Giambattista Giraldi Cinzio

Egle





Texto utilizado para esta edición digital:
Giraldi, Giovan Battista. Egle. A cura di Carla Molinari. In: Cremante, Renzo (ed.), Teatro del Cinquecento, vol. 1 Tragedia. Milano-Napoli: Riccardo Ricciardi Editore, 1988, pp. 881-967.
Adaptación digital para EMOTHE:
  • Semplice, Silvia

A DAMONE

Mentre in Arcadia Titiro se ’ngegna
Di dare a Pane i primi antichi onori,
Acciò che tra le ninfe e tra i pastori
La famiglia di Bacco apra l’insegna,
A te per la virtude che ’n te regna
Ricorre Pan da’ soletari orrori
E pregati ch’acciò che ogniun l’onori
Gli doni sede a le sue feste degna.
Dunque apri a’ prieghi suoi, Damon, gli orecchi
E volgi a lui da le tue greggie il core,
Sì che ’n pregiarlo ogniuno in te si specchi:
Che Pan vedrai per queste selve darti
Latte in gran copia et il maggior pastore
Farti ch’egli abbia in tutte l’altre parti.


AL MAGNIFICO M. BARTOLOMEO CAVALCANTI

Tre cose tra le altre, Magnifico Messer Bartolomeo, sono sovente principale cagione che i nuovi componimenti che da sé sono degni di loda appresso quelche tòrto giudicio ricevan biasimo. L’una delle quali è l’ignoranza altrui, l’altra il troppo persuadersi di sapere, la terza l’altrui invidia. Perché coloro che non sanno non stimano buono se non quello ch’è lor proprio, ciò è l’ignoranza. E quelli che si persuadono di sapere tutte le cose, veggendosi non essere iti con lo ’ngegno tanto oltre, quanto alle volte veggono andare altri, cercano col biasimare gli apportatori delle cose nuone serbarsi quella riputazione ch’essi s’hanno acquistato appresso tale che si ha creduto poter sapere, col mezzo loro, ogni lodevole cosa. E gli invidiosi, che sempre con dolente occhio mirano il bene altrui, quanto più vaghe veggono apparir le cose nuove e più atte ad accrescere pregio a’ loro auttori, tanto più cercano macchiarle col loro veleno, accioché meno vaghe e men leggiadre si scuoprano a gli occhi di chi le dee mirare. Per questo adunque, veggendo io a che rischio i’ mi poneva e quanto gran campo io dava a simili genti di lacerarmi, s’io dava fuori la Satira mia, cosa non pur nuova, ma (s’io non me ’nganno), né anche conosciuta da molti a’ tempi nostri, meco avea deliberato tenerla ascosa e nel seno godermi d’essere stato io il primo che dopo mill’anni e più avessi posto in questo campo il piede. Ma dopoi, sapendo ch’i dotti, che sono d’animo sincero, prendono piacere di quello che a quegli altri è di noia e bramano ch’ogni dì appaia cosa onde si destino i belli ingegni ad arricchire questa nostra volgar favella, ho voluto più tosto piacere a questi pochi tali (che dopo che la mi fero porre in scena, più e più volte chiesta la mi hanno), che per la moltitudine di quegli altri essere tenuto da questi poco cortese. Oltre che ’l persuadermi che questa mia nuova favola potrebbe essere duce a’ gentilo spiriti a farli giungere, in questa maniera di scrivere, là ov’io forse non sono arrivato, mi ha non poco invitato a darla fuori. Avendo adunque meco proposto di lasciarla uscire, a voi tra’ dotti giudiziosissimo e tra’ giudiziosi dottissimo ne faccio cortese dono, sicuro che se voi colla vostra dottrina e col vostro giudizio non potrete raffrenare l’altrui mal dire, potrete almeno colla ragione in mano, dalla quale a mio giudicio in questo componimento non mi sono scostato, far vedere a chi sarà capace del vero il poco sapere de gli ignoranti e la troppa persuadione e malvagità de gli altri; e che se questa Satira non ha in sé la real maestà della Tragedia, né la civile piacevolezza della Comedia, porta però tanto seco del proprio a lei, che non è nella sua spezie imperfetta appresso di chi sa di che membra vogliono essere composte questa e quelle. Coglietela adunque et insieme con lei il vostro Giraldi, non meno affezionato alla vostra molta vertù, che merti la benignità e la cortesia che sempre amorevolissimamente l’avete mostro.
Giovan Battista Giraldi Cinthio


EGLE SATIRA DI M. GIOVAN BATTISTA GIRALDI CINTHIO DA FERRAR

fu rappresentata in casa dello auttore l’anno m.d.xlv. una volta a’ xxiiii di febraio. et un’altra a’ iiii di marzo all’illustriss. signore il s. ercole ii. da esti. duca iiii. et all’illustriss. e reverendiss. cardinale ippolito ii. suo fratello. la rappresentò m. sebastiano clarignano da monte falco. fece la musica m. antonio dal cornetto. fu l’architetto et il pittore della scena m. girolamo carpi da ferrara. fece la spesa l’università delli scolari delle leggi


L’ARGUMENTO

I Dei silvestri innamorati delle ninfe de’ boschi, inteso ch’i Dei del cielo si son dati ad amarle, cercano di non le si lasciar tòrre. Perciò colla astuzia d’Egle le conducono in ballo co’ fanciulli loro, rimanendo essi nascosti. Mentre sono in ballo, si danno a volerle rapire. Le ninfe, scoperto lo ’nganno, se ne fuggono al bosco, er ivi sono mutate in varie forme, lasciati tutti dolenti i Dei silvestri.


LE PERSONE CHE PARLANO

SILVANO
SATIRO
FAUNO
SILENO
EGLE
CROMI
MNASILO
CORO , Il Coro è di Satiri.
OREADI
DRIADI
NAPEE
NAIADI
PANE
SIRINGA
AMADRIADI
[NINFE]
SATIRI PICCIOLI
[SATIRI]

La Scena è ’n Arcadia.

IL PROLOGO

ErrorMetrica
Spettatori, parravvi forse strano
Che ’n questo luoco, in cui veder solete
Città grandi e reali, ora veggiate
Sol boschi e selve. E certo avez ’l poeta,
5
Per non uscir del suo primo costume,
Seco pensato d’apportarvi cosa,
Che già a l’ordine avea, di real grado;
Ma cosa a lo ’mproviso sovraggiunta
Dal suo primo pensier l’ha distornato.
10
Ch’essendosi egli da la cara patria
Per molte miglia dilungato e molte
E andando per le selve de l’Arcadia
(Forse per ricrear la stanca mente,
Lontan dal vulgo e da la gente sciocca),
15
Avenne che trovò Pale e Pomona
Ch’avean tenzon d’una gran cosa insieme,
Ciò è de la natura. E dicea Pale
Che la natura venia meno, e meno
Venian le cose naturali in essa.
20
Ma Pomona, più saggia, le dicea
Che se ’ngannava e che non era vero
Che la madre natura ristringesse
Punto de la sua ampiezza, e che ’l mutarsi
Era più tosto al liberal, a l’ampio,
25
Ch’al misero, a lo stretto et a l’angusto.
E che fé ne farebble il Dio de gli orti,
Molto pratico in lei, chi gliel chiedesse.
Or, mentre avean tra lor simil sermoni,
S’avider che, gran pezza, dietro a un faggio
30
Il poeta s’avea preso piacere
Di veder la natura di nascosto
D’ambedue loro, al gareggiar sì pronta.
Dunque, poi che di lui si foro accorte,
Voller saper di che oppenione ei fosse;
35
E promiser di stare al suo giudizio,
Come già stetter ne la valle Idea
A la sentenzia del pastor Troiano
Le tre più belle Dee ch’avesse ’l cielo.
Et aprendo ambedue le sue ragioni
40
Inanzi a gli del poeta, Pale
Molte ne disse a suo favor, che lungo
Ora sarebbe a raccontarle tutte;
E tra le molte si fermò su questa:
Ch’al manzar de gli effetti si vedea
45
Che d’essi anco mancavan le cagioni
E che per ciò, mancata essendo al mondo
La stirpe de’ Silvan, Satiri e Fauni,
Dei vermigli nel viso, ispidi et irti
Et avezzi a cacciar pe’ densi boschi
50
De la natura, ella tenea per certo
Che mancata di lei fosse gran parte.
Alor Pomona, tra le sue ragioni,
Come per più possente addusse questa:
Che veggendosi ciò per chiara prova
55
Che quanto ella di sé più dava, tanto
Si faceva atta a più poterne dare,
Creder deveasi che fosse infinita
L’ampiezza natural ch’ella avea seco;
E ch’ella avea questa ragion per vera
60
Che, come se mancasse il caldo al fuoco
Più fuoco non saria, così, togliendo
L’ampiezza a la natura, mancherebbe
D’esser natura. Or, poi ch’ebbe il poeta
De l’una e l’altra le ragioni aperte,
65
Riverente a Pomona si rivolse
E le disse: Alma Dea, voi per natura
Possente a far de la natura fede,
Avete aperta al natural la via.
Però chi è quel, che savio sia, che pensi
70
Che la natura, per natura larga,
Si debba giamai dir manca né mozza?
E poi rivolto a la Dea Pale disse:
Non son (come voi dite) unqua venuti
Ne la natura men Satiri e Fauni,
75
Anzi ella ne produce ogni dì molti;
Ma avenuto è, per lor natural uso,
Che ’n una gran caverna, che prodotta
la natura gli avea, son stati in gioia
Il tempo che veduti non gli avete.
80
E quando gli voleste ne le parti
Vostre raccòr, ve n’av[e]reste molti,
Con gran piacer de la natura istessa.
Et in fede di questo, i’ n’ho veduti,
Venendo qui, gran copia. E questo detto,
85
Additò lor l’ampio e capace luoco
Ov’ascosi facean que’ Dei soggiorno,
Qualor con lor piacer volean celarsi.
Veduto adunque Pale che Pomona
La sentenzia avea avuta in suo favore,
90
Le cesse tutta vergognosa in viso.
Pomona alor, voltatasi al poeta,
Il rengraziò de la sentenza data,
Poi disse: Perch’io so che sono in questa
Sentenzia molti in che dianzi era Pale,
95
I’ voglio che ’n onor de la natura
Viva non lasci tal sentenzia al mondo
E facci fede a ogniun d’aver veduti,
Al venir qui in Arcadia, gli Egipani,
Dei de le selve, dopo tanti lustri.
100
E perchè ogniun creder tel possa, e possi
Farlo toccare, a chi vorrà, con mano,
Per tòr tal biasmo a la natura, ovunque
Uopo sarà la sua larghezza aprire,
Farò venir con le sue selve Arcadia,
105
Co i Dei e co le Dee che le fian dentro;
I quali (come già) di quelle istesse
Fiamme d’amor si troveranno accesi
Che per le vaghe e boscareccie ninfe
L’arsero il cor, et averan quel fine
110
Del loro ardente amor ch’ebbero allora:
Il che potrà mostrar che pur non manca
De l’ampiezza natia l’alma natura,
Ma che, dopo un voltar lungo de’ cieli,
Vengon da lei quelli medesmi effetti
115
Ch’ella aveva altra volta anco prodotti.
A la madre Pomona allor promise
Il poeta di farlo. Ella di pome
Copia l’offerse e gli soggiunse poi
Ch’egli di ciò maggior mercede avria,
120
Ch’avendo i Dei maggior tal cosa a grado,
Allargheriano anch’essi a lui la mano
E mai nol lascierian sentire inopia.
E dopo, avendo scorto che ’l poeta
Di ritornare al suo natio paese
125
Facea tra sé pensiero, in uno istante
Ha fatto qui venir tutta l’Arcadia.
Queste sono le selve e quei là i monti,
I fiumi e le città ch’ella in sé tiene
Occupati vi son da queste selve.
130
Trovando adunque ora il poeta nostro
Circondato da boschi quel paese
Ove vedeste già Susa e Damasco,
E sé condotto, fuor d’ogni pensiero,
Qui in un momento, con la grande Arcadia,
135
Lasciato quel proposto ch’egli avea
De lo rappresentar cose reali,
Le ha fifferite a miglior tempo, et ora
Deliberato ha di servire al luoco
E servare a Pomona la promessa.
140
Dunque, per farvi fede oggi per sempre
Che de la sua abbondanzia mai non scema
La liberal natura alcuna parte,
Ora i Satir venir vi farà inanzi,
Ch’accolti sono in un drappel nel bosco.
145
Ma costui che di qua viene palese
Farà de l’apparir lor la cagione;
Et i caprigni Dei, ch’uscir vedrete,
Vi faran manifesto di che sorte
Di favole sia questa. Or, spettatori,
150
Se vi sia sempre la natura amica,
Né buon natural manchi a chi n’have uopo,
State cheti et attenti; e se vi fia
Grato veder di novo questa gente
Di cui credeasi il seme esser già spento,
155
Fate che sì il poeta se n’aveggia
Che sia costretto anco altra volta darvi,
Per la benignità vostra, piacere.


ATTO PRIMO

SCENA I

SILVANO solo

[SILVANO]
ErrorMetrica
Quando lo stuolo uman ne l’innocenzia
Prima vivea e dava cibo a ogniuno
160
Le ghiande ne le selve e bever l’acque,
Foron le selve et i pastori in pregio,
E noi, al par de gli altri Dei, pregiati.
Forono poi da’ boschi e da le selve
(O per vertù de l’eloquenzia altrui,
165
O per opra d’alcun prudente, o vero
Che così pur volessero le stelle)
Gli uomini in un ne le cittadi accolti;
E col luoco mutar costumi e legge,
Et in vece de l’acque e de le ghiande,
170
Le quali il mondo che le fugge onora,
Diè lor Cerer le biade e Bacco il vino:
Bacco, al qual noi servimo, e che nodrito
Fu dal nostro Silen tener fanciullo.
E quantunque essi ne le altier cittadi
175
Avessero altra vita, altri costumi,
Nondimen, raccordevoli d’avere
Principio avuto da gli incolti boschi,
A noi Dei de le selve alzaro altari,
Tal che non pur ne’ luochi aspri e selvaggi,
180
Ma ne l’alte cittadi il nome nostro
Era avuto in onore e ’n riverenzia,
E ne’ solenni giuochi e ne le feste
Introdotti eravamo ancora noi,
Per dare essempio a ogniun di miglior vita.
185
E quantunque, dopo che trasformossi
Quel giovanetto, che sovra ogni cosa
Io amava e avea nel cor vivo scolpito,
In questa pianta che ’l suo nome serba,
Sempre i’ sia stato misero e ’nfelice,
190
Pur non m’era discar veder ch’a noi
Desse il debito onor la gente umana.
Avenne poi che ’nsieme con l’impero
(Così il ciel varia gli costumi e ’l mondo)
Appo’ Greci mancò l’util costume
195
D’introdur ne’ suoi giuochi i Dei silvestri;
E a lungo andar, da quel debol principio
Del Roman sangue, sì aspramente crebbe
La soperba ambizione appresso loro,
Che si scordar le selve e gli umil luochi,
200
E non feron di noi stima: et in vece
Di quelle feste, ove soleano noi
Ad essempio de’ popoli introdurre,
Volser lo stile a biasimare i vizii
E diero il nome a quel modo di dire
205
Ch’esser soleva già proprio a quell’altro
Ch’avea noi introdotti ne le scene.
E dopo, a poco a poco, sì s’estese
La soperbia de gli uomini, che noi
Sprezzaro ne le selve anco i pastori:
210
Tal che, ridotti ne’ più alpestri luochi,
Vissi siamo tra noi secoli e lustri,
E quanto di piacere avuto avemo,
Ne la solinga e boscareccia vita,
È stato di veder le vaghe ninfe
215
Errar pe’ boschi e cacciar cervi e dame.
Or, non veggendo noi altri che queste
Ninfe leggiadre et amorose, molti
De’ nostri ora di lor si son sì accesi
Che non han mai per lor tregua né pace.
220
M’accresce il suo dolor ch’i Dei celesti
Cercan di turbar lor fin ne le selve,
Dandosi anch’essi a amar le ninfe loro;
Onde temendo che non gli sia tolto
Del loro amore il frutto, hanno proposto
225
Non si voler lasciar tòr da le mani
Quel che par lor che di ragion sia suo,
E se l’amor non gioverà, a la forza
Vogliono al fin con tutto il cor coltarsi.
E ch’altro far si dee, quando un’ingrata
230
Prende piacer di consumare un core
E vuol che crudeltà sia il guiderdone
D’un vero amore e d’una fé sincera?
Ma perché veggio comparir coloro
Ch’ordine devon dare a questo effetto,
235
Vo’ dar lor luoco e ne la selva entrare,
Fin che mi parerà d’uscirne fuori.

