William Shakespeare, The Tragedy of Romeo and Juliet

Romeo e Giulietta





Texto utilizado para esta edición digital:
Shakespeare, William. Romeo e Giulietta. Tradotto da Cino Chiarini. Firenze: Sansoni, 1939.
Adaptación digital para EMOTHE:
  • Ureña Tormo, Clara

PERSONAGGI DEL DRAMMA

Della Scala Principe di Verona.
Paride giovane gentiluomo, parente del Principe.
Montecchi Capuleti capi di due famiglie in guerra fra di loro.
Zio del Capuleti.
Romeo figlio del Montecchi.
Mercuzio parente del Principe e amico di Romeo.
Benvolio nipote del Montecchi, e amico di Romeo.
Tebaldo nipote di Donna Capuleti.
Un vecchio , della famiglia Capuleti.
Frate Lorenzo , francescano.
Frate Giovanni , dello stesso ordine.
Baldassare , servo di Romeo.
Sansone. Gregorio , servi del Capuleti.
Pietro , altro servo del Capuleti.
Abramo , servo del Montecchi.
Uno speziale.
Tre sonatori.
Il paggio di Mercuzio.
Il paggio di Paride.
Un ufficiale.
Donna Montecchi , moglie del Montecchi.
Donna Capuleti , moglie del Capuleti.
Giulietta , figlia del Capuleti.
La nutrice di Giulietta.
Cittadini di Verona
Parenti delle due famiglie.
Maschere.
Guardie.
Vigili.
Persone del seguito.

PROLOGO

Entra il Coro.

1Nella bella Verona, dove noi poniamo la nostra scena, per antica ruggine scoppia fra due famiglie di pari nobiltà una nuova rissa, nella quale il sangue civile macchia le mani dei cittadini. Dai fatali lombi di questi due nemici discende una coppia di amanti, nati sotto cattiva stella, le cui sventurate e pietose vicende seppelliscono con la loro morte l’odio dei genitori. I terribili casi del loro amore segnato dalla morte, e l’ira prolungata dei loro genitori, alla quale nulla potrà mettere fine, se non la morte dei figli, sono lo spettacolo che la nostra scena vi offrirà per due ore; se voi vorrete assistere con paziente orecchio, il nostro zelo cercherà di rimediare a quello che vi sarà di deficiente.

(Esce).

ATTO PRIMO

SCENA I.

Piazza pubblica.
Entrano SANSONE e GREGORIO armati di spade e di scudi.

Sansone.
2Gregorio, sulla mia parola, noi non sopporteremo ingiurie, e pagheremo a misura di carbone.

Gregorio.
3No, perchè allora saremmo dei carbonai.

Sansone.
4Voglio dire che se ci monta la rabbia, tireremo fuori la spada.

Gregorio.
5Bravo, finchè vivi, tira sempre fuori il collo dal colletto.

Sansone.
6Io faccio presto a picchiare, quando mi riscaldo.

Gregorio.
7Già, ma non fai presto a riscaldarti per picchiare.

Sansone.
8Un cane di casa Montecchi basta per farmi scattare.

Gregorio.
9Scattare vuol dire moversi, mentre aver coraggio significa star fermo: perciò se tu scatti, finirai per scappar via.

Sansone.
10Un cane di quella casa mi costringerà a star fermo: prenderò la mano del muro a qualunque servo o qualunque serva di casa Montecchi incontrerò.

Gregorio.
11Ciò mostra che tu sei un debole schiavo, perché al muro ci va sempre il più debole.

Sansone.
12È vore; e appunto per questo le donne, essendo più deboli degli uomini, sono messe sempre contro il muro; perciò io caccerò via dal muro i servitori del Montecchi, e pianterò al muro le sue serve.

Gregorio.
13Le serve non c’ entrano: la contesa è fra i nostri padroni e fra noi servitori.

Sansone.
14È tutt’ uno, voglio farla da tiranno: dopo essermi battuto con gli uomini, sarò spietato con le ragazze; voglio rompere a tutte... la testa.

Gregorio.
15La testa alle ragazze?

Sansone.
16Sí la testa delle ragazze: via, prendilo nel senso che tu vuoi.

Gregorio.
17Loro che lo sentiranno, devono prenderlo nel vero senso.

Sansone.
18Sentiranno me, finchè avrò forza di star ritto: e via, si sa che io sono un discreto boccon di carne.

Gregorio.
19Buon per te che non sei pesce, altrimenti saresti stato un baccalà. Tira fuori la spada, ecco qualcuno di casa Montecchi.

Entrano ABRAMO e BALDASSARE.

Sansone.
20La mia lama è fuori: attaca pure briga; lo ti spalleggierò.

Gregorio.
21In che modo? Voltando le spalle e scappando?

Sansone.
22Non aver paura di me.

Gregorio.
23No, per Dio! Io aver paura di te?

Sansone.
24Teniamoci dalla parte della legge: lasciamo che siano i primi loro.

Gregorio.
25Passando vicino a loro io aggrotterò le ciglia: se la prendano un po’ come vogliono.

Sansone.
26No, come avranno il coraggio. Io li guarderò mordendomi il pollice; è un’ offesa, per loro, se se la tengono.

Abramo.
27Signore, vi mordete il pollice per noi?

Sansone.
28Io mi mordo il pollice, signore.

Abramo.
29Vi mordete il pollice perché passiamo noi, signore?

Sansone.
30La legge è dalla parte nostra, se dico di sí?

Gregorio.
31No.

Sansone.
32No, signore, non mi mordo il pollice per voi; ma io mi mordo il pollice, signore.

Gregorio.
33Avete l’ intenzione di attaccar briga, signore?

Abramo.
34Attacer briga, signore! No, signore.

Sansone.
35Se l’ aveste, signore, sono a vostra disposizione: io servo un padrone, che vale quanto il vostro.

Abramo.
36Ma non di piú.

Sansone.
37Ebbene, signore.

Gregorio.
38Digli che vali di piú: è qui un parente del padrone.

Sansone.
39Sí, vale piú del vostro, signore.

Abramo.
40Tu menti.

Entra BENVOLIO.

Sansone.
41Fuori le spade, se siete uomini. Gregorio, ricordati del tuo colpo da smargiasso.

(Si battono).

Benvolio.
42Separatevi, insensati! Giú quelle spade; voi non sapete quello che fate.

(Costringendoli ad abbassare le armi).
Entra TEBALDO.

Tebaldo.
43Come, hai tirato fuori la spada in mezzo a questi vili cerbiatti? Volgiti, Benvolio, e guarda in faccia la tua morte.

