemme
E d’or ancor devria cinger monile?
2635
A l’arbore infelice appenderassi
Colui che ha dato al popolo, a la patria
Vita e felicità? Or non udite
Parole uscir da i morti Curiazii,
Che a gran voce riprendon l’impietade
2640
Di te, Popol Romano? Onde gli onori
D’Orazio, fatta di sé stessi schiera,
Per duce avendo la sua gloria tanta,
Vengan per liberarlo; e lo faranno,
Se la clemenza tua, Popolo, indugia
2645
Un sì dovuto uffizio: la clemenza
Di cui, Popol, sei vaso. Perché a Dio
Si avvicinan color che ogni or pietosi
Si rivolgano inverso i falli altrui.
Tal che chi sta ne l’atto del pedono
2650
D’uomo diventa Iddio: però devremmo
Sempre desiderar che si fallisse
Per non esser mai uomini e Dei sempre,
In virtù, in onore, in laude, in grazia
De la misericordia ch’io dimando,
2655
Per questo figliuol mio che abbraccio e bascio,
Che bascio e abbraccio tremando e piangendo.
Ma se la sorte pur vorrà che occorra
Ciò ch’ella mostra, che Dio vòl che sia,
Speranza ho d’impetrar, mercé del pianto,
2660
Di morire in tuo scambio.

ORAZIO
Anzi, padre, io,
Io per voi patirei la morte, quando
Foste in termine tale; a voi rendendo
L’esser concesso a me da l’esse vostro.

PUBLIO
L’essenza de la carne ch’io ti ho dato
2665
A me renduta l’hai di gloria tale
Che se obligo è pur tra il padre e il figlio,
Dal lato mio si rsta.

ORAZIO
Or al Littore
Comanda, o Popol degno, impone a lui
Che leghi a me, inutil servo a Roma,
2670
E le mani e la gola; e che mi copra
La testa, e batta dove più ti aggrada,
Impendendomi poi sopra le forche.
Perch’io quel sono, io son colui per certo
Che il tòr de la vita a la sorella
2675
Ho tradito la patria, ho avuto in odio
La libertà, chi la brama e chi l’have.
E perché l’opre far peggio non ponno,
L’ho fatto col pensier, col cor, con l’alma.

POPOLO
Io pensai d’esser solamente giusto
2680
In materia sì strana, la qual fammi
Di giusto diventar pietoso tanto,
Che né del vecchio le lagrime amare,
Né del giovane l’animo costante
Dentro al cor mio più sofferir non posso;
2685
Onde, Orazio, io ti assolvo.

PUBLIO
Ahi, Redentore!
Ahi, Dio quaggiù di noi!

POPOLO
Ti assolvo, Orazio.

PUBLIO
O Nume nostro salutare!

POPOLO
Io assolvo,
Orazio, te e ciò faccio e dispongo,
Oltre la pietà che ho del tuo buon padre,
2690
Per maraviglia de la tua vertute,
Non per giustizia de la causa inorme.

PUBLIO
Popol misericorde, Popol santo!

POPOLO
Ma perch’una sì nota uccisione
In qualche modo onesto sia punita,
2695
A le spese del publico farai
Che il figliuol tuo, che or a pietà mi move,
Purghino i sacrifizii purgatorii,
I quali atribuiti et assegnati
Saranno de gli Orazii a la famiglia
2700
Et oggi e sempre. Intanto, Littor, trova,
Trova un giogo, o Littore, perch’io voglio
Che Orazio sotto col capo velato,
In segno di peccante e penitente,
Ci vada umile; e che si chiami poscia
2705
De la sorella il trave; e d’anno in anno
De le pecunie del comune erario
Si rinovi tal cosa: e questo è quanto
Termina e chiude la data sentenza.