SCENA II

SATIRO, FAUNO

SATIRO
Amor che mai non giunga a fine, amore
Dir non si dee, ma una continua pena.

FAUNO
È troppo il ver, ma se vi s’accompagna
240
Sospetto e gelosia, non è più pena,
Ma una continua, inevitabil morte.

SATIRO
Troppo tutti il proviam, dopo che Gione
E gli altri Dei del ciel venuti sono
A disturbar ne’ boschi e ne le selve
245
I nostri amori; già nissun di noi
Ad essi ha fatto ingiuria, che per odio
Debbano disturbar la pace nostra.

FAUNO
Sai, frate mio, quale ingiuria han da noi
I Dei del ciel?

SATIRO
Non io.

FAUNO
Lìngiuria è ch’essi
250
Veggono la beltà di queste ninfe
E noi di lor minori e sanno quanto
Bellezza che sia in man di pover sia
Atta a potersi aver da illustre amante.

SATIRO
Quanto dolore, ohimè, m’aggionge questo
255
Sospetto; e quanto più m’infiamma Amore,
Qualor io penso meco che tai sono
Le nostre ninfe, ch’i celesti Dei
Cosa da lor le tengono e dal cielo
Voglion discender, per goder di loro.
260
O di che ben sarem privati noi,
Se ne fossero tolte da le mani
Le ninfe nostre!

FAUNO
Il lamentarsi è vano,
Quando non ponno le querele aiuto
Porgere a chi si duole; e però prima
265
Che dal cielo discendano nel bosco
I Dei, buon fia che noi prendiamo il tempo
D’averle ne le man prima di loro.
Dunque, pria che sia Giove e gli altri Dei
Possessori di quel ch’a noi si deve,
270
Mentre l’abbiam qui ne le forze nostre
È da cercar che cel godiamo noi.

SATIRO
Ahi che più non vi veggio modo alcuno,
Come già di vender mi parea prima.
Che se ben sdegnosetta si mostrava
275
La Napea mia e ne lo aspetto irata,
I’vedea pur tra le turbate ciglia
Balenar di pietà talora un raggio.
Ma poi ch’avista s’è questa crudele
De l’amor di costor, via più soperba
280
Venuta è verso me ch’una vitella:
Mi mira con tòrt’occhio e mi s’asconde
Qualor la miro e sdegnosetta e schiva
Mi fugge et odia, ond’io m’affliggo e struggo.

FAUNO
Tal è verso di me la Naide mia,
285
Quale a punto è vèr te la tua Napea.
Ohimè, quando mi torna a mente ch’ella
Mi si mostrava un poco e con un riso
Mi rallegrava o con un finto sguardo,
E poi dietro ad un pino o ad una quercia
290
Ratta si nascondea, come colei
Che non volea mostrar d’avermi visto,
Et indi di nascosto m’assaliva
Gettandomi una mela di sua mano,
Et or la veggio fatta così acerba,
295
Me ne sento partir dal corpo l’alma;
E tutto avien perché ’n soperbia salse
Tosto che s’udì amar da’ Dei celesti.
Ma non farà giamai, con quanto sdegno
Ell’ha nel petto, ch’io non l’ami e pregi
300
E non cerchi d’averla a le mie voglie.

SATIRO
E che vogliam noi far, per goder qualche
Frutto de le fatiche du tanti anni?

FAUNO
Voglio che ’ntendiam ben prima s’è vero
Ch’i Dei celesti sian per farne ingiuria.

SATIRO
305
Che bisogna cercar, s’elle medesme
L’han detto ad Egle di Sileno nostro?

FAUNO
Costume è de le ninfe di mostrare
Esser da’ Dei maggiori amate, ancora
Che non sia ver, che così pensan pregio
310
Acquistarsi e devere esser più care
A’ loro amanti; e però buono fia
Che noi bene intendiam la cosa prima,
E se ver sarà ciò, troverem via
Ch’altri falce non ponga in quella messe
315
Ch’essere accolta dee per nostra mano.

SATIRO
E come ciò potrem saper?

FAUNO
Sileno
È (come sai) gran famigliar di Bacco,
Come colui che da fanciul nutrillo;
E Bacco tien nel ciel parte co’ Dei
320
(Mal grado di Giunon) per esser nato
Di Giove, e può saper tutte le cose
Che fanno gli altri Dei nel cielo. Adunque
Andrà Sileno e ’ntenderà da Bacco
Se deviamo temer de’ nostri amori;
325
E stiam sicur ch’avrem da lui il vero,
Ch’essendo noi ministri suoi e avendo
Egli da noi e sacrifizii e voti,
Non ci celerà cosa ch’egli sappia.

SATIRO
Ma dove avrem Sileno? Egli dormire
330
Dee pien di vino in qualche grotta o deve
Esser col Cromi suo, col suo Mnasilo
In giuoco e ’n festa, o con la sua dolce Egle.

FAUNO
Eccolo ch’egli vien co’ suoi compagni
A punto fuor del bosco.

SATIRO
Ei tutto è festa,
335
Ove noi miser siam doglia e tormento.
Andianli de nascosto ambidue incontro.

SCENA III

SILENO, EGLE, CROMI, MNASILO

SILENO
Bacco, se nel nodrirti ebbi già affanno,
ErrorMetrica
Tant’or piacere ho in core
Pel tuo dolce liquore,
Che mi par lieve ogni sofferto danno;
340
O Cromi caro, o mio soave amore
Dolcissim’ Egle, o car Mnasilo, onore
Di queste selve c’hanno
Ogni bene entro sé, qualora vanno
Col fiasco in man per lor Fauni silvaggi;
345
Or sotto a questi faggi
Datemi bere. Oh che soave odore
Escie di questo vaso!
Sento dolcezza de l’odor maggiore.
Oh perché non son tutto e bocca e naso,
350
Perché questo sapore
Meglio gustassi e me’ l’odor sentissi!
O Bacco, o Bacco, padre almo e fecondo,
Bacco, in crui sempre ho fissi
I pensieri e le voglie,
355
Da cui mi viene il ben che ’n me s’accoglie,
Chi non diria secondo
Giove a te, che tien te di lui minore,
Se per te fosse, com’io son, giocondo?
Or bevi sino al fondo,
360
Egle mia cara e dolce compagnia,
Bevi vitina mia,
Che non bevesti mai succo migliore.

EGLE
Beata quella vite ond’uscì fuore
Così suave umore!
365
Ma non vedi che more
Cromi e Mnasilo di disio di bere?
Da’ lor del vino ancora.

CROMI
Non son stato io a questa ora,
Egle, a gustarne? Or da’ a Mnasil, che ’l chere,
370
Il vaso, e mostra avere
Disio di voler darli uno gran crollo.

MNASILO
Or pommi il fiasco al collo,
Tanto ch’io sia satollo;
Deh chi mi può tenere
375
Ch’io non salti e non balli?
S’i fonti già co’ lor vivi cristalli,
Toltane ogni uman’arte,
Diedero bere a ogniun per ogni parte,
Mi godo, Cromi caro,
380
Ch’alor non mi crearo
I Dei e ch’ora lor produr me piacque,
Che si beve del vino in vece d’acque.

SILENO
Beato il padre e la madre onde nacque
Bacco, nostro alto duce,
385
Che noi lieti conduce
A ber l’alto liquor che mai non spiacque.
Ma se ’l bere non m’ha tolta la luce,
Parmi veder due de’ compagni nostri
Che vengon verso noi molto dolenti.
390
Andianli incontro, che gli darem bere
E’l duol gli addolcirem che ’l cor gli preme.

SCENA IIII

SATIRO, FAUNO, SILENO, EGLE

SATIRO
Dio ti salvi, Silen.

FAUNO
Salviti Dio
E ti conservi l’allegrezza tua.

SILENO
E voi faccia contenti il nostro Bacco
395
E vi levi del core ogni tristezza.

FAUNO
Ben bisogno n’abbiam, caro Sileno:
Che non appar mai per le selve il sole,
Né mai si cela, che ne vegga lieti.

SILENO
E che cosa à che sì v’affligga? Vuole
400
Allegri Bacco i suoi compagni, e voi
Viver volete i vostri dì in affanno?
Tenete questo fiasco pien di greco
E bevete una e due volte, e ’n un tratto
Vi uscirà ogni dolor fuori del petto.
405
Bevi, Satiro mio, bevi, car Fauno,
Che chi beve buon vin, senza ber Lete,
Se ne beve l’oblio d’ogni dolore.

SATIRO
Ohimè, ch’ogni soave succo pe tòsco
A uno affannato core! Altro ci vuole,
410
Sileno, a farci lieti.

SILENO
Se ’l vin lieti
Far non vi può, per voi non ho rimedio:
Io beverò per voi.

SATIRO
Anzi il rimedio
È solo in te de la gran doglia nostra.

SILENO
Che poss’io far per voi?

SATIRO
Darci la vita;
415
Né sol per noi, noi ti cheggiamo aiuto,
Ma per tutto lo stuol nostro: che tutti,
Se non ci aiuti tu, siamo a la morte.

SILENO
Fate ch’io sappia ’l mal: s’avrò rimedio
Atto a curarlo, i’ non ven sarò scarso.

SATIRO
420
Novo non credo che ti sia ch’ogniuno
Di noi arde d’amor di queste ninfe
Che vengono a cacciar per questi boschi.
Or Egle tua ci ha detto che da loro
Intese ieri ch’i Dei celesti d’esse
425
Ardon non men di noi e ch’elle ancora
In amor gli rispondono, di modo
Ch’ella tien ch’esse sian per fuggir noi
E darsi tutte a amare i Dei celesti.

SILENO
É vero, Egle mia, questo?

EGLE
Il dissero eri,
430
Mentr’io le confortava a amar costoro.

SILENO
Avete gran ragion di lamentarvi,
Se vero è quel che da costei or odo.

FAUNO
Silen, se ciò avenisse, ci dorrebbe
Esser mai nati al mondo; però aita
435
Porgine, prego, e se noi teco insieme
Fummo per farti aver la tua cara Egle,
Non n’esser ara tu di favor scarso.

SILENO
Chiedete, ch’io son tutto a’ piacer vostri.

SATIRO
Vorremmo che sapessi tu da Bacco
440
(Che sappiamo che nulla egli ti cela)
Se forse egli ’nteso ha che questi Dei
Siano per voler tòrci i nostri amori;
Poi saper cel facesti: che, s’è vero,
Non siam per tolerar scorno sì grande.

SILENO
445
Anzi il devete far: io immantinente
Me n’andrò a Bacco e per costei, tantosto
Che ’l tutto inteso avrò, ven darò aviso.

SATIRO
A Dio, Sileno.

SILENO
A Dio, compagni cari.
Ma io vi prego in tanto a raccordarvi
450
Che ’l vino è medicina a ogni gran cura
E che impossibil è che chi ben beve
Con ogni grave duol non faccia tregua.
Bevi, Cromi mio car, bevi, Mnasilo,
E tu bevi, Egle, e andiamo a trovar Bacco.
CORO
ErrorMetrica
455
O Bacco, oò, oò, figliuol di Giove
E de l’amata sua Semel tebana,
O Bromio, o Evio, o Dionisio Dio,
Dio di letizie nove,
Se forse tra le nove
460
Sorelle d’Elicona ora ti trovi,
O se pur tu rinovi
I sacrifizii tuoi co le baccanti,
O sei tra’ verdeggianti
Pampini de le viti a ornar le fronti,
465
Ne’ lidii o frigii monti,
A chi ti face onore,
O a trarne il dolce umore
Che trae de l’altrui alme ogni dolore,
Risguarda noi, Signore.
470
E come in ogni luoco
Che ’l tuo nome s’onori
Sen van le doglie fuori
Con tostissimo passo,
Così or, Signor, fa casso
475
Il nostro fier timore
Et al cocente ardor del grave fuoco
Da’ refrigerio e ’n giuoco
Volgi ogni nostra pena:
Sì che dov’ora è piena
480
L’alma nostra di doglia e di sospetto
Si faccia tutta gioia,
E ’l timor se ne moia,
E senta il tuo valore il nostro petto.
O Bacco, o Bacco, o Dionisio santo,
485
O Dio d’ogni diletto,
Volgiti a noi alquanto
E ascolta i nostri preghi:
Fa’ che ’l dur cor si pieghi
Di queste Dee, che ne minaccian pianto.
490
O Bacco onnipotente,
Difendi la tua gente
Da gli oltraggi del cielo e fa’ che neghi
Ogni ninfa di queste sé a que’ Dei
Che sconsolati e rei
495
Voglion fare i dì nostri.
Temp’è, Signor, che mostri
Se mai sempre ti piacque
Il nostro non bere acque.


ATTO SECONDO

SCENA I

EGLE sola

[EGLE]
ErrorMetrica
Più volte e più m’ha detto il mio Sileno,
500
Narrandomi i principii de le cose,
Che ’l piacere introdutto fu nel mondo
Perché ’l mondo per lui si conservasse,
E che non solo queste mortai cose
Vivono pel piacer, ma i Dei medesmi,
505
E che, tolto il piacer fuori del cielo,
Si leveranno col piacere i Dei.
Anzi più detto m’ha: che così intenti
Sono al diletto i Dei, che ’n ozio eterno
Si giaccion senza aver cura di nulla
510
Perché, s’avesser cura de le cose,
Si turberebbe ogni riposo loro
E di non esser Dei verriano a rischio.
Perch’ei non pensa ch’altro sia il piacere
Ch’una requie lontana da ogni cura
515
Ch’abbia sempre il gioir fido compagno;
E tante volte e tante espressamente
Toccare ei lo mi ha fatto con le mani,
Che quanto i’ miro più, più chiaro i’ veggio
Ch’al mondo non è ben senza diletto,
520
E che solo il piacere è che condisce
Di dolcezza ogni amar di questa vita;
Tal che la vita istessa che viviamo
Saria una morte espressa, se privata
Fosse di quel piacer che la conserva;
525
Ond’io conchiudo che di ciò che vive
Il diletto sia fine e tra i diletti
Quel di Venere e Bacco il maggior sia.
E a chi nol crede i’ ne fo certa fede:
Che mentre in compagnia fui di Diana,
530
Fu sempre il viver mio senza una gioia.
E che gioia tra donne aver poteva
Giamai giovane donna? Il cacciar belve,
Il lavarsi ne’ fonti, il bever l’acque
Non empiono i diletti de le donne,
535
Ma sol Venere gli empie e gli empie Bacco,
Questi facendo noi vivaci e deste,
Quella compiendo ogni imperfetto nostro;
E però l’un e l’altro i maggior Dei
Sono del mondo, appo chi scorge il vero,
540
E chi a lor serve, veramente serve
Al diletto immortale. Il che sapendo
Questi Dei de le selve, tosto ch’essi
Avranno l’imbasciata che Sileno
Per me gli manda, col piacer di Bacco
545
Giungeran quel di Venere, cercando
Per ogni via goder di quello amore
Che gli può far sentir compiuta gioia.
Ma veggo fuor del bosco uscir coloro
Ch’attendono risposta da Sileno.