Benvolio.
44Io non fo che metter pace: riponi la tua spada, o impugnala per aiutarmi a separare costoro.

Tebaldo.
45Come! Hai la spada in mano, e parli di pace? Io odio questa parola come l’inferno, come te e tutti i Montecchi. A te, vigliacco!

(Si battono).
Entrano parecchi partigiani delle due famiglie, i quali prendono parte alla rissa; poi sopraggiungono dei cittadini armati di mazze.

Primo Cittadino.
46Delle mazze! Delle picche! Delle partigiane! Picchiate! Accoppateli! Morte ai Capuleti! Morte ai Montecchi!

Entrano il CAPULETI, in veste da camera, e DONNA CAPULETI.

Capuleti.
47Che cos’è questo baccano? Datemi la mia spada grande, olà!

Donna Capuleti.
48Una gruccia, una gruccia piuttosto. Che cosa volete farne della spada?

Entrano il Montecchi e Donna Montecchi.

Capuleti.
49La mia spada, dico! Il vecchio Montecchi è qua, ed agita la sua spada per provocare me.

Montecchi.
50Miserabile Capuleti! – Non mi tenere! Lasciami andare.

Donna Montecchi.
51Tu non moverai un passo per andare incontro a un enemico.

Entra il PRINCIPE col suo seguito.

Principe.
52Sudditi rebelli, nemici della pace, che profanate cotesta spada, rossa di sangue cittadino... Ah! Non mi dànno retta! Dico a voi, non uomini, ma belve, che volete spengere il fuoco del vostro cieco furore, facendo scorrere dalle vene vostre dei rivi vermigli di sangue! Pena la tortura, gettate dalle sanguinose mani il mal temprato ferro, ed ascoltate il vostro sdegnato principe. È già la terza volta che voi, vecchio Capuleti, e voi Montecchi, per una vana parola, turbate con le vostre risse la quiete delle nostre contrade, e costringete fino i vecchi di Verona a lasciare le vesti che alla loro età si convengono, e ad impugnare con la mal ferma mano le vecchie daghe arrugginite nella pace, per separare voi arrugginiti nell’ odio. Se un’ altra volta oserete turbate in questo modo le nostre contrade, vi farò pagare con la vita l’infrazione alla pace. Per oggi vada cosí. Via tutti di qua: voi, Capuleti, seguitemi, e voi, Montecchi, stasera vi troverete al vecchio castello di Villafranca, dol’ è il nostro tribunale ordinario, e là saprete la mia risoluzione in proposito. Via tutti di qua, ripeto, pena la morte.

(Escono il PRINCIPE e il suo seguito; il CAPULETI, DONNA CAPULETI, TEBALDO, i cittadini e i servi).

Montecchi.
53Chi ha riacceso questa vecchia lite? Parlate nipote mio, eravate qui quando è incominciata la rissa?

Benvolio.
54Prima che io mi fossi avvicinato, i servitori del vostro avversario si erano già acciuffati coi vostri. Io ho tirato fuori la spada per separarli: in quell’ istante è sopraggiunto il focoso Tebaldo con la spada sguainata; e sussurrandomi agli orecchi parole di sfida, ha incominciato a rotarla intorno alla sua testa e a tagliare il vento, il quale senza essere ferito gli fischiava intorno beffandosi di lui. Mentre noi ci scambiavamo bòtte e colpi, la gente han incominciato ad accorrere sempre piú numerosa, e ad accapigliarsi in una mischia generale, finché è giunto il principe, il quale ha diviso le due parti.

Donna Montecchi.
55O, dov’ è Romeo? L’avete veduto oggi? Sono molto contenta che non si sia trovato a questa rissa.

Benvolio.
56Madonna, un’ ora prima che il divino sole si affacciasse al dorato balcone d’oriente, una momentanea tristezza mi spingeva ad uscire di casa; e sotto il piccolo bosco di sicomori, che crece ad occidente lungo il fianco della città, ho veduto il figlio vostro, il quale passeggiava cosí a buon’ ora. Ho fatto per andargli incontro, ma egli si era già accorto della mia presenza, ed à scomparso nel folto del bosco. Io, misurando la sua tristezza dalla mia, la quale cercava molto sollievo là dove molto non se ne poteva trovare, poiché ne avevo anche troppo della mia annoiata persona, ho seguito i miei tristi pensieri senza occuparmi dei suoi, e volentieri ho schivato chi mi sfuggiva.

Montecchi.
57Molte mattine è stato veduto là, che accresceva con le sue lacrime la fresca rugiada del mattino, che aggiungeva nubi alle nubi coi suoi profondi sospiri; ma non appena il sole che tutto rallegra, comincia nelle piú lontane plaghe d’oriente a tirare le fosche cortine del letto dell’Aurora, l’oppresso mio figlio fuggendo la luce, corre a nascondersi in casa, si imprigiona nella sua camera, chiude le finestre, mette il chiavistello alla bella luce del giorno, e si fa una notte artificiale. Questo umor tetro gli sarà fatale, se qualche buon consiglio non riesce ad allontanarne la cagione.

Benvolio.
58Mio nobile zio, sapete quale sia la cagione?

Montecchi.
59Non lo so, né posso saperlo da lui.

Benvolio.
60Avete cercati di metterlo alle strette in qualche modo?

Montecchi.
61Ho provato io, hanno provato molti amici: ma egli non ha altro confidente delle sue pene che sé medesimo (non dirò quanto fedele); ed è chiuso cosí impenetrabilmente in sé stesso, e si lascia cosí difficilmente scandagliare e spiare, come il boccio di un fiore, morso da un invido verme prima di poter dischiudere all’ aria le sue dolci foglie, ed offrire al sole tutta la sua bellezza. Se si potesse sapere solamente donde hanno origine gli affanni suoi, saremmo altrettanto desiderosi di guarirli quanto di conoscerli.

Entra ROMEO, in distanza.

Benvolio.
62Guardate, eccolo qui che viene: se non vi dispiace, ritiratevi in disparte; io saprò ciò che l’addolora, o egli dovrà dirmi di no piú di una volta.

Montecchi.
63Ti auguro di essere cosí fortunato, restando qui, da sentire una sincera confessione. Venite, madonna, andiamo via.

(Escono).

Benvolio.
64Buon giorno, cugino.

Romeo.
65È ancora cosí presto?

Benvolio.
66Son sonate le nove solo da poco.

Romeo.
67Oimè! Le ore tristi sembrano eterne. — Era mio padre quello che se n’è andato di qua cosí in fretta?

Benvolio.
68Sí, era lui. — Quale dolore fa cosí lunhe le ore di Romeo?