ORAZIO
Diè dunque Orazio, Orazio debbe dunque
2710
La testa porre, in un vil drappo ascosa,
Sotto a quel duro e dispietato giogo
Dal quel dianzi egli solo armato in campo
Ha liberato il glorioso collo
Di tutto il Roman popolo e di Roma?
2715
Publio, il petto indurate, incrudelite
Il core, o Publio, consentendo ch’io
Più tosto moia una volta che mille,
Anzi che sempre: avenga che la grazia
Empia e nefanda in perpetuo al morire
2720
Condanna me, che morirei d’ogni ora
Ne la memoria che in ciò rimarebbe
Di età in età, di gente in gente.
Io son giovane sì, ma non sì vano
Che non comprenda ciò che il giogo importa,
2725
Rinovato dal publico tesoro.
Sì che la legge i suoi rigori adopri,
Mostri i suoi dritti, ch’io per me non posso
Sentir cotal giudizio; e in lui morendo,
Rinasco in altro, perché in ciascun tempo
2730
La gente d’ogni secolo pietade
Avrà del torto che mi face in cielo
Col porre a Roma in su gli occhi una benda
D’infame ingratitudine e malvagia.

PUBLIO
Che v’ho io fatto, stelle? o cieli, a voi
2735
Che mai feci io? ditemi, o pianeti,
Perché così perseguitare un uomo?
È vero, influssi, io confesso, destino,
Né a voi, sorti, né a te, caso, nego
Che non dicessi, come sa qui Spurio,
2740
Che del cenno d’Iddio servi voi sete.
Ma quando pur io perversato sia
Per cagion sì potente, in Giove spero,
Ch’essendosi il suo onor per me difeso,
Non sosterrà che guiderdon ne segua
2745
A la sua immensa largità disforme.

POPOLO
Duolmi del dolor tuo, Publio, e sì lodo,
Io lodo, Orazio, il generoso affetto
E lo ardir formidabile che mostra
Lo intrepido cor tuo e forte ammiro
2750
Come ch’ei possa nel petti capirti
Non capendo nel mondo; e però vuoi
Più tosto al collo del tuo corpo il laccio,
Il cui grave martir passa e va via,
Che la corda a la gola del tuo nome,
2755
La passion del qual resta e non parte.
Ma ti è forza esseguir quel che ho concluso,
Poi che il giogo il Littor ch’io dissi reca.

ORAZIO
O sì, o no, ch’esseguirò il tuo detto.

POPOLO
Publio, il patir che a la sentenzia amica
2760
Calcitri il figliuol tuo, mi sforzarebbe
A usar la forza con quel rigor mero
Che, provocato da la ostinazione
De l’altrui insolenza, non conosce
Pietade né perdono. Si che aconcia,
2765
Littore, il giogo, e tu, Orazio, adempie
La volontade mia e il fallo appaga
D’una apparenza che l’effetto sembri.

ORAZIO
Chi sono io?

POPOLO
Ahi, barbaro superbo!
La sinistra in la barba e ne i capegli
2770
La destra!

LITTORE
Oimè!

POPOLO
Lascialo presto, uom reo.

PUBLIO
Oh, che cose son queste? Orazio, lascia,
Lascia il Littore e il Popolo contenta.

ORAZIO
Io questo faccio perché l’ira sua
Si accenda in vêr me sì ch’egli mi appenda
2775
Come omicida e non mi assolva quale
Uomo in cui la pietà vince il delitto.

POPOLO
Trascurata insolenzia e non fierezza
Le mani ti fa por de la vittoria
Ne i crin de la giustizia e ti sospinge
2780
L’animo a i suoi dispregi. Ora sta’ forte,
E vederem s’io che voglio, posso
Resistere a te sol: bene anderai
Dove sentenzio, e ciò presto vedrassi.
Tenete il giogo voi da l’un de i lati,
2785
Mentre da l’altro nel foro del muro
Fermo si attiene.

ORAZIO
Mirami nel volto,
E mirato che m’hai, giudica s’io
Ti paio da temer quel de la morte,
De la qual l’uom terribil è sepolcro.

SPURIO
2790
Deh taci, Orazio, che parlando uccidi
Quel che ti procreò e lo constringi
A la disperazion che lo conquide.
Vedi con che silenzio doloroso,
Con che cordoglio taciturno egli have
2795
L’animo dato a lo spavento in preda,
Che d’ansia e spasmo gli spirti gli ingombra.