SCENA II

FAUNO, SATIRO, EGLE

FAUNO
550
Pur che la nuova sia buona, il tardare
Non mi dorrà.

SATIRO
Sia pure o buona o rea,
Me ne cal poco; i’ seguirò il consiglio
De gli altri miei compagni in queste selve;
E a dirti il vero, i’ non avrei usato
555
Tanti rispetti, com’usar tu vuoi:
Ove pericol è che ti sia tolta
Cosa che ti sia cara, biasimato
Non sarai unqua a porlati in sicuro.

FAUNO
La tropp’ audatia torna spesso in danno.

SATIRO
560
Et il troppo temer fa perder spesso
Quel ch’aver si potrebbe: i’ voglio audace
Perder, più tosto che timido avere.

FAUNO
Io mi ricordo ancor quel che m’avenne
Quand’Ercol mi gittò fuori del letto:
565
Io mi sento dolere anco le spalle,
Per la grave percossa ch’alor diedi.

SATIRO
Già non si convenira altra mercede
A la tua gran follia: non fu l’ardire,
Ma ’l tuo poco veder che ti fe’ danno.
570
La preda avevi ne le man sicura
E ti condusse l’ignoranza tua
(Lasciata la fanciulla delicata)
Intorno ad Ercole ispido e feroce;
Tu vendrai ben che, s’io entro in questa caccia,
575
Io non piglierò l’orso per la lepre.

EGLE
Che parole son queste? Aman la pace
Le selve e non le liti.

FAUNO
Non è guerra,
Egle, tra noi, sol aspettiam sapere
Ch’abbia inteso Silen nostro da Bacco.

EGLE
580
Non vi è nulla di buono.

FAUNO
Tu m’hai morto.

SATIRO
Et a me animo hai dato a la mia impresa.
Narraci che ci manda a dir Sileno.

EGLE
Vi fa saper ch’i Dei celesti sono,
Non men che voi, di queste ninfe accesi;
585
E che tosto che ’l sol tolga la luce
A le cose mortai, voglion dal cielo
Venirsi ne le selve a goder d’esse.

FAUNO
Ohimè!

SATIRO
Io non vo’ già per ciò dolermi:
Prima di lor i’ me n’andrò a la caccia.

EGLE
590
E ch’essi, per non esser conosciuti,
Sotto mentita forma a lor verranno.

SATIRO
Et io v’andrò ne la medesma mia,
Prima che ’l sol s’asconda: statti, Fauno,
Tu su’ rispetti tuoi.

FAUNO
Satir, sei sciocco;
595
Io ti dico che ’l senno e ’l buon consiglio
Spesso vale anco ne le selve molto,
E se vogliàn che questo ci soccieda,
In condurlo bisogna usar molt’arte,
Altrimente ogni cosa andrà in sinistro.

EGLE
600
Fauno non dice mal! Satir, sta’ cheto
E ascolta un po’ quel che vo’ dirti anch’io.
Bisogna che con senno e con prudenzia
Voi conduciate queste ninfe a l’amo:
Che se palese forza lor vorrete
605
Fare, n’andrà tutta la cosa in nulla.

SATIRO
E perché? non siam noi per far lor forza?
Tu t’inganni, Egle.

EGLE
Io non m’inganno, ascolta.
O che volete ritrovarle in caccia,
O ver sotto quelch’ombra, o dentro a un fonte
610
(Ch’altrimente non sono unqua nel bosco).
Se ’n caccia, avran con loro i fieri cani
Et avran tutte in man dardi e saette
E potran de l’ingiuria apparecchiata
Tutte far contra voi aspra vendetta;
615
Se ’n qualche fonte forse o vero a l’ombra
Vi pensate di còrle, avran Diana
(Com’è costume loro) in compagnia:
E s’ella vi si trova, miser voi!
Sapete ben quel ch’a Atteone avenne
620
E quanto sia di voi ella maggiore.
Potreste dir d’accòrle al ritornare
Ch’elle faran dal bosco a le lor stanze,
Ma sareste anco nel medesmo caso,
Perch’elle fian (come nel bosco) in schiera,
625
Armate anco di dardi e di saette
E non men seco avran, che prima, i cani.
Però in essempio sianvi i Dei del cielo,
I quai conducon con inganni a fine
I lor disiri e con inganno ancora
630
Pensan di queste ninfe oggi godere.

SATIRO
Che deviam dunque dar?

FAUNO
Prudentemente
Condur la cosa.

SATIRO
E come?

FAUNO
I’ voglio ch’Egle
(Egle via più d’ogni altra ninfa accorta)
635
Parli con lor (che so che volentieri
Ella s’adoprerà con queste ninfe)
E le disponga a non ci dar più affanno.

EGLE
Il farò volentier, perch’io vorrei
Vederle nel piacer nel quel son io,
640
Acciò che et elle e voi foste contenti.

FAUNO
Che non si vuol venir mai a la forza,
Fin che non s’è tentata ogni altra via;
E sciocchezza è voler tòr con violenzia
Cosa che per amor si possa avere.
645
E s’Egle le potrà disporre, avremo
Quel che cerchiamo, e se pur non potesse,
Vo’ che con esso lei ella le ’nviti
Ad una festa che ’ntendiam di fare.

SATIRO
Tu non ce le corrai.

FAUNO
Anzi verranle,
650
Che vo’ ch’ella lor dica che noi tutti,
Insino a un’ora o due, siam per partirci
Di quete selve e gir fin in Ispagna.

SATIRO
So che finger tu vuoi di gir da lunge.

FAUNO
Ben bisogna mostrar che gran paesi
655
E varii mari e varii fiumi e monti
Vogliam cercar, perché conoscan chiaro
Cha facil non ne fia il tornare a loro.

SATIRO
Or segui.

FAUNO
Io voglio poi ch’ella le dica
Ch’i nostri Satirini e i picciol Fauni
660
Oggi, partiti noi, verso la sera
Vogliono far tra lor festa solenne,
E le pregano tutte che con loro
Voglian trovarsi: son bramose anch’esse
D’aver solazzo onesto e, non temendo
665
Di noi, verranzi. Noi, poi che fia tempo
E deposti elle avran dardi e saette,
Usciremo del bosco e farem quello
A lor ch’i Roman fero a le Sabine.

EGLE
Fauno, molto mi piace il tuo consiglio;
670
Io, tosto che le veggia, con bel modo
Tenterò di disporle al vostro amore,
E quando ciò non mi soccieda, ogni arte
Userò poi perché quest’altro segua.

SATIRO
Egle, te ne preghiamo; così mai
675
Non ti manchi dar ber vino soave,
E ’l tuo Silen sovra ogni cosa t’ami!

EGLE
Io non mancherò in cosa ch’io presuma
Ch’a espedir questo fatto esser possa atta,
Ma voglio, perché più agevol mi sia
680
Quel che ’ntendo di far, che voi chiamiate
Alcun de’ maggior vostri da la selva
E con mesta canzon tutti a una voce
Cantiate il vostro amor, le vostre doglie,
E vi dogliate de la sorte rea
685
Che voi per crudeltà di queste ninfe,
Ch’amte molto più che gli occhi vostri,
Per non essere a lor sempre di noia,
Sete costretti a abbandonar le selve
E le parti d’Arcadia a voi natie.
690
Elle quindi non son lontane molto
(Ch’io le vidi, al venir qui, tutte insieme
Porsi in assetto, per andare a caccia)
E so che v’udiranno e forse, tosto
Che mi vedran, mi parleran del canto;
695
Et io mi piglierò da questo il tempo
Di poter ragionar de la partenza;
E s’esse pur non ne parlasser, io
Tempo mi prenderò di ragionarne,
E così appresso loro avrò più fede,
700
E più agevol mi fia finire il tutto.

SATIRO
Or vanne, Egle mia dolce, e faccia Bacco
Che riesca a buon fin questo disegno.
Noi nel bosco entrerem, per chiamar fuori
Gli altri compagni e dar principio al canto.

SCENA III

EGLE sola

[EGLE]
705
Aviene di costor quello ch’aviene
Del mio Silen, quando a le volte beve
Tanto che se gli offusca il san discorso:
Che mentre che narrar mi vuol le cose
Soblimi, che narrar spesso mi suole
710
Quando chiaro ha de la ragione il lume,
Il vin bevuto oltra misura in modo
Il trae di sé, che cosa gli fa dire
Che parte ha in sé ragion, parte n’è senza.
Così costor, naturalmente rozzi,
715
Poi c’han sentito l’amoroso ardore,
Si son svegliati in parte e parte sono
Rimasi ne la lor prima grossezza;
E per ciò nel consiglio lor si vede
Qualche cosa di buon con molto reo.
720
Pensato han ben, per ingannar le ninfe,
Condurle al ballo, che ciò è la via vera
Di trovar modo a gli amorosi effetti.
Ma il modo di condurgliele è sì sciocco,
Che s’avedrebbe de lo ’nganno un bue:
725
Però bisognerà ch’altra via i’ tenti,
Se vorrò che riesca questo inganno.

SCENA IIII

SATIRO, CORO, FAUNO

SATIRO
Che state a far? Venite fuori omai.

CORO
Tu ci hai tutti adunati e non ci hai detto
Per che cagion tu n’hai condotti insieme.
730
Che ci hai da dire?

SATIRO
Una bramata cosa.

CORO
Non bramiasmo altra cosa che potere
Godersi de le ninfe che no’ amiamo.

SATIRO
E d’altro non vi ho da ragionare
E dimostrarvi il modo onde potremo
735
Tutti a un tratto dar fine a i nostri affanni.

CORO
Ah ah, ah ah, o Bacco, o Bacco, ah ah,
O Bacco, oè, o Bacco, oè, oè,
Se ciò ver è, quai fian di noi più lieti?

SATIRO
Siam risoluti ch’i celesti Dei
740
La ci vogliono fare ad ogni modo;
E pel consiglio del canuto Fauno
Determinato abbiam di farla a loro.

CORO
E così far si deve. O Bacco, oè,
Fa’ che la cosa ne soccieda e noi,
745
Cinti d’edera verde e [di] corimbi,
Ti farèn sacrifizio oggi d’un capro,
Versando lui ne le rugose corna,
Per l’oltraggio che già fece a la vite,
Un napopien di delicato vino.
750
Ma narra il modo che tenir debbiamo.

FAUNO
Il modo intenderete più a bell’agio;
Or fa mestieri che cantiamo insieme
Canzone che contenga i dolor nostri
E l’amor che portiamo a queste ninfe,
755
Fingendo voler quindi ire in Ispagna
(Viaggio duro e di fatica molta)
Per fuggir la cagion del nostro male
E non dar noia a lor ch’amiamo tanto.

SATIRO
Comincia tu, che seguiremo tutti.

FAUNO
760
Poniànci insieme a l’ombra di quel faggio
E diam principio al lagrimevol canto.
CORO
ErrorMetrica
Non arse mai tanto stoppia per fiamma,
Ch’abbia bifolco in lei talor accesa,
Quant’ora a dramma a dramma
765
Noi arde quella accesa
Face d’amor per quelle belle Dee,
Che ne sono sì ree
Che fuggon noi, qual fugge il cane damma.
Deveva pur lo smisurato amore
770
E la nostra sincera e pura fede,
Per la qual chiaro il core
E ’l nostro amor si vede,
Scacciar così da lor la crudeltade,
Che, vinte da pietade,
775
Porgesser refrigerio al nostro ardore.
Non è già in questi boschi o ramo o foglia,
Né fiera sì selvaggia o sì soperba,
Né ’n questo pian germoglia
Alcuna sorte d’erba,
780
Né questi arbori fiede sì fier vento,
Che del nostro tormento
Pietà non abbia e de la nostra doglia.
E queste nostre Dee, che ne l’aspetto
Si mostran tutte amore e cortesia,
785
Si prendono a diletto
La nostra pena ria;
E quant’è acerba più, quant’è più dura
La nostra aspra ventura,
Tanto di crudeltà s’arman più il petto.
790
Però, poi ch’esse son più d’ogni fiera
Crude e sdegnano a tòrto il servir nostro,
Né amor, né fede intiera
L’ha insino ad ora mostro
Qual mercede si deve a servi fidi,
795
Andremo ad altri lidi,
Prima ch’ogniun di noi, amando, pèra.
Non odran più in Arcadia i nostri accenti
Tristi e ’nfelici Menalo e Liceo,
Né i chiar rivi e lucenti
800
Pel nostro pianto reo
Saran turbati più per queste selve,
Né le selvaggie belve
Qui piangeranno i nostri aspri tormenti.
Ma odrà l’Istro in Ispagna, odrà l’Ibero
805
(Che vogliam verso là volger i passi,
Benché ’l camin sia austero)
Quanto siamo noi lassi;
E speriàn ch’ivi ogni solingo luoco
(Udito il nostro fuoco)
810
Mostrerà segno di pietate vero.
Ma voi, quercie, pin, faggi che qui sete
E de le nostre ninfe il nome in voi
Da noi scolpito avete,
Dopo che quindi noi
815
Sarem partiti, almen mostrate aperto
Che si devea altro merto
A l’amor, di cui voi testimon sete.
Perchè, s’avien ch’alcuna mai vi miri,
De la sua crudeltà seco sospiri.


ATTO TERZO

SCENA I

OREADI, DRIADI, NAPEE, EGLE, NAIADI

OREADI
ErrorMetrica
820
Già, apparecchiata s’è di gire al bosco
Diana per cacciar con l’altre ninfe:
Andiamo ancora noi a ritrovarla.

DRIADI
Andiàn.

NAPEE
Andiamo a l’onoranda nostra
Dea figlia di Latona e del gran Giove,
825
Onor de le campagne e chiaro pregio
Di vera castitade e lume chiaro
Del ciel, quando il sol toglie a noi la luce.

DRIADI
Andiamo a la triforme nostre Dea,
Non men chiara nel ciel, ch’ella sia in terra
830
O nel regno di Dite.

OREADI
Onora Pale
Ogni pastore, e Cerere i bifolchi,
E chi vendemia Bacco, e Pluto quelli
Che cercan le ricchezze; e noi che solo
Apprezziàn castità quanto la vita
835
Devemo amar con tutto ’l con Diana.

DRIADI
E come face sacrifizio a Marte
Chi segue la battaglia, et a Nettunno
Chiunque il tempestoso Oceano varca,
Così a Diana noi devèn dar voti.

NAPEE
840
Dunque, Dea de le selve e Dea de’ boschi,
In segno de la pura onestà nostra,
Ti spargiàn questi fiori a l’aure estive,
Testè da noi con vergini man colti
Ne’ più fioriti e ruggiadosi prati,
845
Ove mai non condusse pastor greggia,
Ove non entrò mai villan con falce.
Accoglili, o Dea santa, e le tue chiome
Crespe e lucenti cingi con tua mano
Di questa che t’offriàn grata corona;
850
E serva in noi di pudicizia il fiore
Che dicato t’abbiàn fin da’ primi anni.
Ma chi è costei che par che di noi rida?
È l’Egle di Sileno: oh come ha rossa
La faccia, oh come spira tutta fuoco!
855
So che si vede ch’ella serve a Bacco.

EGLE
Gelata non son già, come voi sete,
Né pallida mi face il ber de l’acque,
Come fa voi; uscita pure i’ sono
Una volta de’ fonti; semplicette,
860
Se sapeste che cosa è ’l bever vino,
I fiumi e i fonti vi verriano a noia
E non mi beffereste come fate,
Ma vedreste che ’l vin la prima parte
È de la vita umana e senza lui
865
Nulla di lieto al mondo esser mai puote.