Romeo.
69Non aver quello il cui posssesso le renderebbe brevi.

Benvolio.
70Sei innamorato?

Romeo.
71Non sono...

Benvolio.
72Non sei innamorato?

Romeo.
73Non sono nelle grazie di colei che amo.

Benvolio.
74Oimè, perché amore, il quale ha un aspetto cosí gentile, deve essere, alla prova, cosí tiranno e villano!

Romeo.
75Oimè, perché amore, il quale è sempre bendato, deve vedere, senza gli occhi, i sentieri che menano ai suoi capricci! — Dove pranzeremo? — Povero me! Che rissa c’è stata qui? Ma no, non importa che tu me lo dica, perché ho saputo tutto. Qui c’è un gran da fare con l’odio, ma piú ancora con l’amore. O amore iracondo! O odio amoroso! O tutto creato dal nulla! O grave leggerezza! O vanità seria! Informe caos di leggiadre forme! Piuma di piombo! Raggiante fumo! Gelido fuoco! Inferma salute! Vigile sonno che non è ciò che è! Ecco l’amore che io sento, senza sentire nulla che sia amore! — E tu non ridi?

Benvolio.
76No, cugino, io piango, piuttosto.

Romeo.
77Cuore gentile, perché?

Benvolio.
78Perché il tuo cuore gentile è oppresso.

Romeo.
79Ebbene, è questa la dura legge dell’amore. — Le mie pene mi gravano il petto abbastanza; tu le farai traboccare aggiungendovi il peso delle tue: poiché questo affetto che mi dimostri, non fa che aggiungere nuovo dolore al mio già troppo grande. — L’amore è una nebbia formata col vapore dei sospiri: se la nebbia si dissipa, l’amore è un fuoco che sfavilla negli occhi dell’amante; se contrarî venti l’addensano, l’amore si risolve in un mare alimentato dalle lacrime dell’amante. Che cos’ altro è l’amore, se non una pazzia molto discreta, un’amarezza che soffoca, e una dolcezza che fa bene? — Addio, cugino.

(Andandosene).

Benvolio.
80Adagio! Ti accompagno: se mi lasci cosí, mi fai un torto.

Romeo.
81Toh! mi sono smarrito: io non sono mica qui. Questo non è Romeo, Romeo è altrove.

Benvolio.
82Dimmi con serietà chi è colei che ami.

Romeo.
83Come con serietà! Devo mettermi a piangere per dirtelo?

Benvolio.
84Piangere! ecco, no; ma dimmi con serietà chi è.

Romeo.
85Di’ a un ammalato di fare con serietà il suo testamento: oh, male rivolta parola ad uno che sta cosí male! In serietà cugino, io amo una donna.

Benvolio.
86Coglievo presso a poco nel segno, quando pensavo che tu fossi innamorato.

Romeo.
87Sei un abilissimo tiratore! — E colei che io amo è bella.

Benvolio.
88Un bel bersaglio è presto colpito cugino bello.

Romeo.
89Ebbene, questa volta il tuo colpo fallisce: lo strale di Cupido non può colpirla; essa ha il senno di Diana, e ben chiusa, com’ è, in una forte corazza di castità, vive al sicuro dall’ innocuo e infantile arco d’Amore. Essa fugge l’assedio delle dolci parole, schiva l’incontro degli occhi che tentano di darle l’assalto, e non apre la porta del suo cuore neppure all’oro, che seduce anche i santi: oh! Ella è ricca di bellezza, ed è povera solo in questo, che quando morirà, moriranno insieme con la sua bellezza anche le sue ricchezze.

Benvolio.
90Dunque ha fatto voto di castità?

Romeo.
91L’ha fatto, e con questa economía fa uno sperpero immane: poiché la bellezza, privata, dalla sua austerità, del nutrimento d’amore, perirà defraudando i posteri di ogni bellezza. Essa è troppo bella, troppo savia, troppo saviamente bella, per guadagnarsi la beatitudine celeste facendo disperare me; ha fatto voto di non amare, e quel voto mi uccide lasciandomi vivere, poiché io vivo per dirti ora ciò.

Benvolio.
92Segui il mio consiglio, cessa di pensare a lei.

Romeo.
93Oh! insegnami come posso cessar di pensare.

Benvolio.
94Rendendo la libertà agli occhi tuoi: contempla altre bellezze.

Romeo.
95Sarebbe il mezzo di occuparsi sempre piú di quella sua, che è squisita. Le fortunate maschere che baciano le fronti delle belle donne, col loro color nero ci richiamano sempre piú alla mente la bellezza ch’esse nascondono: chi è colpito da cecità non può dimenticare il prezioso tesoro della vista perduta. Mostrami una donna di straordinaria bellezza: che cosa sarà per me questa sua bellezza, se non una pagina, dove io leggerò il nome di colei che è ancora piú straordinarimente bella? Addio; tu non puoi insegnarmi a dimenticare.

Benvolio.
96 (Escono). Io ti insegnerò questo segreto, o morirò con un debito sulla coscienza.

SCENA II.

Una strada.
Entrano il vecchio CAPULETI, PARIDE, e un SERVO.

Capuleti.
97Ma il Montecchi è condannato come me, ed alla stessa pena; del resto io credo che per due vecchi come noi, non sarà difficile mantenere la pace.

Paride.
98Siete tutti e due persone ragguardevoli; ed è doloroso che siate vissuti in discordia per cosí lungo tempo. Ma ditemi ora, signor mio, che cosa avete da rispondere alla mia domanda?

Capuleti.
99Non posso fare altro, che ripetervi quello che vi ho già detto prima: mia figlia è ancora inesperta del mondo; non ha compiuto quattordici anni: prima che noi possiamo giudicarla matura per le nozze, las ciamo che l’estate appassisca ancora due volte nella sua superba bellezza.

Paride.
100Giovinette che hanno meno di lei sono già madri felici.