ORAZIO
Certo far tu mi puoi, Popolo, forza,
Perché sei d’infiniti uomini stuolo,
Et io sol di me stesso inerme schiera.
2800
Ma né tu, né quanti altri mai saranno
Popoli in ciascun globo de la terra,
Potrien piegare al cor ch’io tengo un dito,
Né a l’animo ch’io ho svegliere un pelo.

POPOLO
Proviamo in tanto se il poter mio basta
2805
A sveglierti e piegarti la persona.
Ma saldi, o voi, statevi un poco in dietro,
Perch’io odo il mormorio d’una lingua
Che scioglier pur si vòl; teco fo tregua
Sin che s’intenda la cagion del grido
2810
Che su dal ciel ne i nostri orecchi scende.

PUBLIO
Forse che il ciò che ti è paruto udire,
Una pietade fia mossa da Giove.
A cui non piace al fin che la fortuna
S’imagini ogni spezie di quel male
2815
Che un misero miserrimo far puote.
Certo la pazienza, ch’emmi scudo
Contra i colpi di lei, meco stupisce
Come, dopo il morir di duo miei figli,
Saputo ella abbia ritrovar un caso
2820
Comportante in su gli occhi al padre Publio
Che Orazio uccida la sorella Celia.
E per nulla parerle la quistione
Mossami da la legge anzor armata
Di rigori severi, oimè, pur troppo,
2825
Tu sorte sei, tu, tu, sorte, inventrice
De la croce, u’ per ultimo mi ha posto,
Con aspro e incomperabile tormento,
L’ostinazion, figliuol, che ti condanna
A voler prima esser da reo punito
2830
Che la vita salvar chinando il capo
U’ forse il chinarai mal grado tuo:
Anzi pur mio, perché l’età senile
Pate ciò che non sente l’immatura.

POPOLO
La voce, ch’io mo dissi, si rinforza.

SPURIO
2835
L’odo ancor io, e in su quei tetti scorgo
Una certa ombra che parla in sé stessa:
Si scuote intanto ogni cosa d’intorno.
Ma udite la voce, udite, udite
La celeste favella altiera e pura
2840
Che dir vòl non so che.

POPOLO
Baleni e tuoni
Le interrompano il suon de i vivi accenti.
Già il tutto si acqueta.

PUBLIO
Ottimo Giove,
Giove massimo, a me propizio sia
Il portento apparito.

POPOLO
Ciascun taccia.

VOCE
2845
La volontà de gli Dei sommi forma
Il tenor de i miei detti, per cui dice
Il lor poterlo far che tu cancelli,
Popolo, l’ira nel cor tuo notata
Per man del non voler la pia sentenza
2850
Altri ubbidire; e tu, Orazio, china
La testa al giogo, che il chinarla in terra
Purga il peccato, conserva la legge,
Onora il Re, gratifica la Patria,
Consola i Padri, il Popolo sublima,
2855
Ricrea Publio e te stesso mantiene.
Peroché l’aurea tua linea patrizia,
l’alta geonologia di te paterna,
Raccolto ogni onor suo, dentro al tuo seme
Dee produrre di lui ne i dì futuri,
2860
Tra gli alti Orazii cavalieri e duci,
Un duce e cavalier che armato e solo
Terrà di Roma il più notabil ponte
Contra lo stuol di tutti i Toschi eroi.
Sì che adempisci col chinar del capo
2865
Tanta fortuna, del tuo sangue in gloria,
Né consentir che la tua nobil vita,
Nel lasciar questo sol, questo aere, cangi
In forza ciò ch’è debito in natura.
In tanto, chiaro Popolo, comanda
2870
Che Celia si rinchiuda in ampla e bella
Urna di pietre variate e quadre:
Et ivi resti ove insepolta stassi.
Poscia, dove morir l’un sopra l’altro
I duo fratelli, aciò vivesse, come
2875
Sempre vivrà, la patria lor, si drizzi
Un tempio degno di lucendi marmi.

PUBLIO
Misericordia divina tien cura
Di me, udito l’ho: certo è beato
Chi spera ne gli Dei sempre pietosi.

POPOLO
2880
In me fatto un cor nuovo ha quella voce:
Di duro et aspro, io son tenero e molle.