NAIADI
Ubriaca che sei, credi di darci
A veder che l’error in che tu sei
Incorsa sia virtute? È un velen dolce
Il vino e fa, come serpente ascoso,
870
Che quando il pensi men ti dà di morso;
Et a la pudicizia è sì contrario,
Ch’esser casto non può chi sen dà a bere.
Però ben fero i buon Romani antichi,
Che non vollero mai che le lor donne
875
Usasser di ber vino: ohimè, non nacque
Questo letal umor de l’empio sangue
Di que’ Giganti ch’avean mosso guerra
Al ciel per cacciar Giove? I’ ti vo’ dire
Quel ch’udi’ già del vin dire a Diana,
880
Mentre di ciò parole avea con Bacco.
Ella dicea che ’l vino è proprio il padre
Di tutti i vizii e la radice certa
D’ogni gran mal, l’origin de’ peccati,
La destruzion de l’onestà palese,
885
La tristezza del corpo e la ruina
De’ sensi e de la mente e la vergogna
E certissima infamia de la vita.
Or pensa se venir ci può disio,
Qualora abbiàn tal cose inanzi a gli occhi,
890
Di darci a ber sì abominevol succo.

EGLE
Io ti dico, in contrario di quel c’hai
Contra me detto, che non è dolcezza
Perfetta in terra, né piacer perfetto,
Tolto che ’l vino sia fuori del mondo.
895
Egli dà forza al corpo e fa la mente
Vigile e desta e con lei desta i sensi;
Prudenzia aggiunge a’ savi e dà valore
A’ coraggiosi et è vero maestro
D’ogni vertù, d’ogni scienzia buona,
900
Serva la gioventù, leva gli affanni,
Accresce la bellezza e, per dir breve,
È la felicitade de’ mortali
E l’ambrosia et il nettare de’ Dei.
E s’i Romani già a le donne loro
905
Il vietar, come narri, fu perch’essi
Sapean che forza e che valore accresca
Il bever vino e però temean molto
Ch’essi, ch’avean di tutto il mondo impero,
Da le lor donne non restasser vinti,
910
Con lor disnor, ne gli amorosi assalti.
Se ne le mani a me mai da’ un buon greco
Od un corso od un gorro o una vernaccia,
E ch’io ne beva a voglia mia, mi sento
Così desta al piacer, desta a la gioia,
915
Ch’alora opra farei per dieci donne.
A quello che tu di’ che ’l vino atterra
L’altrui verginità, i’ ti rispondo
Che non si dee verginità apprezzare.

NAIADI
Or va’, malvagia, va’.

OREADI
Vanne, impudica,
920
Va’, nemica d’onore; ohimè, che voce
Di questa bocca scelerata è uscità!
Va’, va’ al tuo Bacco, e noi lascia a Diana.

EGLE
O poverelle che voi sete, sciocche
Vi rimarrete et io sarò la saggia!
925
E credetelo a me, che già ho provato
Che differenzia sia tra l’uno e l’altro
Modo di vita.

NAPEE
La lascivia tua
Ti fa parer vertù quello ch’è vizio,
Ma a noi, di pura mente e di pur core,
930
Pare altrimenti, er assai meglio parci,
E tutte abbiàn disposto di servare
La verginità nostra insino al fine,
E certe siam ch’ogni tesoro avanza
Questa verginità che custodimo.

EGLE
935
Et io vi dico ch’è di nissun pregio
Questa verginità che sí lodate
E, s’ogniun la servasse, andrebble il mondo
In nulla tutto: provoder bisogna
A l’immortalitade umana, né altro
940
Rimedio v’è che non conservar questa
Sciocca verginità che sì vi è a grado.
E qualor noi ci congiungerno a’ maschi,
Cerchiàn per soccession farci immortali
E al mono mantenir la spezie umana;
945
E se del parer vostro fusser state
Le madri nostre, ove saremo noi?
Il mondo, in quanto a sé, tutto distrugge
Chi di servar verginità si pensa,
E micidiale è una vergine donna
950
Di tutti quei ch’ella produr potrebbe:
Onde ne deve esser dannata a morte,
Com’uccisi ella avesse color tutti
Ch’avria pottuti generare in terra.

OREADI
Sono proprio da te queste parole,
955
Che chi avezzo è di star sempre nel fango
Fugge la purità de l’acqua chiara;
Però sta’ tu col tuo parer con Bacco,
Noi con Diana rimarèn col nostro.

EGLE
E che credete voi che se ne stia
960
Diana così casta, che non voglia
Il diletto provar di questa vita?
Sempleci, non vedete quante e quante
Mutazion vi face ne le mani?
E quante volte ella da voi si toglie?
965
Perchè credete voi che la veggiate
Ora nel cielo et ora ne lo ’nferno,
Ora tra voi per questi boschi et ora
Vi si nasconda tutta? Endimione
La si tien ne le braccia e con lei giace,
970
Si trastulla con lei, e voi vi state,
Senza piacere alcun, sempre digiune.

NAPEE
Noi già digiune di piacer non siamo,
Anzi ’l maggior piacer proviàn del mondo,
Servando il fior de l’onestade intatto;
975
Né creder ti vogliàn ciò che n’hai detto
De la nostra Diana.

EGLE
Di Diana
Credete voi ciò che vi piace: detto
Non vi ho cosa di lei che non sia vera;
Ma che serbar vogliate infatto il fiore
980
Che pose in voi per far frutto natura,
Dico che commettete un error grave.
Non so se m’intendete.

DRIADI
Or va’ tra’ Fauni,
A la tua vita compagnia conforme,
E lascia andar noi a Diana al bosco.

EGLE
985
Ben fora il meglio che veniste a’ Fauni,
A’ Satiri, a’ Silvan, poi che di loro
Parlato avete, e abbandonar Diana,
Com’ho fatt’io, e prender vi sapeste
L’occasione che vi s’offre innanzi.
990
Essi Dei son qual voi, qual voi prodotti
Da la natura ad abitar le selve,
E v’amano via più che gli occhi loro,
E potrian trar dal vostro fiore il frutto,
Del qual voi sete debitrici al mondo.

DRIADI
995
Che noi amiam quelle vestiaccie sozze,
De’ quai cosa non ha il mondo più brutta?

EGLE
In lor parte non è da capo a piedi
Che non sen possa aver dal ciel l’essempio.
Hanno le corna, e le corna have Bacco,
1000
E nondimen non lo sprezzò Ariadna;
Focosa hanno la faccia, e la faccia have
Febo di fuoco, e pur Climene l’ama;
E se sono terribili nel viso,
Terribile è Nettunno, e nondimeno
1005
Tetide l’ama più che sé medesma;
S’han rigida la barba, l’have tale
Ercole, e mai Deianira sua
Non si sdegnò darli amorosi basci;
S’hanno il corpo irto, et irto ha ’l corpo Marte,
1010
Né Ilia il fuggì giamai perché foss’irto;
Se vi spiaccion perc’hanno i piè caprigni,
E chi è più sozzo d’uno tòrto e zoppo
E tutto nero e affumicato? E ’n cielo
Venere ama Vulcan, quantunque tale,
1015
Et ella la Dea sia d’ogni bellezza.
Però gran torto avete a non far stima
Di questi Dei che voi chiamate sozzi.

NAIADI
Poi che tu vuoi da’ Dei l’essempio tòrre,
Di quanto hanno di sozzo in sé costoro,
1020
Se volessimo amar, non fora il meglio
Lasciar costoro e amare i Dei del cielo,
Che si mostran di noi così bramosi?

EGLE
Udito ho sempre dir che quello amore
Che tra dissimil nasce è amore infido;
1025
E che disuguaglianza sia tra voi
E i Dei del ciel, l’ha la natura mostro,
Avendovi un da l’altro con distanzia
Tanta disgiunti. Appresso, se vorrete
Discorrere e vender che fine avuto
1030
Abbin le donne di che goduto hanno
I Dei del ciel, veder potrete chiaro
Che non è il lor amor se non di danno.
Io vi sia essempio e Semele e Calisto
E la misera Clizia e la dolente
1035
Madre di Febo e di Diana vostra,
La qual, prima che lor portasse a Delo,
Tante fatiche e tant’aspre sostenne,
Che vi puon distornar d’amar costoro.
Ma se vi date a amare i Dei silvestri,
1040
Che Dei sono qual voi, qual voi prodotti
Da la natura ad abitar le selve,
Et hanno voi per le più dolci cose
Che potesser gustar tra questi boschi,
Potrete ben sperar, non temer male.

OREADI
1045
Or non ci dar più noia: esser può prima
Ogni impossibil cosa, che nissuna
Di noi por possa amore a questi mostri.

EGLE
I’ vi so dir che non andrete molto
Che noia più non vi daran pe’ boschi;
1050
Né questo detto v’ho, perch’ essi imposto
M’avesser ch’io lo vi dovessi dire,
Ma sol perch’amo voi, perch’amo loro,
E per farvi vedere il vostro bene.
Essi, per non noiarvi e per fuggire
1055
La cagione ch’a morte li conduce,
Hanno deliberato irvi lontani,
E prima che si fossero partiti
Volentieri v’avrian chiesto commiato,
S’avuto non avessero temenza
1060
Di non destare in voi sdegno maggiore;
E se trovato avessi in voi pietade,
Come trovare a gran ragion devea,
Cercato avrei di rivocarli indietro,
Per non veder restar senza i suoi Dei
1065
Le selve già felici de l’Arcadia.

DRIADI
Vadano pur, che non cal di loro,
Come se non gli avessimo unqua visti.

EGLE
I miseri n’andranno e sono in via
E vi van sì lontani che più mai
1070
Bisogno non vi fia d’averne tema;
Ma prima che si sian di qui partiti,
Han fatto fede al ciel de le lor pene
E testimon lasciati han questi faggi
Del lor amor, de la durezza vostra.

NAPEE
1075
Ben sentiti gli abbiamo e n’è piaciuto
Che seccaggine tal da noi si levi.
Ma sento abbaiar cani e sonar corni:
Però tempo è che ce n’andiamo al bosco.

EGLE
Ahi crude più d’ogni selvaggia fiera,
1080
Più d’ogni selce dure e d’ogni scoglio
Pieghevol meno! Ancor potrebbe il cielo
(Qual de l’asprezza già di Anassarete)
Vendetta far di crudeltà sì strana.
Rimasi sono i lor picciol fanciulli
1085
Senza governo alcun per queste selve
(Cosa ch’a pietà indur devrebbe i sassi):
Che voluto non gli han condur con loro
I dolorosi e miseri lor padri,
Per l’asprezza del lungo aspro viaggio
1090
(Che quindi se ne van fino in Ispagna)
E perché, poscia che voi lor sdegnate,
Essi sdegnano ciò che non è voi.

NAIADI
A questi Satirini e picciol Fauni
Non mancherem d’esser cortesi sempre,
1095
E ’n tutto quel che chiederan da noi
Saranno pienamente compiaciuti,
Perché noi gli còrrem per propri figli;
E quindi tu potrai veder che noi
(Levantone il sospetto de l’onore)
1100
Non siam (come detto hai) crude e spietate,
Ma di gran cortesia, di pietà piene.

EGLE
Fate cosa lodevole e ’n lor vece
Di tal bontade i’ vi ringrazio molto;
e so che scemeran la doglia loro,
1105
Quando gli narrerò nuova sì buona.

NAPEE
Or con Dio rimanti, Egle.

EGLE
Andate in pace.

OREADI
Uno fermo proposito che ’n donna
Sia di servarsi casta, al fine vince
E tòr fa da l’impresa incominciata
1110
Chi la sollecitava al suo disnore.

SCENA II

EGLE sola

[EGLE]
Non è d’apparecchiare a alcuno indisie
Se non quand’ei si pensa esser sicuro.
E che sia ver, non potero in dieci anni
Con ogni ingegno lor, con ogni forza
1115
Vincere i Greci Troia, e ’n quella notte
Che finsero la pace et il partirsi,
L’arsero tutta e la gettaro a terra.
Così ora che si pensano sicure
Esser le ninfe, perché sian lontani
1120
Iti da loro i Dei silvestri, tutte
Da lor fian vinte a una battaglia sola,
E ’n questa sera avran compiutamente
Quel che non hanno avuto in anni molti.
Ma veggio uscire un Satir de la selva
1125
E ragionar da sé tutto pensoso:
Attender voglio qui ciò ch’egli dice.

SCENA III

SATIRO, EGLE, FAUNO

SATIRO
O che sia il troppo desiderio mio
D’aver la cosa amata, o pur ch’Amore
L’amaro sempre dia prima che ’l dolce,
1130
Temendo che lo ’nganno apparecchiato
Non ne soccieda, per la gran paura
Gelar mi sento per le vene il sangue;
E quanto più d’assicurarmi i’ cerco
E cerco di far van questo timore,
1135
Mi vengon tuttavia segni maggiori
Che l’accrescono più, che ’l fanpiù fermo.

EGLE
Che non può fare Amor con la sua fiamma,
Poi che dice costui cose sì gravi?

SATIRO
Al venir fuor de la spelonca usata,
1140
Veduto ho sovra un pin due tortorelle
Che dolce mormorio faceano insieme;
Et ecco, in un istante, uno grifagno
Falcon scese dal ciel ch’ambo l’uccise.
Poco da poi m’occorse un rosignuolo
1145
Che l’antico suo mal mesto piangea
E con dolente e lagrimevol voce
Sempre seguito m’ha per tutto il bosco,
Come d’alcun mio mal presago fosse.
Et ancor ne l’orecchie mi risuona
1150
La voce lamentevole d’un corvo
Che da una quercia ombrosa a lo ’mproviso
Mi fece tristo augurio ne la selva.

EGLE
Che pazzia è questa, che gli augelli il mondo
Tema, se la natia lor voce fanno?

SATIRO
1155
Poco dopo mi venne incontro un toro,
Squallido, magro, con dolente aspetto,
Che con mugiti miseri a pietade
Destava gli annosi olmi e i duri faggi;
Et a pena quel toro ebbi passato,
1160
Ch’io vidi steso su la minut’erba
Un capro, per amor così distrutto
Che forata l’avean l’ossa la pelle:
Sì che, giungendo tutti questi segni
In un, non trovo onde sperar mi debba.
1165
Poi, se quindi rivolgo il pensier mio
A l’astuto veder de la nostra Egle...

EGLE
Lodato Bacco, ch’anch’io merto lode
E son di qualque pregio in queste selve.

SATIRO
E a la simplicità di queste ninfe,
1170
In così gran timore ho qualche speme;
E spero ch’oggi il Signor nostro Bacco,
E Vener, sempre a lui fida compagna,
Non verran meno a noi che per li boschi
Onoriamo ambo lor con tutto il core.

EGLE
1175
Non voglio più tardar: di che ti dogli?
Qual passion t’affligge sì aspramente
Or che siam per accòr le augelle al visco?

SATIRO
Mi tengono tra due speme e timore,
E se vince un di due, vince la tema,
1180
Tal ch’io non sento in ramo mover foglia
Che timor non m’aggiunga, com’io fossi
Una lepre o un coniglio; sola puoi
Tu assicurar ogni temenza mia,
Se buona nuova da le ninfe porti.

FAUNO
1185
Venuto son anch’io, poi che v’ho visti
Parlare insieme, per saper se buona
Nova hai da queste nostre aspre nemiche.

EGLE
La nova è, frate mio, che dopo ch’io
Non le potei dispor ad amar voi
1190
(Che ciò prima tentai d’ogni altra cosa),
Creder lor feci che voi, dal dolore
Vinti, ne volevate andar lontani.
Creduto l’hanno e se ne son rimase
E contente e sicure. A me non parve
1195
Di farle invito allora, perché strano
Mi parve, a dirti il ver, che voi non foste
Ancor partiti, e i Satirini vostri
Pensasser di far festa.

SATIRO
Ben pensasti,
Che gli poteva ciò dar chiaro indizio
1200
Di qualche inganno.

EGLE
Adunque ov’io deveva
Lo ’nvito farle, i’ cercai di disporle
Ch’avessero pietà de’ picciol vostri
Satiri e Fauni.

SATIRO
Et a qual fine questo?

EGLE
Il saperai, s’ascolti. Esse, credendo
1205
Che voi ne foste giti, ad una voce
Dissero di voler per figli accòrgli.