Capuleti.
101Sí, ma quelle che vanno a marito cosí presto, perdono troppo presto la freschezza della gioventú. La terra ha inghiottito tutte le mie speranze, e non mi ha lasciato che lei; in lei è riposta ogni mia speranza sulla terra. Intanto coreteggiatela, gentile l’aride, conquistate il suo cuore: la mia volontà non è che una parte del suo volere. Se essa è contenta di sposarvi, la sua scelta sarà per voi, nello stesso tempo, il mio consenso e la dolce parola che ve lo accorda. Stasera in casa mia c’è la festa che io sono solito dare per antica consuetudine, alla quale ho invitato molti amici che mi son cari: voi sarete fra questi, ed accrescerete il numero dei miei invitati, di uno che sarà graditissimo. Nella mia povera casa potrete contemplare gli astri che passano sulla terra, e col loro splendore dànno al buio cielo della notte la luce del giorno. In mezzo ai freschi bocci di rosa femminili che troverete in casa mia, stasera vi sarà concesso di godere quel diletto medesimo, che provano i baldi giovani, allorché l’aprile dalla smagliante veste è alle calcagna dell’inverno zoppicante. Parlate con tutte, guardatele tutte, e amate quella che per merito vi parrà superiore alle altre. Fra le tante fanciulle che vedrete, vi sarà anche la mia, poiché sebbene sia nulla in quanto al merito, può contare come una, per far numero. Andiamo, venite con me. — (Al servo) Tu, mariolo, va’, percorri le vie della bella Verona; cerca delle persone il nome delle quali è scritto qui (Dandogli un foglio), e di’ loro che la mia casa e la mia buona accoglienza sono a loro disposizione.

(Escono il vecchio Capuleti e Paride).

Servo.
102«Cerca delle persone il nome delle quali è scritto qui?» — È scritto che il calzolaio debba maneggiare il metro, il sarto la forma delle scarpe, il pescatore il pennello, e il pittore le reti: io, invece, sono mandato a cercare le persone, il nome delle quali è scritto in questo foglio, mentre non sarò mai buono a leggere, che nomi vi abbia scritto chi l’ha scritto. Bisogna che mi rivolga a qualche persona istruita. Alla buon’ ora!

Entrano BENVOLIO e ROMEO.

Benvolio.
103Via, amico mio, un fuoco con le sue fiamme consuma l’altro, un dolore è attenuato dall’ angoscia in cui ci mette un altro; quando a girare in un senso ti prende il capogiro, ti passa girando nel senso contrario: fa’ bere al tuo occhio avvelenato dall’ amore un nouvo veleno, e sarà distrutta l’azione inveterata di quello antico.

Romeo.
104La tua foglia di piantaggaine è un ottimo rimedio per questo.

Benvolio.
105Per che cosa, ti prego?

Romeo.
106Per accomodarti uno stinco se l’ hai rotto.

Benvolio.
107Via, Romeo, sei pazzo?

Romeo.
108Non sono pazzo, eppur legato peggio di un pazzo, chiuso in prigione, tenuto senza mangiare, frustato, torturato! e... (Al servo). Buon giorno, ragazzo mio.

Servo.
109Che Dio lo dia buono a voi. Scusate, signore, sapete leggere?

Romeo.
110Sí, la mia sorte nella mia infelicità.

Servo.
111Forse non avrete avuto bisogno di libri per conoscerla: ma, vi prego, sapete leggere qualunque cosa vedete?

Romeo.
112Sí, se si tratta di un alfabeto e di una lingua che io conosco.

Servo.
113Dite bene: state allegro!

Romeo.
114Fermati, giovanotto; so leggere. (Legge). «Il signor Martino con la moglie e le figlie; il conte Anselmo e le sue belle sorelle; la signora vedova di Vitruvio; il signor Piacenzo con le sue amabili nipoti; Mercuzio e suo fratello Valentino; mio zio Capuleti con la moglie e le figlie, la mia bella nipote Rosalina; Livia; il signor Valente e suo cugino Tebaldo; Lucio e la vivace Elena». Una bella comitiva: e dove debbono andare?

Servo.
115Su.

Romeo.
116Dove?

Servo.
117A cena in casa nostra.

Romeo.
118In casa di chi?

Servo.
119Del mio padrone.

Romeo.
120È vero, avrei dovuto incominciare a domandarti questo.

Servo.
121Ve lo dirò ora, senza che me lo domandiate: il mio padrone è il nobile e ricco signor Capuleti; e se non siete uno di casa Montecchi, vi prego, venite a bere un bicchiere di vino. State allegro!

(Esce).

Benvolio.
122A questa stessa festa che i Capuleti dànno per antica consuetudine, va a cenare, con tutte le bellezze piú ammirate di Verona, anche la bella Rosalina della quale tu sei cosí innamorato: recati là, e con occhio imparziale, paragona il suo viso a quello di qualche altra fanciulla che io ti mostrerò, e ti farò convenire che il tuo cigno è un corvo.

Romeo.
123Se la devota religione del mio occhio proclamasse una simile falsità, le mie lacrimesi convertano in fiamme! E questi eretici trasparenti, che tante volte annegati nel pianto non poterono mai morire, siano abbruciati come impostori! Un’ altra piú bella dell’ amor mio! Il sole che tutto vede, non ha veduto mai la sua eguale, da che il mondo ebbe principio.

Benvolio.
124Sfido! Ti par bella perché non l’hai vista in mezzo ad altre, e perché nelle due bilance degli occhi tuoi essa è stata pesata sempre da sé sola. Ma metti, in coteste bilance di cristallo, da una parte l’amor tuo, e dall’altra qualcuna delle fanciulle che ti farò veder brillare alla festa, e ti parrà appena mediocre, colei che ora ti sembra la piú bella.

Romeo.
125Vi andrò, non perché mi sia mostrata la bellezza che tu vanti, ma per bearmi nello splendore della fanciulla mia.

(Escono).

SCENA III.

— Una stanza in casa Capuleti.
Entrano MADONNA CAPULETI e la NUTRICE.

Donna Capuleti.
126Nutrice, dov’è mia figlia? Chiamala, che venga qui.

Nutrice.
127Eppure, le avevo già detto di venir qua, com’è vero che a dodici anni ero vergine! Ebbene, agnellina mia! Come mai, farfalla mia! Dio non voglia! Dov’è questa benedetta bambina? Ebbene, Giulietta!

Entra GIULIETTA.

Giulietta.
128Che c’è? Chi mi chiama?

Nutrice.
129Vostra madre.

Giulietta.
130Eccomi, madre mia, che cosa volete?

Donna Capuleti.
131Ecco di che cosa si tratta: — Nutrice, lasciaci per un momento, dobbiamo parlare in segreto... Torna pure qua, nutrice, ora che ci ripenso è bene che tu sia presente al nostro colloquio. Tu sai che mia figlia ha ormai una certa età?

Nutrice.
132In fede mia, potrei dirvi la sua età senza sbagliare di un’ ora.

Donna Capuleti.
133Non ha ancora quattordici anni.

Nutrice.
134Ci scommetterei quattordici dei miei denti, — e tuttavia, sia detto con gran dolore, non ne ho che quattro — che essa non li ha ancora quattordici anni. Quanto c’è di qui al ferragosto?

Donna Capuleti.
135Una quindicina di giorni, o poco piú.