PUBLIO
Ora vedrassi, ora vedrassi, figlio,
Se Dio tu temi et ami me, col porre
E col non porre dove debbi il collo.

ORAZIO
2885
Io temo Giove et amo Publio e voglio
Il Popolo ubbidir. Veniamo a l’atto.

POPOLO
Ridrizza, o Littore, il giogo, e copre
La testa a Orazio.

LITTORE
I’ l’ho drizzato, e pongo
Il drappo u’ debbo.

ORAZIO
Ei non fia ver, Littore,
2890
Perché la voce non fede alcun motto
Del panno che tu spieghi per coprirmi,
Con ciò sia che Marte non è Dio
Da consentir che i famigliari suoi
Col fronte ascoso movino alcun gesto.
2895
Onde la voce col di lui consenso
Parlato aver non può, ma con l’altrui
Esser ben poterebbe, et io lo credo.

PUBLIO
Dio scampi ogniun da ciò che può patire
E da lo intervenirgli di quei casi
2900
Che avvenir non possono a veruno.
Questo dico per me, che soffro mali
Che ne i guai non son de la natura.

ORAZIO
Padre, non più, non più, padre, perch’io
Voglio acquetarvi; in tanto, o Dei amici,
2905
Fate che la memoria di tal atto
Non alligni ne i posteri, o che in questo
Secol si spenga un sì brutto ricordo.
E tu, animo mio, che me pur vedi
Per tua causa adirato con me stesso,
2910
Peroché di viltà parrammi ir pieno,
Ubbidito che avrò gli uomini e i Dei,
Perdonami l’offesa ch’io ti faccio
Facendo quel che nel farlo non manco
De la virtù che mostrar debbo sempre
2915
A l’alte tue generose eccellenze,
Come ognuna di lor puote giurarti.
Io non tocco, io non movo, io non iscemo
Le qualità che in te natura pose,
Acciò l’essercitasse con quelle armi
2920
Che in lor real costume e in valor proprio
Materia han data di parlarne al mondo.
Ora con tua licenzia, animo forte,
Ma lascio dal Littor velare il volto,
E con il voler tuo mi chino, entrando
2925
Sotto il giogo presente.

PUBLIO
Ora io resurgo
Dal centro al cielo. O Popolo, raccoglie
Nel cor tuo il mio figlio; e se ci è luogo
Ch’entrar ci possa anch’io, fa’ ch’anch’io vi entri,
Senza poterne mai con esso uscire.

POPOLO
2930
Io, per segno di ciò che a me dimandi,
Con l’autorità di quel che sono
Per publico consenso, onde non puossi
Non ch’altro crear Re senza il mio detto,
Tutto pien de l’amor del qual tu, Publio,
2935
E tu, Orazio, al fin mi avete acceso,
Me ne vado a far tòr l’armi e le spoglie
De gli estinti inimici, e sopra i pili
(Che anco essi de gli Orazii chiamaransi)
Che si lochino voglio, e che poi il tempio
2940
Si edifichi a i duo morti cavalieri.
Benché prima si dee serrar ne l’urna
La infelice pulzella. Orazio, or vanne
A terminar de le tue sorti il resto,
Che se ruggine alcuna in te rimane,
2945
Con la sacerdotal sacrata mano
Levaralla il bel purgo ove t’invii.

CORO DI VIRÙ IN LA CONCLUSIONE

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In somma i buoni e i rei
Han timor de gli Dei,
E la lor volontade
2950
Sopra ciascuno arbitrio ha libertade.
Onde il giovan, compresa
Del ciel la intenzione,
Il capo altier sotto il vil giogo pone,
Senza più far contesa.
2955
Ma perché si compiace
La divina clemenza
In quella sofferenza
Che ogni impeto di mal sopporta in pace,
Ecco Publio ch’è fuore
2960
Del carcere u’ il tenea chiuso il dolore.
Però l’uom che ci vive,
Oltre il temere Dio,
Impari a tollerar quanto di rio
Porgan le sorti schive
2965
A qualunche più merta
Grado et onore in questa vita incerta:
Che al fine i pazienti
Son felice e contenti.

IL FINE