SATIRO
Non veggio ancor che ciò nulla ne giovi
O ne dia speme alcuna.

EGLE
Se sei cieco,
Che vuoi ch’io te ne faccia?

SATIRO
Aprimi gli occhi
1210
Tanto ch’io veggia quel che ’nsino ad ora
Veder non ho saputo.

EGLE
Ite a la caccia
Si sono insieme, et io nel ritornare
Che faranno dal bosco, i’ voglio offrirle
I fanciul vostri e, fatta lor l’offerta,
1215
Pregar le vo’ che gli accolgan per figli,
Come t’ho detto che promesso m’hanno.

FAUNO
Non so veder che quindi avenir altro
Possa, se non che noi da queste ninfe
Cacciati siamo, e ’n vece nostra i figli,
1220
Ch’a ciò non pensan, sian da loro accolti.

SATIRO
Veggio, misero me, che saran veri
Gli augurri di che dianzi i’ dicea meco.

EGLE
Lasciami, se tu vuoi, giungere al fine,
Né ti doler pria che cagion tu n’abbi.
1225
E dopo ch’esse gli averanno accolti,
Io li voglio lasciar ne le lor mani
E dirle che, trovandosi con loro,
Men grave gli sarà mancar de’ padri.

SATIRO
Incomincio a veder ciò che vuoi fare,
1230
E così sono d’allegrezza pieno
Ch’io non posso capire in me medesmo.
Ah ah, ah ah, ah ah, dolce Egle mia,
Esser pens’oggi sol per te felice.

EGLE
Esse, che più non temeranno insidie,
1235
Se gli accòrranno e ne verran con loro
(Ch’io senza dubio ciò farò avenire)
Fuori di casa, senza alcun sospetto,
Lasciati i dardi, gli archi e le faretre.
Io, ciò avenuto, tenterò di fare
1240
Ch’entrino in danza co’ fanciulli vostri,
E certa i’ son che si porranno in ballo:
Allora voi, secondo l’ordin dato,
Cercherete goder de l’amor vostro.
Or parti che condotto abbia il mio ingegno
1245
Ogni cosa a buon fine?

FAUNO
Egle mia dolce,
Tu ci hai data la preda ne le mani.
Or veggio ben che spesso spesso aviene
Ch’uomo che imponga una ambasciata pensa
Bene secondo sé la cosa e, poi
1250
Che vien l’imbasciatore in fatto, è d’uopo
Ch’usi lo ’ngegno e un altro modo tenga.
Se tu facevi come avevam detto,
Se n’andava ogni cosa a la malora.

EGLE
Saper bisogna usare il luoco e ’l tempo
1255
A chi una cosa vuol condure al fine.

FAUNO
Ma entriam nel bosco a dar la nova a gli altri.

EGLE
Entriam, ma vi bisogna stare ascosi,
Sì che non diate lor di ciò sospetto.
CORO
ErrorMetrica
Come avaro bifolco, poi che ’n terra
1260
Il gran con piena mano
Ha sparso, lieto aspetta
Che ’l verno fugga che le fronde atterra
E si rivesta il piano
Di varii fiori e di minut’erbetta,
1265
E prega che sia vano
Tutto il furor ch’irato il ciel disserra
E che gli sian così le stelle amiche,
Che ’l frutto accolga de le sue fatiche;
Così bramiamo noi, dopo le molte
1270
Pene e dopo il lamento,
Aver giusta mercede
Da queste ninfe, al mal nostro sì volte
Che ci dan più tormento,
Quanto più ogniun di noi pietà lor chiede,
1275
Con doloroso accento.
Però preghiamo ch’oggi a sera accolte
Le veggiàn tutte in questa selva insieme,
Sì che ’l frutto accogliàn del nostro seme.
Però Vener, s’Amor giamai t’accese
1280
Pel bello Adoni il core,
Tra amiche selve ombrose,
Non ti sia grave d’esserne cortese
Del tuo santo favore;
Così corone di vermiglie rose
1285
E di soave odore
A’ tuoi altar con grata man sospese
Siano da’ lieti e fortunati amanti,
Né turbin le tue gioie affanni o pianti.
E se mai sempre la tua forza dome
1290
Ogni mente rubella,
Almo Signor Cupido,
E voli altiero il tuo divino nome,
In questa parte e ’n quella,
Con glorioso et onorato grido,
1295
Leva le gravi some
Del fier dolor che ’l cor sì ne puntella
Che bramiamo, se noi d’aiutar schivi,
Per più non ci doler, non esser vivi.
Né grave ciò ti fia, che se le tigri
1300
Sentono la tua fiamma
Non men che damme o lepri,
E s’i fieri leoni e i pardi impigri
L’alta tua face infiamma,
Et aspi e crudi tiri entro a le vepri,
1305
Se per te, a dramma a dramma,
Ardon gli augei veloci, ardono i pigri,
Esser non puote che di noi accese
Non siano queste ninfe e da noi prese.
Adunque a questa impresa
1310
Sii, Signor, sì benigno,
Che da caso maligno
Non ne sia la mercé nostra contesa:
Che se non vanno i nostri preghi vuoti,
Ti darem sempre e sacrifizii e voti.


ATTO QUARTO

SCENA I

PANE solo

[PANE]
ErrorMetrica
1315
Che giova a me l’esser d’Arcadia Dio,
E l’aver sotto me tutti i pastori,
E che mi pascan mille greggie i prati,
Poi ch’io non ho me stesso, e quella cruda
Che tratto m’ha si me col dolce sguardo
1320
Sen va soperba de gli affanni miei,
Come leonessa che persegua il lupo,
Né mi val prego o lamentar ch’io faccia?
Non sono già sì senza amor le selve,
Che non devesse anco costei sentire
1325
Con che fuoco arda Amor, con che stral fera.
Né pur le cose c’hanno senso sono
Arse d’amor, ma le insensibili anco;
Si vede pur la palma amar la palma
E l’un piatano l’altro e l’alno l’alno:
1330
E costei che donn’è, ch’atta è ad amare,
Non deve mai sentir fiamma d’amore?
Ma che credi tu, Pan, ch’ella non ami
Qualche vile caprar, se ben te sdegna?
Deh non sai tu che de le donne è proprio
1335
Fuggire il meglio et appigliarsi al peggio?
Ahi, se ventura tal oggi ha un capraro,
Capraro esser vorrei, non esser Dio.
Ma che pens’io de la Siringa mia?
So pur che perderebbe ella la vita,
1340
Più tosto che macchiar la sua onestade;
E che, s’alcun di lei goder devesse,
Io sol sarei tra tutti gli altri eletto.
Deh non sai, Pan, com’è mutabil cosa
La donna per natura? e che da terza
1345
Nel pensiero non è de la mattina?
Non hai veduto, Pan, per le tue greggie
Spesso un montone per l’amata agnella
Con un altro cozzar, ch’ella più amava,
E al fine al fine ella lasciare il primo
1350
E darsi a quel ch’avea dianzi sprezzato?
Non potria far costei anco il medesmo?
E mostrarti che ’l por la speme in donna
Altro non è ch’edificar sul vento?
Ahi che fredda onestà sì ’l cor l’aggihiaccia,
1355
Che non la può scaldar fiamma d’amore;
Tal che, se me disprezza, altri non ama.
O felice Vertunno, che potesti
Mutare, per goder la tua Pomona
Che un fiore intatto era di pudicizia,
1360
In tante forme, ch’ella a le tue voglie
Discese e del suo amor ti fece dono!
Se potessi così mutarmi anch’io,
Io non mi muterei in metitore,
Né ’n un che accòr volesse poma o ’n uno
1365
Che portasse sembianza di bifolco,
Ma mi farei Diana, come Giove
Si fece per Calisto, e cercherei
Accòrla o sotto un’ombra o dentro a un fonte
E compir ivi il mio disio con lei.
1370
Ma poi che ciò non posso, almen mi fosse
Lecito per fatica alcuna averla,
Come ’n premio del corso ebbe Atalanta
Ippomene, mal grato a Citerea!
Ma si vedranno senza fiere i boschi
1375
E i fior verranno a la stagion più fredda,
Prima ch’io arrivi a sì felice giorno.
Ohimè, da poi che congiurate sono
Tutte le crude stelle ne’ miei danni,
Sì che mai non morendo, io moro sempre,
1380
Perché non vengo un insensato tronco
Esposto al procelloso mar sul lito,
Sì che spegnessi con la vita il fuoco?
O perchè, come già da Cefal morta
Fu la dolente Procri, ne le selve
1385
Non sono ucciso anch’io da la sua mano?
Sapess’io pur per qual luoco ella aventa
Dardi e saette contra cervi e damme,
Ch’io mi nasconderei dentro a un cespuglio
E farei sì ch’ella m’aventerebbe,
1390
Credendomi una fiera, in core un dardo;
Pur spererei allor ch’ella devesse
Esser verso di me tanto pietosa,
Che con qualche sospir facesse segno
Che le ’ncrescesse avermi dato morte.
1395
Ahi miser Pan, tu vai facendo sogni
E la Siringa tua di te si ride!
Quanto fia meglio ch’a Liceo ritorni,
Ad aver cura de le pecorelle
Che senza guardia se ne vanno errando
1400
E potriano venir preda de’ lupi,
Che sparger tante voci indarno al vento!
Se ti disprezza questa cruda ninfa,
Cerca d’un’altra, che non sei sì vile
Che non possi trovare una che t’ami.
1405
Ma che ombra è questa che da lato viemmi?
Ell’è Siringa ch’escie fuor del bosco:
Attender qui la voglio, per vedere
S’indur la posso a aver di me pietade.

SCENA II

SIRINGA, PANE

SIRINGA
Io mi maravigliava aver vist’oggi
1410
Le selve sì quiete e sì sicure
Da le ’nsidie de’ Fauni e mi pareva
Cosa nova di lor non veder orma;
E perch’io so ch’a la lascivia nati
Son tutti e soglion sempre insidie o ’nganni
1415
Apparecchiarci, i’ non potea pensare
Che ciò avenisse perché più modesti,
Fuor del solito lor, fusser venuti:
Che vizio natural, che ’n un sia impresso
E sia con lui cresciuto, non s’emenda
1420
In un momento. Or mentr’io mi stava
Tutta dubbiosa e sovra me sospesa,
Diana, che di ciò acea maraviglia,
Ne chiese la cagione ad una ninfa;
Et ella le rispose che tentata
1425
Avean costoro ogni possibil cosa
Per goder de le ninfe, e dopo ch’essi
Le avean trovate più ferme che scoglio
Ad ogni assalto e avean veduto espresso
Ch’era il costoro amor a lor di noia,
1430
Avean deliberato di cercare
Altro paese e men fiera ventura,
E ’l camin preso avean verso la Spagna.

PANE
Che cosa od’io? Non ho già audito dire
Oggi di tal partenza ad alcun Fauno.

SIRINGA
1435
Diana si mostrò di ciò assai lieta,
Come colei che ben sapea ch’un lungo
Pregare, un lungo amore, una continua
Battaglia un duro cor spesso fa molle.
E rimasi io via più lieta di tutte,
1440
Ancor che nol mostrassi allor nel viso,
Pensandomi che fosse con costoro
Andato ancora Pan, che tanto tempo
Mi ha dato noia.

PANE
Intendi, s’hai orecchio,
A che termine sei de l’amor tuo.
1445
O miser me, o ’nfelice!

SIRINGA
Non perch’io
Fossi mai per amarlo o per mutarmi
Del mio primo pensier fisso in diamante...

PANE
Ahi miser me, dov’ho io posto speme?
Per chi mi consumo io? per chi mi struggo?

SIRINGA
1450
Ma perché non è rocca sì minuta,
Che non brami più tosto aver lontani
I suoi nemici, che d’avere assalto,
Per mostrar combattendo il suo potere.
Dunque sicure omai per queste selve
1455
Ce ne potremo andar per ogni canto.
Ma chi è dietro a quel pino? Ahi ch’egli è Pane,
Ahi povera Siringa, a che sei giunta!
Forse ch’ei non mi ha visto; ohimè, ch’ei viene!
Che farai? Se ti dai, lassa, a fuggire,
1460
Tu sai com’ei velocemente corre
E com’egli potrà giungerti tosto.
Mi fermerò, dopo c’ho in mano l’arco,
Che teme costui più che ’l lupo il fuoco;
E così minacciando di ferirlo,
1465
Mal grado suo, il farò lontano starmi.

PANE
Ahi Siringa crudel, Siringa ingrata,
Che bisogna figgire? o che temere?
O pensar di ferirmi con gli strali?
Così la pecorella il lupo fugge,
1470
La lepre il cane et il leon la cerva
E l’auila grifagna le colombe,
Perché tra loro è nemicizia grave;
Ma io, ninfa gentil, sol per amore
Ti seguo, e me tu, qual nemico, fuggi.
1475
Deh muta omai, Siringa mia, pensiero
E non m’esser cagion di tanto affanno.

SIRINGA
Io lo ti ho detto, Pane, e tel ridico,
Che vo’ servar la mia onestade intatta;
E prima esser potria che queste selve
1480
Divenissero mari e i mari boschi,
Ch’io ti lasciassi pur toccarmi il lembo.

PANE
Siringa, tu non sai chi tu disprezzi:
Io non sono un pastor di queste selve,
Ch’abbia una greggia o due d’altri in custodia;
1485
Tutto questo paese è in poter mio,
E quante greggie pascon questi prati
Son tutte di costui c’hai così a vile.
E se tu mi adimandi forse quante
Elle per numer sian, nol ti so dire:
1490
N’aviene ciò per stracuranza mia,
Ma perché tante van pascendo i campi
E tante ne son chiuse entro le mandre,
Quante contar non puote alcun pastore.
Contino pure i poveri le loro,
1495
Io a le mie non ho numer; ben so dirti
Che sempre quindi avrai latte in gran copia
E gran copia d’agnelli e di capretti
E vendrai por mille caldaie al fuoco
Da stringer latte per formare il cascio,
1500
Il qual non men fia tuo ch’egli sia mio.
Siringa, tu non sai chi tu disprezzi:
Se m’ami, non avrai più mai fatica
Di cacciar damme o di seguire i cervi
Od altre fiere e boscareccie belve,
1505
Che tu n’avrai da me tante ogni giorno,
Quante in un anno tu non trovi errando;
E più ti dico che, più giorni sono,
Due cavrioli i’ tolsi di un covile,
Più mollo che la piuma e via più bianchi
1510
Che le nevi che vedi in su quest’alpe:
Io li ti serbo, e son giè sì lascivi,
Che se tu gli vedessi scherzar meco,
Per averli verresti assai più pia.

SIRINGA
Non, se fussero tutti oro e diamanti.
1515
Tienliti pur, ch’io non mi curo averli.