Nutrice.
136Sia piú, sia meno, quando di tutti i giorni dell’anno verrà il primo di agosto, la notte di quel giorno essa avrà quattordici anni. Susanna e lei — Dio riposi in pace tutte le anime cristiane! — erano della stessa età: bene, Susanna è con Dio; era troppo buona per me: — ma, come dicevo, la nottedi ferragosto essa avrà quattordici anni; li avrà, in fede mia: me ne ricordo bene. Sono ormai passati undici anni dal giorno di quel famoso terremoto; e lei fu divezzata — non lo dimenticherò mai — proprio in quel giorno: perché io allora mi ero messsa dell’assenzio al capezzolo, e stavo al sole, appoggiata al muro sotto la colombaia; il padrone e voi eravate allora a Mantova: — èh! io ho un cervello che mi serve: — ma, come dicevo, quando assaporò l’assenzio che era al capezzolo della poppa, e lo sentí amaro, bisognava vederla, la pazzerella, che bizza, e come se la prese con la poppa! Moviti, fece a un tratto la colombaia: vi assicuro che non ci fu bisogno che qualcuno mi dicesse di scappare. E da allora sono passati undici anni, perché essa stava già ritta da sé; non solo, per la croce, ma correva e zampettava da per tutto, tant’è vero che il giorno prima s’era fatta un corno sulla fronte; e allora mio marito — Dio salvi l’anima sua! era un uomo allegro — rizzò la bambina e disse: «Come, caschi bocconi? Quando sarai piú furba, imparerai a cascare supina, non è vero Giulietta?» fece lui, e la pazzerella smesse di piangere e disse: «Sí».

Donna Capuleti.
137Basta; ti prego, sta’ zitta.

Nutrice.
138Sí, signora. Ma non posso tenermi dal ridere quando penso che s’ebbe a chetare per dire «Sí»: e tuttavia, garantisco, aveva sulla fronte un nòciiolo grosso come il fagiolo di un galletto; era stato un colpo tremendo, e piangeva dirottamente. «Come», fece mio marito «tu caschi bocconi? Quando sarai piú grande, imparerai a cascare supina, non è vero Giulietta?» Lei si chetò, e disse: «Sí».

Giulietta.
139E chetati anche tu, fammi il piacere, nutrice, dico io.

Nutrice.
140Un po’di pazienza, ho finito. Iddio ti abbia nella sua grazia! Tu sei stata la piú graziosa bambina che io abbia mai allattato: se potrò vivere fino a vederti un giorno maritata, non avrò altro a desiderare.

Donna Capuleti.
141Affé! Questa del maritarla è appunto la cosa di cui io voglio parlare. Dimmi, Giulietta mia, che cosa ne pensi? Sei disposta a maritarti?

Giulietta.
142È un onore che io non sogno nemmeno.

Nutrice.
143Un onore? Se non ti avessi allattata io sola, direi che tu insieme col latte hai succhiato dalla poppa il giudizio.

Donna Capuleti.
144Ebbene, è ora che tu pensi a maritarti; qui in Verona ci sono delle piú giovani di te, signore molto stimate, già divenute madri. Se non mi sbaglio nel conto, io stessa all’età in cui tu sei ancora fanciulla, ero già tua madre. Ecco, in una parola, di che cosa si tratta: il nobile Paride ti chiede in isposa.

Nutrice.
145Un uomo, signorina! un uomo, signorina, che tutto il mondo... Insomma, è un uomo fatto in cera!

Donna Capuleti.
146L’estate di Verona non ha un fiore cosí bello.

Nutrice.
147Già, è un fiore; davvero, è proprio un bel fiore.

Donna Capuleti.
148Che ne dici? Senti di poter amare quel gentiluomo? Questa sera lo vedrai alla nostra festa: leggi sul volume della faccia del giovine Paride, e cerca la felicità che in esso ha scritto la penna della bellezza; esamina ad uno ad uno tutti i lineamenti, e osserva come l’uno faccia felice l’altro; se qualche cosa c’è di oscuro in quel bel volumen, cercane un commento nel margine degli occhi suoi. Questo prezioso libro d’amore, questo amante non legato, non ha bisogno che di una legatura per diventare ancora piú bello: il pesce vive nel mare; ed è un gran vanto per il bello esteriore, nascondere il bello interiore. Agli occhi di molti, solamente quel libro ha una parte della gloria di ciò che esso contiene, il quale racchiude il suo prezioso scritto in fermagli d’oro. Cosí tu facendolo tuo, parteciperai di tutto ciò che egli possiede, senza diminuire in niente te stessa.

Nutrice.
149Che diminuire! anzi si farà più grossa: le donne ingrossano accanto agli uomini.

Donna Capuleti.
150Dillo francamente, senti di potere corrispondere all’amore di Paride?

Giulietta.
151Mi proverò a guardarlo, per far sí che mi piaccia, se pure è possibile che il guardare faccia nascere la simpatia: ma gli occhi miei non lanceranno i loro sguardi con maggior coraggio di quello, che il vostro permesso dia loro forza di avere.

Entra un SERVO.

Servo.
152Signora, gli invitati son giunti, la cena è servita, tutti chiedono di voi, domandano della signorina, giú in dispensa bestemmiano contro la nutrice, e tutto va a rotta di collo! Io devo andare a servire a tavola, vi prego, venite subito.

Donna Capuleti.
153Eccoci, vi seguiamo. Giulietta, il conte attende.

Nutrice.
154Va’, fanciulla, e procura ai tuoi giorni felici delle felici notti. (Escono).

SCENA IV.

— Una strada.
Entrano ROMEO, MERCUZIO, e BENVOLIO, insieme con cinque o sei maschere, uomini con fiaccole, ed altri. ROMEO è mascherato da pellegrino.

Romeo.
155Dunque questo discorso per scusarci si fa, o entriamo senza tante scuse?

Benvolio.
156Il tempo di queste lungagnate è finito. Non vogliamo con noi nessun Cupido bendato con la sciarpa, e con l’arco alla tartara di legno tinto, che spaventi le signore come uno spauracchio; non vogliamo fare la nostra entrata col solito prologo detto a memoria, borbottando dietro il suggeritore. Ci giudichino pure con la misura che vogliono: noi misureremo loro una misura, e ce ne anderemo.

Romeo.
157Datemi una fiaccola, io non me la sento di ballare: poiché le tenebre dell’animo mi rendono grave, terrò il lume per essere piú leggero.

Mercuzio.
158Invece, caro Romeo, noi vogliamo che tu balli.

Romeo.
159Io no, credetelo. Voi avete scarpine da ballo con suolo leggero: io invece ho l’anima di piombo, che m’inchioda al suolo in modo da non lasciarmi movere.

Mercuzio.
160Tu sei un innamorato: fatti prestare le ali da Cupido, e per mezzo di esse librati a volo al di sopra delle tue pene.

Romeo.
161Il suo dardo mi ha ferito troppo crudelmente, perché io possa levarmi a volo con le sue lievi penne; e, legato come sono nei suoi lacci, non posso spiccare un salto al di sopra della triste sommità del dolore: sotto il grave peso dell’amore, io ricado giú.

Mercuzio.
162E tu, cadendogli addosso, dovresti schiacciare l’amore, col tuo peso troppo grande per lui che è delicato.

Romeo.
163Amore è delicato? È troppo villano invece, troppoo aspro, troppo violento; e punge come una spina.

Mercuzio.
164Se amore è villano con te, tu sii villano con lui: rendi ad amore puntura per puntura, e lo vincerai. — Datemi un astuccio per riporci il viso (Mettendosi una maschera): una maschera per un mascherone! — Ed ora che m’importa se un occhio indiscreto cercherà di scoprire le mie bruttezze? C’è questo brutto ceffo che arrossirà per me.

Benvolio.
165Via, bussiamo ed entriamo, e appena dentro, ognuno di noi si raccomandi alle sue gambe.

Romeo.
166A me una fiaccola: chi è allegro ed ha il cuore leggero, accarezzi coi piedi le insensibili stoie; per me c’è l’adagio del nonno: «io reggo il candeliere, e me ne sto a vedere». La cacciagione non è mai stata tanto bella, e la caccia per me è bell’ e finita.

Mercuzio.
167Bah! Il topo c’è cascato, come dice il poliziotto; e se tu hai fatto como Dun, cercheremo noi di tirarti fuori dal fango, o (con buon rispetto) da cotesto amore, nel quale sei impegolato fino agli orecchi. Andiamo, se no finiremo per far lume al giorno, eh!

Romeo.
168No, non è cosí.

Benvolio.
169Voglio dire, signor mio, che se ci traccheggiamo in questo modo, i nostri lumi saranno sprecati, come lampade accese di giorno. Tu devi prendere le nostre parole nel significato buono che è nella nostra intenzione, poiché il nostro senno risiede cinque volte nella nostra intenzione, prima che una sola volta nei nostri cinque sensi.

Romeo.
170Infatti noi abbiamo una buona intenzione, recandoci a questa mascherata; ma l’andarci non è buon senno.

Mercuzio.
171Perché, se è lecito domandarlo?

Romeo.
172Stanotte ho fatto un sogno.

Mercuzio.
173Anch’io.

Romeo.
174Ebbene, che cosa hai sognato?

Mercuzio.
175Che coloro i quali sognano, spesso, invece che nel vero, sono...

Romeo.
176In letto addormentati, e sognano delle cose vere.

Mercuzio.
177Ah! Allora, lo vedo, la regina Mab è venuta a trovarti. Essa è la levatrice delle fate, e viene, in forma non piú grossa di un’agata nell’indice di un podestà, tirata da un equipaggio di piccoli atomi, sul naso degli uomini, mentre giacciono addormentati. I raggi delle ruote del suo carro son fatti di lunghe zampe di ragno; il mantice di ali di cavallette: le briglie del piú sottile ragnatelo; i finimenti di umidi raggi di luna; il manico della frusta di un osso di grillo; la sferza di una pellicola impercettibile; il cocchiere è un moscerino in livrea grigia, grosso neppure quanto la metà del piccolo insetto tondo, tratto fuori con un spillo dal pigro dito di una fanciulla. Il suo cocchio è un guscio di nocciuola, lavorato dal falegname scoiattolo o dal vecchio verme, da tempo immemorabile carrozzieri delle fate. In questo equipaggio essa galoppa da una notte all’ altra a traverso i cervelli degli amanti, e allora essi sognan d’amore; sulle ginocchia dei cortigiani, che immediatamente sognano inchini e riverenze; sulle dita dei legali, che subito sognano onorarii; sulle labbra delle dame, che immantinente sognano baci; espesso Mab, con delle punture, lascia loro sulle labbra delle bollicine, adirata perché hanno il fiato guasto da confetture profumate; talvolta essa galoppa sul naso di un sollecitatore, e allora, in sogno, egli sente l’odore della domanda di un impiego; talora va, con la coda di un porcellino della decima, a solleticare il naso di un parroco mentre giace addormentato, e allora egli sogna un altro benefizio; talora ella passa in carrozza sul collo di un soldato, e allora egli sogna di tagliare gole nemiche, sogna breccie, agguati, lame spagnuole, e brindisi fatti con bicchieri senza fondo; poi, all’improvviso, essa gli suona il tamburo nell’ orecchio, ed egli, appena lo sente, si sveglia con un balzo, e spaventato bestemmia una preghiera o due, e si riaddormenta. Questa Mab è proprio quella stessa, che nella notte intreccia le criniere dei cavalli, e nei loro crini sozzi ed unti fa dei nodi fatati, che una volta strigati pronosticano molte sciagure. Lei è la strega, che quando le fanciulle giacciono supine, si stringe loro addosso premendole, e insegna loro per la prima volta a portare, e ne fa delle donne di buon portamento. Essa è colei...

Romeo.
178Taci, taci, Mercuzio, taci! tu parli dicendo dei niente.

Mercuzio.
179È vero, io parlo dei sogni, che sono figli di un cervello ozioso, generati da nient’ altro che da una vana fantasia, la quale è di una sostanza sottile come l’aria, e piú incostante del vento, che in questo momento amoreggia nel gelido grembo del Nord, e, scorrucciato, se ne va via sbuffando, e volta la faccia verso il mezzogiorno stillante di rugiada.

Benvolio.
180Questo vento del quale tu pari, ci soffia fuori di noi stessi: a quest’ ora la cena è finita, ed arriveremo troppo tardi.

Romeo.
181Troppo presto, io temo: poiché l’anima mia ha il presentimento che qualche triste avvenimento, ancora sospeso nelle stelle, avrà dolorosamente il suo terribile principio nella festa di questa notte, e segnerà il termine della spregiata vita chiusa nel mio petto, con qualche crudele sentenza di morte immatura. Ma colui che dirige il mio cammino, diriga la mia vela! Andiamo, allegri giovanotti.

Benvolio.
182Suona, tamburo.

SCENA V.

— Una sala in casa CAPULETI.
Sonatori che aspettano.
Entrano alcuni servi.

Primo Servo.
183Dov’ è Pignatta, che non ci aiuta a sparecchiare? Lui cambiare un piatto? Lui strusciare un vassoio? Oh sí!