PANE
Ahi poco saggia ninfa, ancor che sii
Più bianca che i ligustri, e più vermiglia
Che matutina rosa, e più lucente
Che le gelate brine e per ciò vadi
1520
Soperba più che giovane giuvenca,
Non devresti sprezzar sì fatti doni.
Oltre che, se tu sei, come sei, bella
(Ch’io non ti vo’ levare alcun tuo pregio),
Non son laido anch’io tal qual io sono;
1525
Anzi non è né ’n ciel, né ’n terra cosa
Di cui l’imago in me non sia scolpita.
Queste due corna che mi vedi in capo,
E che forse ti spiaccion, mostran chiaro
Le corna de la luna e i rai del sole;
1530
E ’l color c’ho nel viso, il cielo ardente;
E queste varie macchie c’ho nel petto
Ti figuran le stelle; e questi peli,
Gli arbori e l’erbe e le frondose selve;
E la sodezza de’ miei piedi è imago
1535
Di questa terra su la qual tu vivi.
Siringa, tu non sai chi tu disprezzi:
E pur tu puoi veder che, me sprezzando,
Non sprezzi un vil, ma che tu sprezzi il tutto,
Et un che quello ha in sé che non ha Giove,
1540
Quantunque egli dal ciel fulmini e tuoni.
Ve’ che sozzo animal si vuol far bello!
Oltre di ciò, ti puon far chiara fede
Gli arbori e l’erbe e i fior di queste selve,
Ch’al suono mio non altrimenti movo,
1545
Che fosser mossi già dal suon d’Orfeo,
Con mal augurio suo, gli arbor di Tracia,
Quant’i superi ogniuno che si pone
Tra Menalo e Liceo fistula a i labri.
Parria roco Anfion, tal ch’oso dire
1550
Che contender potrei col biondo Apollo,
Con più felice fin che non fe’ Marsia.
Io m’[a]llegro con te di virtù tale,
Ma per ciò non farai mutarmi voglia:
Però non spender più parole indarno.
1555
Siringa, se non vuoi di me far stima,
Io vorrei che di te cura tenessi
E aprissi gli occhi e t’accorgessi omai
Che portan l’ore i giorni e i giorni i mesi
E i mesi gli anni e gli anni al fin la vita.
1560
E però tu sapessi, come saggia,
La ventura pigliar che ’l ciel ti dona;
E che nel fior de’ tuoi fioriti anni
Sapessi il frutto còr de l’età tua.
Né pensar ch’io ti dica ciò perch’io
1565
Non abbia una che m’ami in queste selve:
Mille ninfe mi chieggion per amante
E mille son da me per te sprezzate.

SIRINGA
Però non voglio fare ingiuria a l’altre:
Ama chi t’ama e non mi dar più noia.

PANE
1570
Deh s’altro non mi vuoi, Siringa, dare,
In refrigerio almen del mio gran fuoco,
Piacciati, prego, che da queste labra,
Che più vermiglie son ch’acerbo moro
E (com’io credo) più ch’uva matura
1575
Dolci, e soavi più che non è l’mele,
Un bascio prenda dopo tanti affanni.
Assai figgito m’hai, lascia ch’un giorno
Con un bascio ristori i danni miei.

SIRINGA
Un bascio? Donna che cortese sia
1580
D’un bascio ad altri, può donarlo il tutto,
Ch’appresso me più mai son sarà casta.

PANE
Tu te ’nganni, Siringa: un bascio è poco,
Anzi (per meglio dire) è come nulla:
Deh non lo mi negar, vita mia cara.

SIRINGA
1585
Non mi t’accostar, Pan, che se questo arco
Non mi vien men, né men queste saette,
Io mi ti farò andar tanto da lunge,
Che non avrai più ardir venirmi appresso.

PANE
Ahi che vuoi far, Siringa? T’hai pur troppo
1590
Tinte del sangue mio, crudel, le mani;
Ma se sazia non sei de ’ncrudelire,
Eccoti il petto, il qual già tu m’apristi
Quando fuor mi traesti il cor afflitto:
Trafiggilo a tua voglia, che maggiore
1595
Piaga non li puoi far di quella c’have.
Ma se veder vorrai quel che conviene
A un fido amante, a una pietosa ninfa,
In pietà muterai la crudeltade.

SIRINGA
Non mi ha voluto far la grazia il cielo
1600
Ch’oggi egli ha fatto a le compagne mie,
Che co’ silvestri Dei tu ti sia gito.

PANE
Siringa, me n’andrò pria che sia sera,
Né qui tenuto m’han le greggie mie,
Od il paese del quale io son Dio,
1605
O le ninfe che cercan pur ch’io l’ami
E mi dan per ciò doni e porgon prieghi,
Ma ’l voler sol, prima ch’io mi partissi,
Da te pigliarmi l’ultimo commiato;
Però in questo partir dammi la mano,
1610
Cara Siringa mia, ch’io la ti tocchi.

SIRINGA
Stammi lontan, lo ti ho pur anco detto,
Se ’n te non vuoi che la faretra i’ scarchi;
E se tu mi vuoi far la maggior grazia
Ch’a ninfa mai potesse fare alcuno,
1615
Ponti in camin con i compagni tuoi
E non mi venir più dinanzi a gli occhi.

PANE
Benché, da te partendo, io abbandoni
Ogni ben, pur, perché mi par minore
De l’ira tua qualunque acerba pena,
1620
Io me n’andrò, come ti ho detto dianzi,
Da l’almo mio natio dolce paese,
Del qual son Dio, nel qual sempre son visso,
Ove me ’ndrizzerà la sorte iniqua.
Ti prego bene in questa mia partenza
1625
(Dopo che tu mi neghi ogni altra grazia)
Che tenghi certo che, quanto amar puote
Un Dio ninfa gentil, tanto io t’ho amato.

SIRINGA
Or non più, Pan, Diana è qui vicina,
Ch’io sento il suon de’ corni e veggio i cani.
1630
Me ne voglio ir.

PANE
Deh ferma, ninfa, il passo,
Non mi ti tòrre ancor.

SIRINGA
Lasciami, Pane,
Se non ti vuoi pentir d’avermi vista.

PANE
Deh lascia ch’io ti tocchi almen la mano.

SIRINGA
Lasciami, dico, ch’io non son più sola,
1635
Che veggio la mia Dea, veggio le ninfe
E guai a te, se tu mi fai chiamarle.

PANE
Non m’esse sì crudel, ninfa gentile,
Abbi pietà del mio angoscioso affanno.

SIRINGA
Tu mi farai gridar.

PANE
Grida a tua voglia.

SIRINGA
1640
Diana, aiuto, che mi vuol far forza
Questo villan di Pane!

PANE
Ecco io ti lascio,
Siringa ingrata, ma tu via mi porti,
In questo tuo partir, l’anima e ’l core.

SCENA III

PANE, SILVANO

PANE
Maledetta Diana e le sue ninfe,
1645
I can, gli strali, gli archi e le faretre!
Non mi poteva già peggiore intoppo
Avenir oggi, che dopo che Amore
Mi dipense nel cor questa crudele,
Non l’ho da sola a sol giamai avuta
1650
Com’oggi, e mi sperava al fin venirne
Per forza almen, s’io non potea co’ prieghi,
Se non venia Diana a darmi noia.
Che maledetta sia quell’ora ch’ella
Tolse la mia Siringa in compagnia!
1655
A me proprio è avenuto come aviene
Ad un pover bifolco che le biade
Veggia quasi mature e pensi porvi
La falce per accòrle, e ’mmantinente
Aspra tempesta vien che glite toglie.
1660
Ma non fia che vendetta anch’io non faccio
A mio poter di così grave oltraggio:
Non, s’io devessi abbandonar le selve
E lasciar le mie greggie in preda a i lupi.
Fonte non è per qusti ombrosi boschi
1665
Che disturbar nol faccia da’ pastori,
Né vi si trova alcun fiorito prato
Che pascere i’ nol faccia a le mie greggie,
Sì che Diana sia costretta quindi
(Mal grado suo) partirsi. Ahi miser Pane,
1670
E che farai s’ella di qui si parte?
Andrà seco Siringa, e sarai stato
Tu lo ’nventor del tuo palese male.
Almen veder la puoi, s’ella qui resta,
E parlarle talor, com’hai fatt’ora,
1675
E ’ndurla a aver pietà del tuo dolore,
Ch’è qualche cosa, fin ch’altro aver puoi;
Ma fuor di speme sei, s’ella si parte.
A che termine sei, miser Pan, giunto?
Perdonar ti conviene a chi t’offende,
1680
Per amor di chi t’arde e ti distrugge,
E preporre il veder dietro a un cupresso
Od un faggio od un olmo la cagione
Del tuo dolor, al far vendetta giusta.

SILVANO
Gravi querele son queste, ch’i’ odo,
1685
E mi paion di Pan, nostro gran Dio.

PANE
Ma c’ha voluto dir la mia Siringa,
Quando m’ha detto che lontani vanno
I Satiri e i Silvan da queste selve?

SILVANO
Pane, che ci è che ti lamenti tanto
1690
E sei sì maninconico nel giorno
Che sono tutti i Dei silvestri in gioia?

PANE
Scacci il duolo chi vòle e si rallegri:
Gioia non è per me tra queste selve,
E ciò ch’è lieto a me sol è d’affanno,
1695
Poi che chi sola mi potria far lieto,
Quanto più mesto son, tanto più gode.

SILVANO
E qual è la cagion del tuo dolore?
Non ti gravi di dirlami, che forse
Potrei al tuo languir porger rimedio.

PANE
1700
Silvano, tu non sai quello ch’è noto
A le piante, a le fiere, a i sassi, a l’erbe?
Siringa è la cagion d’ogni mio male;
E la crudele, che potrebbe sola
Beato farmi, il mio dolor non cura.
1705
Post’ho per lei le mie greggie in oblio
E non le greggie pur, ma me medesmo;
Né per cosa ch’io faccia i’ posso avere
Speme da lei di ritrovar mai pace.

SILVANO
Pan, peggio non si può far ne gli affanni,
1710
Che pensar non dever esser mai lieto.
Non sai che ’l femenil sesso si muta
Di momento in momento? S’or t’attrista,
Forse empir ti potrà d’allegrezza anco.

PANE
Il so, ma come che costei si mute,
1715
Allegrezza per me non n’escie mai.

SILVANO
Ma dimmi: non è ella quella ninfa,
Nata un Nonacria, ch’è tanto a Diana
Simil, che se non fosse differenzia
Tra lor l’abito e l’arco, si potrebbe
1720
Creder che fosse ella Diana istessa?

PANE
Ell’è quella, Silvan.

SILVANO
Or l’ho veduta
Gir con Diana.

PANE
Ohimè, ch’ella mi ha tolto
Nel suo partire il core e son rimaso
Come pastor ch’abbia veduto il lupo
1725
Sbranar le greggie sue di capo in capo;
E tanto è ’l dolor mio, ch’io non vorrei
Esser più vivo.

SILVANO
Ben ti stimo sciocco,
Poi che brami morir per una ninfa,
De’ quali n’è tal copia, che se n’have
1730
Per ogni stran, per ogni incolto bosco.

PANE
Pari a lei non se n’ha, Silvano mio,
Perché è costei tra tutte l’altre ninfe
Qual è tra’ minor fior rosa vermiglia;
E a dirti il ver, mi dà non poca noia
1735
Una cosa che m’ha, parlando, detto,
Et intesa i’ non l’ho.

SILVANO
Che cosa è questa?

PANE
Ch’essendosi partiti gli altri Fauni,
I Satiri, i Silvani, me n’andassi
Anch’io con loro; e pur di tal partenza
1740
Non sapea, né so nulla.

SILVANO
E c’hai risposto?

PANE
Ch’anch’io mi volea gir.

SILVANO
Ve’ come il caso
Produce il tutto! Non potevi meglio
Risponder: questo è quel ch’io dicea dianzi,
Ch’essendo tutti i tuoi compagni in gioia,
1745
Io mi maravigliava di vederti
Così maninconioso.

PANE
Ora ch’è questo,
Caro Silvan?

SILVANO
La tua allegrezza certa,
Il tuo certo gioir, quel che ti puote
Sì lieto far che più non sarai mesto.

PANE
1750
Ahi caro il mio Silvan, non mi dir fole,
Non cercare ammollire il mio dolore
Con medicina falsa, perché poi
Elli ritorneria più che mai grande!

SILVANO
I’ vo’ che questa sera di Siringa
1755
Tu goda.

PANE
Questa sera?

SILVANO
Questa sera.
Cim’i Satir godranno e i Fauni tutti
De le lor ninfe.

PANE
Or che potria più affanno
Darmi o dolor, se questo aveniss’oggi?
Dimmi il vero, Silvan.

SILVANO
Così vedere
1760
Potess’io questa pianta ritornare
Nel mio fanciullo, com’egli già in questa
Pianta nel più bel fior fu trasformato,
Com’io detto non t’ho se non il vero.
Né per altro fint’hanno la partenza
1765
I Satiri e i Silvan, che per godere
Le ninfe lor.

PANE
Ma ch’è mestier ch’io faccia,
Perché mi goda di Siringa anch’io?

[SILVANO]
Poi che l’hai detto di voler partirti,
Non dubitar di non averla in braccio,
1770
Prima ch’appaia in ciel la nova aurora.
Ma non è tempo d’indugiar qui molto,
Che di qua veggio uscir fuori le ninfe.
Però entriamo nel bosco, pria che noi
Siam veduti da loro, e ’ntenderai
1775
L’ordine posto da’ silvestri Dei;
Onde vedrai ch’oggi esser puoi felice,
Poi che Siringa può felice farti.

SCENA IIII

AMADRIADI, altre NINFE, EGLE, SATIRI PICCIOLI, SIRINGA

AMADRIADI
Molti mesi ha che più felice caccia
Noi fatto non abbiam di quella d’oggi.

NINFE
1780
Ell’è stata felice, ma di molto
Pericol: se ’l cengial che que’ due cani
Uccise et arse a que’ tre altri il pelo,
[Gettando fuoco ardente da le zanne,]
Ci cogliea con un dente, vedevamo
1785
Che pericolo in sé tengano i boschi.

AMADRIADI
Ben dimostrò Diana ch’i suoi colpi
Venian da man divina, quando l’arco
Scoccò verso il cengiale e lo trafisse
In mezzo il capo, non di colpo lieve,
1790
Come Atalanta già con infelice
Augurio del dolente Meleagro
Trafisse il suo, ma d’un così possente
Che subito ei restò di vita privo.

NINFE
Quanto fu bel veder gli aggiramenti
1795
Di quella insidiosa astuta volpe
Che tante volte e tante ingannò i cani,
Ch’alora ch’essi si credean d’averla
Tra’ denti, si tornò ne la sua macchia.

AMADRIADI
Ma chi avria mai pensato di vedere
1800
Che quella gravida orsa, che trafisse
Con il dardo Diana, partorire
Devesse per la piaga i cari figli,
Sì che l’istessa man ch’a lei diè morte
Fosse a i figli cagion del nascimento?

NINFE
1805
Ciò fu bello a veder, ma via più bello
Che, mentre questa ninfa cogliea il parto,
Venisse d’improviso quella cerva,
Che cacciava Siringa, e la gettasse
Con un urto tra l’erba e i fiori in terra.
1810
Tu ridi? Se vi fusser stati i Fauni,
Potuto avrian veder s’eri uomo o donna,
Sì stranamente in aria alzasti i piedi!
Ma vedete Egle con i Satirini,
Che si viene vèr noi fuor de la selva.
1815
Vo’ che qui l’aspettiam.

AMADRIADI
Come ti piace.

EGLE
Figliuoli miei, bisogna che sappiate
Finger così ch’i miser vostri padri
Se ne sian giti, che sel credan certo
Queste vezzose ninfe; e ciò averravvi,
1820
Se finger sì saprete di dolervi,
Che le moviate a aver pietà di voi.
Io non mancherò punto d’aiutarvi,
Ovunque io vedrò che sia bisogno.

SATIRI PICCIOLI
E noi ci sforzeremo in questa nostra
1825
Tenera età non ci mostrar fanciulli,
Per ottener quel ch’ottener bramemo:
Non ne venga pur men di favor Bacco.

EGLE
Così bisogna che facciate. Andiamo,
E mostratevi tutti in viso mesti.

NINFE
1830
Ti sii la ben venuta, Egle; che buona
Nova ci apporta la venuta tua?

EGLE
Nova buona non han più queste selve,
Poi ch’i silvestri Dei se ne son giti,
E testimon ne sian questi meschini,
1835
Quai non posso mirar senza cordoglio;
E se non che su voi han qualche speme,
Io credo che s’avrian data la morte,
Veggendosi restar senza i lor padri;
Ma come a madri sue vengono a voi.
1840
Fatevi inanzi, poveri fanciulli,
E datevi a la fé di queste ninfe.