Secondo Servo.
184Quando la pulizia deve dipendere tutta dalle mani di una o due persone, che per giunta non se le sono lavate, l’affare è poco pulito.

Primo Servo.
185Via gli sgabelli, tira da una parte la credenza, e attento all’argenteria. — A te, amico, serbami un boccone di quel marzapane; e se mi vuoi bene, di’ al portiere che lasci entrare Susanna Lamacina e Nella. — Antonio! Pignatta!

Terzo Servo.
186Eccolo, compare, pronti!

Primo Servo.
187Siete cercato, chiamato, desiderato, e domandato nel salone.

Terzo Servo.
188Non si può mica essere qui e là nello stesso tempo. Svelti, ragazzi: e chi di noi camperà di piú, sarà l’ erede universale.

(Si ritirano).
Entrano il CAPULETI, con GIULIETTA, ed altri di casa, e si fanno incontro ai convitati e alle maschere.

Capuleti.
189Benvenuti, signori! Le dame che non soffrono di calli ai piedi, desiderano di fare un giro con voi: —Ah, ah, signore mie! Chi di voi tutte, ora, rifiuterà di ballare? Colei che fa la ritrosa, ha qualche callo ve lo giuro; v’ho servito bene questa volta? — Benvenuti, signori! Ho visto anch’io il tempo in cui mi mettevo una maschera, e sussurravo all’orecchio di qualche bella una storia che le piacesse: ormai è passato, è passato, è passato: — voi siete i benvenuti, signori! — Andiamo, sonatori, un po’ di musica. (La musica suona, e incomincia il ballo). Largo, largo! fate posto! E voi, signorine, saltate. — Degli altri lumi, giovanotti; chiudete quelle tavole, e spengete il fuoco, la stanza si è riscaldata troppo. — Ah, bravo, questa festa improvvisata riesce proprio bene. — Via, via, sedete, mio buon cugino Capuleti; per voi e per me è finito il tempo di ballare: quanti anni sono ormai passati, da che noi due ci trovammo insieme ad una mascherata?

Secondo Capuleti.
190Per la Madonna, sono trent’anni.

Capuleti.
191Come, amico mio! Non è tanto, non è tanto: è dalle nozze di Lucenzio. Venga pure presto quanto vuole, la Pentecoste, noi ci mascherammo in quella occasione, e sono ormai un venticinque anni.

Secondo Capuleti.
192È di piú, è di piú: suo figlio ha di piú, ha trent’ anni.

Romeo.
193Chi è quella dame che, col tesoro della sua mano, arricchisce la mani di quel cavaliere là?

Servo.
194Non lo so, signore.

Romeo.
195Oh! essa insegna alle fiaccole a brillare! Sembre che essa penda sulle guance della notte, come un ricco gioiello dall’orecchio di una Etiope; bellezza di un valore troppo grande perché se ne possa usare, troppo preziosa per la terra! Tale appare una nivea colomba in mezzo a un branco di corvi, quale si mostra quella giovinetta in mezzo alle sue compagne. Finito questo ballo, spierò dove si mette, e procurerò alla mia rozza mano la felicità di toccare la sua. Il mio cuore ha egli amato prima d’ora? Smentitelo, occhi miei! poichè io non avevo mai veduta, fino a questa notte, la vera bellezza.

Tebaldo.
196Costui, dalla voce, dovrebbe essere un Montecchi. — Cercami la mia spada, ragazzo. Come! il vile osa venir qui, sotto una maschera da buffone, a ridersi e a farsi beffe della nostra festa? Ebbene, per la nobiltà della mia stirpe e per l’onore del mio sangue, freddarlo con un colpo credo che non sia peccato.

Capuleti.
197Che c’ è, nipote mio? Perché sei cosí furibondo?

Tebaldo.
198Zio, costui è un Montecchi, un nostro nemico; un miserabile che è venuto qui a dispetto nostro, a farsi beffe della nostra festa di stasera.

Capuleti.
199È il giovine Romeo?

Tebaldo.
200È lui, quel miserabile di Romeo.

Capuleti.
201Calmati, gentile nipote, e lascialo in pace: egli si comporta con la dignità di un gentiluomo; e, per dire la verità, Verona vanta in lui un giovane virtuoso e bene educato: né io permetterei, per tutte le ricchezze di questa città, che gli fosse fatto un torto qui in casa mia. Perciò abbi pazienza, non ti occupare di lui: voglio cosí, e se ripspetti la mia volontà, mostrati di buon umore, e lascia andare costesto cipiglio, che non è al suo posto in una festa.

Tebaldo.
202È al suo posto, quando fra gli ospiti vi è un miserabile come lui: non lo sopporterò qui.

Capuleti.
203Sarà sopportato: ebbene, mio bel ragazzo! Ti dico che egli sarà sopportato: andiamo! Chi è qui il padron di casa, io o tu? andiamo! Non lo sopporterai! — Dio protegga l’anima mia, — tu vuoi fare uno scandalo fra i miei invitati! Vorresti alzare la creta come il gallo! Pretenderesti di fare una bravata!

Tebaldo.
204Ma questa è una vergogna, zio.

Capuleti.
205Via, via; sei un arrogante: — ma davvero? — Questo scherzo ti potrebbe costare caro, — so io quel che mi dico. Vorresti metterti a tu per tu con me! In fede mia, è proprio questo il momento! — Bene! Bravi ragazzi! — Sei un presuntuoso; andiamo, basta, altrimenti... — Degli altri lumi, degli altri lumi! — È una vergogna: ta la farò finire io! — Su, un po’ di allegria, ragazzi miei! —

Tebaldo.
206La pazienza costretta incontrandosi con la collera che vuole erompere ad ogni costo, mi fa tremar la carne addosso per il contrasto della loro opposta natura. Me ne anderò: ma questa intrusione di Romeo, la quale ora sembra una cosa dolce, si convertirà in amaro fiele.

(Esce).

Romeo.
207 (A Giulietta). Se io profano con la mia mano indegna questa sacra reliquia (è questo il peccato dei pii), le mie labbra, arrossenti pellegrini, sono pronte a render piú molle, con un tenero bacio, il ruvido tocco.

Giulietta.
208Buon pellegrino, voi fate troppo troto alla vosstra mano, che ha mostrato in ciò la devolzione che si conviene: poiché i santi stessi hanno mani, che le mani dei pellegrini possono toccare, e il giunger palma a palma è il bacio dei pii palmieri.

Romeo.
209I santi non hanno essi labbra, ed i palmieri anche?