SATIRI PICCIOLI
Ninfe cortesi, ancor che senza pianto
Non possiam ricordarsi l’improvisa
Partita di coloro onde siam nati,
1845
Pur diviene minor la nostra doglia,
Qualor pensiam ne la bontade vostra.
Però, cortesi et amorose ninfe,
Non vi sia grave aver di noi pietade,
Quai qui rimasi siam come rimane,
1850
Perduto il suo pastor, graggia infelice.

NINFE
Non vi saremo men che madri pie.
Ben vi preghiamo da’ costumi nostri
Non si partire e por tutta in oblio
De’ Satiri maggior l’aspra lascivia.

EGLE
1855
Non è da dubitar ch’al viver vostro
Non s’assomiglin, perché da fanciulli
Comminciano apparar la vita vostra:
Che come creta molle ogni figura
Agevolmente prende, così ancora
1860
In un animo tenero se ’mprime
Ogni modo di vita agevolmente.
Dunque, Satirin miei abbandonati,
Poscia che queste ninfe sì pietose
Avete verso voi oggi trovate,
1865
Date lor segno di deverle avere
(Come devete aver) sempre per madri;
E voi, ninfe gentil, d’averli sempre
(Com’essi vi si dan) per cari figli.
Stringete a lor, picciol fanciulli, il collo,
1870
E voi altresì a lor, ninfe cortesi,
E con basci di pace date segno
Ch’esser debba tra voi perpetuo amore.
Ma temp’è ch’io ritorni al mio Sileno,
Che ’l pover vecchio è pien di tanto affanno
1875
Per la partita de’ compagni suoi,
Che non spero mai più vederlo lieto.
Voi rimarrete con le madri vostre,
Satirin miei, e dopo cen poi
(Se però fia in piacer di queste ninfe)
1880
Qui ci ritroveremo tutti insieme,
Forse contenti più che non siam ora.

AMADRIADI
Anzi verrenvi molto volentieri,
Poi che noi vi possiam venir sicure.

SIRINGA
Deh di grazia dimmi, Egle, se d’Arcadia
1885
Partito s’è co gli altri Fauni Pane?

EGLE
Partito s’è pur troppo lo ’nfelice,
E non è per vederlo Arcadia mai:
Tanto incresciuto l’è che tu lo sdegni!
Siringa, i’ tel vo’ dir, per uno amante
1890
Non vide il più fedele unqueanco selva,
E gli ti sei mostra sì dura a torto;
Ma potria avenir tempo ch’avresti anco
Te stessa a sdegno, per aver sdegnato
Amante sì fedel, fuor di ragione.

SIRINGA
1895
Dolgasi egli di sé, che si è voluto
Por ad amar chi mai non sentì amore.
Io non lo ‘ndussi mai ch’egli m’amasse.

EGLE
Estender non mi voglio in dimostrarti
Quanto meglio saria ch’amor seguissi,
1900
Perché, essendosi Pan quindi partito,
Non gioveriali il mio mostrarti il vero.
Ma tempo verrà ben che tu te stessa
Reprenderai.

SIRINGA
I’non son per pentirmi
Mai de l’onestà mia.

EGLE
Te n’avedrai
1905
Quando il penserai men. Restate in pace,
Ninfe, fin che torniamo a rivederci.

SCENA V

EGLE, SILENO

EGLE
Chi fia chi dica che d’ingegno manchi
Donna ch’a far si dia una grende impresa,
Se por vi vuol, com’ella dee, lo ’ngegno,
1910
Dopo che tutte queste ninfe a un tratto
Ho condotte a la rete in questo giorno?
Altro non resta più se non ch’i Fauni
Tirin la rete e ve l’accolgan sotto
E facciano di lor sicure prede.
1915
Veggio Sileno: i’ gli voglio dar nova
Ch’i Satir de le ninfe avran vittoria.

SILENO
Tu mi farai uscir del corpo l’alma
Con questo tuo tardar: tre fiaschi ho asciutti
Insino al fondo, poi che ti partisti,
1920
E dormito un gran sonno, e risvegliato,
Beendo tuttavia, guardato ho a torno
A torno buona pezza e non t’ho vista
Insino ad ora: gaglioffetta, guai
A te, se fatto tu m’avessi oltraggio!

EGLE
1925
E se fatto l’avessi ben, che fora?
Per ciò non t’averria nulla di novo,
Poi c’hai le corna per natura in capo.

SILENO
Tu mi dileggi, ribaldella? Dammi
Un bascio.

EGLE
Volentieri.

SILENO
1930
Or prendi ’l fiasco
E ricreati un poco.

EGLE
I’ n’ho bisogno,
Per la durata mia nova fatica
In ridur queste ninfe a le mie voglie.

SILENO
E c’hai tu fatto?

EGLE
Lasciami ber prima.

SILENO
Bevi, che dato i’ t’ho per questo il fiasco.

EGLE
1935
O che buon vino è questo! I’ me ne sento
Fender la lingua sì, che viemmi a l0occhio
La lagrima: o che vino! Goda Giove
Nettare e ambrosia, i’ non cerco ber meglio.
Et onde l’hai tu avuto?

SILENO
Il mio Marone
1940
Da la mensa di Bacco oggi l’ha tolto.

EGLE
So ch’ei conosce il buono. I’ nom mi posso
Saziar di ber.

SILENO
Vedi s’io m’arricordo,
Egle, di te. Non ne ho voluto bere,
Per servarloti, un goccio, ancor ch’avessi
1945
Una gran sete.

EGLE
I’ ti farei ingiuria,
S’io non lasciassi che tu dessi un bascio
A la bocca del fiasco: tè’, Sileno,
Accostavi la bocca, che più dolce
Basciar questo sarà che le mie labbra.

SILENO
1950
Questo non già, che più dolce che manna
È questa tua boccuccia: or lascia ch’io
Dia un bascio a te, ne darò un altro al fiasco,
E così sentirò doppia dolcezza.
A ragion ben lodato hai questo vino:
1955
Potta di Bacco, i’ non bevi mai meglio!

EGLE
Bevilo tutto, ch’io non ho più sete.

SILENO
Senza che tu mel dica, i’ l’ho bevuto,
E parmi ch’io sia fatto un Dio celeste.
Or c’hai fatto pe’ Fauni?

EGLE
Hanno le ninfe,
1960
Sotto spezie di fé, i nemici a cerco,
E molto non andrà che saran tutte,
Secondo l’ordin dato, in braccio a’ Fauni.

SILENO
Ah ah, ah ah, i’ lodo il Signor Bacco,
Che dar non sdegna aiuto a la sua gente.
1965
Vorrei anch’io poter d’una godere.

EGLE
Deh vecchiaccio che sei, non ti par ch’io
Sia troppo a le tue forze? Or cerca, cerca,
Silen, d’un ’altra, che d’un altro anch’io
(Poi ch’io non son per te) vo’ provedermi.

SILENO
1970
Non ti adirar, vita mia cara, i’ giuoco
Con te, nol vedi?

EGLE
Non mi par bel giuoco
Il minacciar di tòrmi il pan di casa.
Se ’l facesti, insino or ti fo sapere
Ch’io non vorrei morirmi de la fame.

SILENO
1975
Che dirai, pazzarella?

EGLE
M’hai intesa,
Non mi vo’ veder tòr la vittuaglia.

SILENO
Entriam nel bosco, che farem la pace.

EGLE
I’ non vi vo’ venir.

SILENO
Perché?

EGLE
Non voglio.

SILENO
Deh vien, di grazia! So che gita al naso
1980
Ti è subito la colera.

EGLE
Cagione
Forse non me n’hai data? Se non fosse
L’amor col quale io t’amo, i’ staria un anno
Ch’io non verrei ove tu fossi.

SILENO
Eh andiamo,
Car’Egle mia, nel bosco. Eh vien, di grazia!

EGLE
1985
Va’, ch’io ti seguo. Non è cosa al mondo
Che star più faccia uno marito al segno
Che la moglie minacci di volersi
Di cibo procacciar, s’egli le toglie
Il cibo che mantien le donne in vita:
1990
E chiaro or visto i’ l’ho nel mio Sileno.
CORO
ErrorMetrica
Or che siam per por fine a’ nostri affanni
E si mostra cortese
A’ prieghi nostri Amore,
Non temiam più che rea sorte ne ’nganni,
1995
N’altrui fallaci inganni,
Onde cagion abbiam d’aspro dolore.
Però con tutto ’l core
Benedicemo il dì ch’Amor ne prese
E con la face accese
2000
La fiamma in noi del suo vivace ardore.
Felice l’ora che rivolser gli occhi
Queste ninfe vér noi,
E for sì da’ be’ rai
De’ lumi loro i nostri cori tocchi,
2005
Acciò ch’indi or trabocchi
Il ben ch’addolcir dee gli avuti guai;
Sì che non sentiam mai
Dolor alcun che con gli amari suoi
Ci dia noia, dapoi
2010
Che tanto bene, Amore, oggi ne dai.
Però non sarem mai stanchi né sazii
Di darti lode eterne
Per queste selve ombrose,
Poi che di darci ben tu non ti sazii.
2015
Qual fia che non rengrazii
Le faci, onde abbiam noi quell’amorose
Fiamme c’hanno in sé ascose
Tutte le gioie, s’altri le discerne,
Onde siam per averne
2020
Tregua con queste cure aspre e noiose?
E benché non possiamo in marmi vivi,
Né’n ben saldi metalli
Sculpir tue vere lode,
Non fia però che non rimangan vivi
2025
(Pur che tu non lo schivi)
I tuoi onori, e non t’apprezzi e lode
Tra noi chiunque gode
Per te il ver ben. Dunque per queste valli
Sempre amorosi balli
2030
Guideremo a tuo onor, senza far frode.
E lascierem scolpiti in faggi e ’n olmi
(Benché con rozza mano)
Che fai ogni duol vano
E di sommo gioir l’anime colmi.


ATTO QUINTO

SCENA I

EGLE, SATIRI

EGLE
ErrorMetrica
2035
Sapete ove la cosa è già condotta:
Altro non resta più se non che usiate
Astuzia nel pigliar le fiere in caccia.

SATIRO
Pericol più non v’è, poi che ce l’hai
Con l’arte tua quasi condotte in mano.

EGLE
2040
Non vo’ che vi paia esser sì sicuri,
Che non debbiate aver tema di quello
Che ’n simil caso vi potria avenire.
Non basta a cacciatore esperto avere
Fatto tra sé disegno di pigliare
2045
Astuta fiera, se nel bosco, poi
Che destata egli l’ha, non ha disposto
La caccia sì ch’ella fuggir non possa.
Dunque bisogna che voi siate accorti,
Perché se s’avedesser de lo ’nganno,
2050
Tutto quel che fatto è sarebbe nulla.

SATIRO
Da noi non mancherà che con ingegno
Non sia provisto a ogni possibil cosa.

EGLE
Dunque io me n’andrò dritto a trovarle
E cercherò di porle in danza insieme
2055
Co’ Satirini vostri; voi nascosti
State dietro a questi arbori et il tempo
Pigliatevi a la preda.

SATIRO
Vanne e credi
Che l’ora non veggiàn che ’l fine aggiunga.
Gite voi ne la selva e tutti gli altri
2060
Fate disporre a’ luochi ov’è bisogno;
E dite che si pongan tutti in punto,
Sì ch’al sibilo sol d’uno di noi
Siàn tutti pronti a la parata preda.
Ecco i Satirin vengono e le ninfe;
2065
Egle lor s’appresenta: non fia molto
Ch’avremo ne le mani il nostro bene.

SCENA II

NINFE, EGLE, SATIRI PICCIOLI, SATIRO grande, CORO

NINFE
State sicuri pur d’aver trovato
Un perpetuo riposo.

EGLE
E voi d’avere
L’inciampo ritrovato.

SATIRI PICCIOLI
Certo nulla
2070
Ci par d’aver perduto, tanto amore
Ci avete mostro e tai carezze fatte.

NINFE
Ogni giorno averete maggior segno
Quanto v’amiam, quanto ne siate cari.
Ma vedete Egle vostra.

EGLE
Figli miei,
2075
Come vi contentate de la vita
Di queste vostre madri? Se voi sete
Contenti, ogni dolor da me è fuggito.

SATIRI PICCIOLI
Ci hanno, Egle, queste ninfe tanto amore
Mostrato che, per dirti il vero, mai
2080
Tanto non cen mostraro i padri nostri;
E tanto addolcito have il nostro duolo
L’immensa cortesia di queste ninfe,
Ch’aver non potevam maggior conforto.

EGLE
Io non me ne credetti altro giamai,
2085
Tanto cortesemente i’ vidi accòrvi.

NINFE
Gli ha saputo un po’ strano il bever l’acqua,
Ma nel resto si son così acquetati,
Che parso n’è ch’assai restin contenti
De la compagnia nostra.

EGLE
È de l’etade
2090
Tenera proprio questo, che di mente
L’esca tosto l’amore e tosto l’odio,
Et ami similmente et odii tosto;
E però maraviglia non è s’ora
Si sian scordati questi fanciullini
2095
I padri loro e a amar voi si sian dati,
Voi che vezzo gli fate. Così ancora
Molto non and[e]rà che ’l ber de l’acque
(Posto il vino in oblio) non gli fia noia.

SATIRI PICCIOLI
Anzi insin or non n’è spiacciuto il berne,
2100
E ci sentiam via più leggiadri e snelli,
Che noi non eravam beendo il vino:
Vedete come siamo agili e destri
Su la persona. Se la riverenzia
Che noi portiamo a queste nostre madri
2105
Non s’opponesse al voler nostro, noi
Le chiederemo a far con noi un ballo.

EGLE
E perché ricusar deono lo ’nvito?
Quando son famigliari accolti insieme,
Non si deon vergognar famigliarmente
2110
Prender tra lor con onestà sollazzo;
Però i’ non credo che queste cortesi
Ninfe si sdegnin di danzar con voi.

NINFE
Non già, per nostra fé.

EGLE
Voi fate bene,
Poi che ’l maggior piacer, ch’esser mai possa
2115
Per donna al mondo, voi avete a schivo.

NINFE
E qual è questo?

EGLE
Amare e de lo amore
Goder d’un uom che s’ami.

NINFE
Tu sei pure,
Egle, su le sciocchezze.

EGLE
Anz’io vi dico
Che di ciò non vi vo’ mover parola,
2120
Ma ben vi dico che cosí tra noi
Ci possiam por con questi putti in danza
E sollazzarsi onestamente insieme.

NINFE
Facciam come ti par.

SATIRO
Son quasi al fine
Le cose.

CORO
Vuoi che usciamo?

SATIRO
State cheti,
2125
Non vi scoprite, che non è ancor tempo.

CORO
Ohimè, quando fia l’ora?

NINFE
E come in ballo
Potrem condurci, non vi essendo alcuno
Che tra noi suoni?

SATIRI PICCIOLI
Se fosse tra noi
Fistula alcuna, sonerebbe parte
2130
Di noi e parte si daria a danzare.

EGLE
Ma non sapete voi se sempre meco
Porto le fistole io?

SATIRI PICCIOLI
Dalleci adunque,
Che sonarem.

EGLE
Tenete.

SATIRO
State in punto,
Che ’l tempo vien che se n’entriamo in caccia.

CORO
2135
A l’ordine noi siamo.

EGLE
A coppia, a coppia
Noi entreremo in ballo e le carole,
Come ’l suon chiederà, guiderem tutte.

QUI S’INCOMINCIA IL BALLO

SCENA III

SATIRO, CORO, SILENO, PANE, NINFE, [EGLE, SATIRI PICCIOLI]

SATIRO
State a l’ordine, dico.

CORO
Siàn pur troppo
A l’ordine: non fu mai sì tes’arco!
2140
Questi obietti non son da non destare
Chi neghitoso dorme? Che tardiamo?
Che non lo diamo dentro? Ci sentimo
Mancar la vita.

SATIRO
Non è ancora il tempo
D’uscir, fratelli miei.

CORO
Non veggiàn l’ora
2145
Che possiamo sfogar nostro disio.
Ve’ com’è snella quella vaga ninfa
Ch’ora si ruota: oh che rotonda gamba,
Oh che piè scarno e rotondetto e vago
Sostien quella vitina!

SATIRO
Con che grazia
2150
Move la mia Napea l’un lato e l’altro,
Come s’aggira e come s’alza a tempo,
Come si ferma e, per dir breve, come
Leggiadramente al suon col piè risponde!

CORO
Ma vedi che a noi vien Sileno e Pane.
2155
Pan venir dee per la Siringa sua,
Ma non so a qual fin qui venga Sileno.
Che vi è Sileno?

SILENO
Son venuto anch’io
A veder questa festa.

CORO
Deh sta’ indietro
Con questo asino tuo ne la malora!
2160
Che s’ei ragghiasse siam tutti disfatti.
Non odi tu, Silen?

SILENO
Tu mi vuoi fare
Uscir sì ch’io sia visto? Io quel son stato
C’ho condotta la cosa, e mi volete
Cacciar com’una bestia? I’ voglio andare
2165
Fuor de la selva: va’ inanzi!

PANE
Eh non fare,
Caro Sileno!

SILENO
I’voglio andar; va’ là!
Vo’ che tutti costor paiano bestie.

CORO
Costui è ubriaco.

SATIRO
A punto il vin lavora!

PANE
Non ci turbar, Silen; Silen mio, resta:
2170
Non voler ch’un tuo sdegno ci disfaccia!

SILENO
Per amor tuo mi rimarrò.

PANE
È Siringa
Forse nel ballo?

SATIRO
Ella al fin de la danza
Git’è con l’altre ninfe e con lor siede.

PANE
La veggio: ahi fiera, ahi soperbetta, ahi schifa,
2175
Ahi nemica d’amore e di pietade,
Come mi struggi il cor, come m’ancidi!
Ma che tardiamo più?

SATIRO
Lascia che ’n ballo
Entrin di novo. Ve’ la tua Siringa
Che guida la carola.

PANE
Ohimè che vita!
2180
Ohimè che leggiadria, che movimenti!
Non tardiam più, ch’io me ne moio; ahi lasso,
Io mi dileguo.

CORO
Tempo è di far segno,
Satiro, a gli altri.

NINFE
Avete udito quello
Sibilo?

EGLE
È nulla: fia qualche pastore
Che chiama la sua greggia o chiama i cani.
2185
Seguiamo il ballo.

NINFE
Son quasi rimasa
Fuori di me.

EGLE
Tu temi ben di poco.
Sù a la danza, sonate!

SATIRI PICCIOLI
Noi soniamo.

SATIRO
Ora animosamente tutti a un tratto
Entriam, compagni miei, lieti nel campo,
Che vincitor sarem di questa guerra.

SCENA IIII

NINFE; CORO; PANE; EGLE; SILENO

NINFE
2190
O poverelle noi ninfe, siam morte!
O poverelle noi! Vedete i Fauni,
I Satiri e i Silvani, o triste noi!

CORO
Eh non fuggite, che temete? Siamo
I vostri amanti.

NINFE
Ahi Egle, ohimè malvagia!
2195
O noi semplici e sciocche!

PANE
Eh non fuggire,
Siringa, eh non fuggire!

NINFE
O meschinelle
Che siamo!

CORO
Andate a quel varco! Un di voi:
Piglia questa che vien verso la selva!

NINFE
O noi misere e triste!

CORO
Che tardate?
2200
Correte al bosco!

EGLE
Sù Satir, sù Fauni,
Sù valorosamente! Ben sarete
Così da poco, che fuggiranno anco,
E ne le man le avrete?

NINFE
Ahi malvagia Egle,
Quest’è la fé?

EGLE
Dove ne vai, Sileno?

SILENO
2205
Io vo’ per dar soccorso a’ miei compagni,
Ch’anch’essi m’aiutar, quando io ti tolsi.

EGLE
O che soccorso? Mover non ti puoi,
E gli vuoi dare aiuto?

SILENO
Prender voglio
Questa che viene in qua.

CORO
Tosto, non state,
2210
Satiri, a bada! Sù, picciol fanciulli,
Correr non le lasciate: per la mano
Tenetele, pe’ panni e per le gambe!

SILENO
A questa, a questa, tutti a dosso a questa!

CORO
Ci fuggiran, non state a bada! Al bosco,
2215
Al bosco tutti, ch’elle al bosco vanno!

NINFE
Ohimè dove siam giunte?

SILENO
A dosso, a dosso,
A dosso a questa! Piglia, piglia, piglia!
Egle, che fai? A dosso. Ahi che caduto
Sono e rotto mi son quasi una costa!
2220
Ohimè! et ho fatto nulla, ch’è fuggita.
Ohimè!

EGLE
Tel dissi io ben; sei tu ben atto
Correr dietro a chi fugge! In tua malora,
Tienti al tuo fiasco, che non fugge, e lascia
Correr chi vuol.

SILENO
S’io lo facea per bene.

EGLE
2225
Avresti fatto meglio aver bevuto.
Or levati, se puoi.

SILENO
Dammi la mano,
Aiutami.

EGLE
Vorravvi altro potere
Che ’l mio.

SILENO
Dammi la mano, perché anch’io
Mi sorgerò; son pur risorto alquanto;
2230
Aiutami, Egle, regger non mi posso
Ohimè!

EGLE
Monta a caval: ve’ che allegrezza
Tu mi vuoi dar sta notte: mentre in gioia
Gli altri saran, sarai tu sul dolerti.

SILENO
Non mica: tosto ch’averò bevuto,
2235
Non averò più mal. Volea potere
Dir d’aver fatto qualche cosa anch’io,
Ma non l’ha consentito il mio destino.

SCENA V

SILVANO, PANE

SILVANO
Ogni cosa nel bosco è sottosopra:
Chi corre in qua, chi in là; prendute han molte
2240
Ninfe i compagni miei, ma quelle astute,
Prima che por s’abbin lasciato a dosso
Le man, squarciati s’han da’ corpi i panni
E, lasciate le vesti, così nude
Si sono date a correr per lo bosco.
2245
Nude corron le ninfe e corron nudi
I Dei silvestri, come già i Romani
Ne le feste di Pan correano a Roma:
Onde s’avien che le giungan nel corso,
I’ penso che tra lor non andrà indugio
2250
A giungersi un con l’altro. I più bei corpi
Di donne non vidi unqua: paion proprio
Cose celesti. Se dinanzi forse
Le guato, mi rassembran Citerea,
Se di dietro le miro, un Ganimede;
2255
Cosa non han che biasimar si possa:
Mirinsi pur nel petto o ne la schiena,
Per la mia fé, ch’io non ne so incolpare
I Dei del ciel, s’ardon del loro amore,
Avendole dal ciel tante fiate
2260
Vedute ignude ne le vive fonti.
Ben saranno felici e aventurosi
Que’ Satiri, que’ Fauni e que’ Silvani
Che da le molli e delicate braccia
Saran stretti e legati et accòrranno
2265
Da’ lor soavi fiori il dolce frutto
Che nel ciel potria fare invidia a Giove.

PANE
Aver nemico il cielo e immaginarsi
Poter condurre uno suo effetto al fine!

SILVANO
Che lamentevol voce è questa ch’odo
2270
Uscir del bosco in così gran letizia?

PANE
A chi ciò crede avien quel ch’è aventuto
A gli altri oggi et a me, misero Pane:
O Pan tristo e ’nfelice, o Pan dolente,
A che termine sei?

SILVANO
Egli mi pare
2275
Pane che si lamenti: e che può avere
Egli di tristo, essendo ogniuno in gioia?

PANE
O doloroso Pane, hai pur perduto
Quanto di bene avevi!

SILVANO
Che ci è, Pane?

PANE
Potrai pur poverello a voglia tua
2280
Gir per le selve senza aver sospetto
D’offender la tua ninfa.

SILVANO
Che avenuto
T’è di dolente, Pan, che sì ti dogli?

PANE
Ohimè, Silvano, ohimè, tra queste selve,
Selve già di piacere e di diletto,
2285
Non fu giamai cagion di maggior pianto;
Ov’esser credevam lieti e felici,
I più miseri siam che fossero unqua.

SILVANO
Tu mi togli la vita, Pan: ch’è questo
Che tu mi di’? Quando pensar più debbo
2290
Vedervi lieti, s’oggi sete tristi?

PANE
Avenuta, Silvan, ciè cosa tale,
Che fin che avranno mai fronde le selve,
Sempre tristi sarem, sempre dolenti.

SILVANO
Deh fa’ ch’io sappia, Pan, che cosa è questa.

PANE
2295
Silvano, non voler, se m’ami, udire
L’infelicità nostra e ’l nostro affanno,
Che ’ncredibile angoscia avrai a udirlo.

SILVANO
I’ non posso sentir doglia maggiore
Di quella ch’or per voi il cor mi preme;
2300
Però non mi tener or più sospeso.

PANE
Mentre, Silvan, le nostre care ninfe
(Ch’io pur lo ti dirò, poi che ’l ricerchi)
Noi seguivamo per l’ombrosa selva,
A guisa che seguia già Febo Dafne,
2305
E già ci credevamo averle in braccio,
Fuggiron tutte in varii luochi: alcune
A radici de’ monti, altre a le rive
De’ vivi fiumi, altre a le dense piante,
La folta de le quai lor tolse il corso;
2310
Altre vedemmo tra vermigli e gialli
Fiori cadute, u’ la volubil erba
Le legò i piedi, sì che sen caddero.
Alora i Fauni, i Satiri, i Silvani,
Credendo aver la preda in man sicura,
2315
Si tennero padron de le lor ninfe.
Ahi speme vana e ben folle pensiero!
Ahi nemica fortuna a i bei desiri!
Ma così tosto che le furon presso
(Cosa io ti dirò ch’a pena i’ posso
2320
Crederla a me medesmo, e pur l’ho vista),
Altre divenner fiumi, altre ne’ monti
Restaro sì che non si videro, altre
Divenner fior ne la minuta erbetta.

SILVANO
Ahi che mi di’ tu, Pan? Che maraviglie
2325
Son queste ch’i’ odo?

PANE
Io non ti mento punto.
Ne furono alcun’altre in questo tempo,
I piedi de le quai furon pur dianzi
Sì veloci a fuggir, che su la terra
Fermar le piante et ivi fer radici,
2330
E unir si vider le lor gambe in tronco
E coprirlesi il petto di corteccia
E trasformarsi le lor braccia in rami
E le chiome, già d’oro, un verdi fronde.
Ne vidi alcune trasformarsi in vite,
2335
E ’n tanto ch’io l’ho detto, su per gli olni
Le braccia aviticchiar lente e distorte
E, per non dir minutamente il tutto,
Foron tutte mutate in varie forme.
Onde si vede in varii luochi al bosco
2340
Alcun de’ nostri lamentarsi a un faggio
E de le frondi sue farsi corona;
Altri abbracciare un fico, altri una quercia
E creder pur d’aver l’amata in braccio;
Altri a la scorza d’un castagno dare
2345
Con pianto grave affettuosi basci;
Alcuno altro dolersi a’ piè d’un salce
E bramar di morir sotto quell’ombra;
Alcuni accrescer con amaro pianto
Le lucid’onde al rio, nel qual veduta
2350
Avevan trasformar l’amata ninfa;
Altri versar da gli occhi un largo fonte
E ’nacquar le radici di que’ fiori
In che le ninfe lor s’eran converse;
Alcun altri bramar veder Medusa,
2355
Per potersi mutare in duro sasso
E star sasso nel monte appresso a quella
Ninfa che l’avea fatto il cor di pietra.

SILVANO
Non credo mai che ’n un sol giorno tante
Mutazion fosser vedute.

PANE
A nostro
2360
Danno servate son le maraviglie
Insino a questi giorni, perché sempre
Miseri siamo et io via più d’ogniuno
Languisca sempre e mi tormenti sempre.

SILVANO
Perc’hai tu, Pan, maggior de gli altri doglia?
2365
Perché quant’era la Siringa mia
D’ogni ninfa più bella, anco maggiore
Era il mio fuoco, ond’io mi doglio tanto,
Quanto era bella e quanto io già l’amai.

SILVANO
Deh dimmi, Pan, che avenut’è di lei?

PANE
2370
O sventurato me! Dopo ch’io vidi
Mutate l’altre ninfe in varie forme,
Anch’io temei che ciò non avenisse
A la Siringa mia: però mi diedi
Con più veloce corso a seguitarla;
2375
Ella, fugace più che leggier cervo,
Si diè a fuggir così velocemente,
Ch’avria potuto gir sovra le spiche
E non ne premer una. Ora nel corso
Giunse al fiume Ladone e non potendo
2380
Andar più là, veggendo me che lei,
Correndo a più poter, ratto seguia,
Pregò la deità del vivo fiume
Che le porgesse aiuto, sì che fosse
Salva l’onestà sua; vi giunsi io in tanto,
2385
Et essendole già tanto vicino,
Ch’io le spargea col fiato mio le chiome,
E stendendo, per prenderla, la mano,
Ohimè la vidi, ohimè Silvano, ohimè,
A pena il posso dir, mutarsi in canna.

SILVANO
2390
Né lo posso udir io senza gran doglia,
E testimon ten faccia il pianto mio.
Ma che stormento è questo che ti pende
A lato?

PANE
Ohimè, ch’io vo’ sempre aver questo
Per la più cara cosa ch’al mondo abbia.

SILVANO
2395
E perché, Pan?

PANE
Perché di quella canna,
In che mutata s’è la mia Siringa,
Composta i’ l’ho, per isfogar col suo
Suon la mia doglia e ’l mio angoscioso affanno.

SILVANO
E come in cor ti venne di comporre
2400
Tanti calami in un?

PANE
Non fu mutata
Così tosto Siringa che, spirando
Soave Zefir dolcemente, un suono
I’ senti’ uscir da le nodose canne,
E mi parve la voce di Siringa
2405
Che si dolesse che mi fusse suta
Tanto crudel, mentre poteva amarmi.
Onde in memoria de l’amata ninfa,
Dopo un grave lamento e un duro pianto,
Composi questa fistula che ’l nome
2410
Sempre otterrà de la Siringa mia,
Con la qual risonar farò ogni selva
Del caro nome suo, del mio dolore.

SILVANO
Felice sei tu, Pan, appresso gli altri,
Perché con Ega, tua antica mogliera,
2415
In parte sfogar puoi l’acerba doglia;
Ma gli altri poverelli, che non hanno
Rifugio alcun, si pon ben chiamar tristi.

PANE
Ohimè, caro Silvan, tanto più d’Ega
Era bella costei, quanto più belli
2420
Son gli amaranti de’ minori fiori.

SILVANO
Et io ti dico, Pan, ch’è più bell’Ega
In questa età, che mai non fu Siringa
Nel più bel fior de’ suoi fioriti anni.

PANE
Non più, Silvan, che tu m’accresci doglia.
2425
Vien meco, entra nel bosco a veder gli altri.

SILVANO
Entra, ch’anch’io di subito ti seguo.
Non si dee desiar cosa che neghi
Il ciel, né cosa a l’onestà contraria:
Che non se può veder felice fine.

IL FINE

DEDICAZIONE

ErrorMetrica
2430
Questa corona di silvestri fiori,
Colti con rozza man nel più selvaggio
Luoco d’Arcadia, appendo a questo faggio,
Ad onor de le ninfe e d’i pastori
Non sia mai fatta froda o fatt’oltraggio,
2435
Ch’accolgan così il don ch’offerto i’ l’aggio,
Ch’altri si desti a’ suoi pregi maggiori.
Che s’averrà che con più dotta mano
Corone alcun gli tessa o che dimostri
A qualche meglior via la virtù loro,
2440
Spero, et il mio sperar non sarà vano,
Che ’l nome pastorale a’ tempi nostri
Tal fia, qual fu già ne l’età de l’oro.