Giulietta.
210Sí, o pellegrino, labbra che essi debbono usare nella preghiera.

Romeo.
211Oh! allora, cara santa, lascia che le labbra facciano ciò che fanno le mani; esse ti pregano, tu le esaudisci, per timore che la fede non si cambi in disperazione.

Giulietta.
212I santi non si movono, ancorchè esaudiscano le altrui preghiere.

Romeo.
213Allora non moverti, intanto che io raccolgo il frutto della mia preghiera. Ecco, le tue labbra hanno purgato le mie del loro peccato.

(La bacia).

Giulietta.
214Allora è rimasto sulle mie labbra il peccato che esse hanno tolto alle vostre.

Romeo.
215Il peccato dalle mie labbra? O colpa dolcemente rimproverata! Rendimi dunque il mio peccato.

Giulietta.
216Voi baciate con tutte le regole.

Nutrice.
217Signorina, vostra madre ha bisogno di dirvi una parola.

Romeo.
218Chi è sua madre?

Nutrice.
219Affé, giovinotto, sua madre è la padrona di questa casa, ed una signora buona, saggia e virtuosa: sua figlia, colei con la quale avete parlato fino ad ora, l’ho allattata io; e vi so dire che chi potrà portarsela via, li avrà sonanti uno su l’altro.

Romeo.
220Essa è unaCapuleti! Oh il caro prezzo, che io dovrò pagare! La mia vita è un debito che io ho con la mia nemica!

Benvolio.
221Via, andamocene, ormai abbiamo visto il piú bello della festa.

Romeo.
222Sí, ho paura che sia proprio cosí; piú stiamo, e peggio è per la mia pace.

Capuleti.
223No, signori, non vi preparate per andarvene: di là c’è ancora un boccone di cena, tanto per fare un po’ di allegria. — Volete proprio andare? Ebbene, allora io vi ringrazio tutti; grazie miei buoni signori; buona notte. — Delle altre fiaccole qua! — Su, andiamocene a letto. Oh, amico, si fa tardi davvero; io vado a riposare.

(Escono tutti, tranne Giulietta e la Nutrice).

Giulietta.
224Nutrice, vieni qui: chi è quel signore là?

Nutrice.
225È il figlio e l’erede del vecchio Tiberio.

Giulietta.
226E l’altro che esce ora dalla porta?

Nutrice.
227Affé, quello credo sia il giovine Petruccio.

Giulietta.
228E quell’ altro signore dietro a lui, che non ha voluto ballare?

Nutrice.
229Non lo so.

Giulietta.
230VA’, domandagli come si chiama: — se egli è ammogliato, la tomba sarà probabilmente il mio letto nuziale.

Nutrice.
231Si chiama Romeo, ed è un Montecchi, l’unico figlio del vostro grande nemico.

Giulietta.
232Il mio unico amore ispirato dal mio unico odio! O sconosciuto che troppo presto io vidi, e troppo tardi conobbi! O amore prodigioso, questo che nasce in me, poichè io debbo amare un nemico esecrato!

Nutrice.
233Che c’ è? che cosa dite?

Giulietta.
234Sono dei versi che ho imparato poco fa, da uno che ballava con me. (Voce di dentro) «Giulietta».

Nutrice.
235Subito, eccoci! — Via, andiamo, gli invitati se ne sono andati tutti. (Escono). Entra il coro. L’antica passione giace ormai sul suo letto di morte, e un nouvo affetto aspira ad esserne l’erede; la bella per causa della quale l’amante si disperava e desiderava di morire, ora, vicino alla gentile Giulietta, non è piú bella. Ora Romeo è amato, ed è innamorato un’ altra volta. Tutti e due gli amanti ora sono incantati del fascino degli sguardi, ma egli deve sospirare per la sua pretesa nemica, lei deve rubare la dolce esca dell’amore alla punta di terribili ami: essendo considerato come un nemico, egli non può avvicinarla per sussurrarle i voti che gli amanti giurano alle belle; ed essa, innamorata quanto lui, ha anche meno mezzi di trovarsi in qualche luogo col suo recente amante. Ma la passione presta loro la forza, il tempo offre a tutti e due i mezzi per potersi vedere, mitigando le loro estreme pene con estreme dolcezze.

(Il coro esce)

ATTO SECONDO

SCENA I.

— Piccola strada presso il giardino dei CAPULETI.
Entra ROMEO

Romeo.
236Posso io andare innanzi quando il mio cuore è là? Torna indietro, o inanimata argilla del mio corpo, e ritrova il tuo centro.

(Sale sul muro, e salta in giardino).
Entrano BENVOLIO e MERCUZIO.

Benvolio.
237Romeo! Cugino Romeo! Romeo!

Mercuzio.
238Ha giudizio: e, per la vita mia, scommetto che è scappato di nascosto a casa per andarsene a letto.

Benvolio.
239Correva per questa strada, e poi ha scavalcato il muro di questo giardino. Chiamalo, mio buon Mercuzio.

Mercuzio.
240Anzi, lo scongiurerò addirittura. — Romeo! Stravagante! Pazzo! Innamorato furibondo! Apparisci sotto la forma di un sospiro! Rispondi con un verso, e sarò pago! Grida un semplice ahimè! Pronunzia soltanto una rima: bella e tortorella. Di’una parola amabile all’indirizzo della mia comare Venere, trova un soprannome per il cieco suo figlio ed erede, per il giovinetto Adamo Cupido, che scoccò la sua freccia cosí bene, quando il re Cofetua s’innamorò della fanciulla mendicante. — Non sente; non si fa vivo; non si move: è morto quel macacco, e bisogna proprio che io gli faccia un’invocazione. — Romeo, per i fulgidi occhi di Rosalina, per la superba sua fronte e le sue labbra porporine, per il suo bel piedino, per la sua gamba dritta como un fuso, per le sue sobbalzanti coscie e i territorii ad esse adiacenti, io ti scongiuro di apparire a noi nelle tue vere sembianze.

Benvolio.
241Se ti sente, lo farai arrabbiare.

Mercuzio.
242Non si potrà arrabiare per questo. Avrebbe ragione di prendersela, se io coi miei scongiuri facessi sorgere nel cerchio della sua bella uno spirito di strana natura, e lo lasciassi lì ritto, finch’ella lo avesse scongiurato ad abbassarsi e andarsene. Questo sarebbe un dispetto! Ma la mia invocazione è onesta e leale, e i miei scongiuri, in nome della sua donna, non hanno altro scopo che quello di far sorgere lui.

Benvolio.
243Vieni, si deve essere nascosto fra quegli alberi per trattenersi a conversazione con l’umida notte. Il suo amore è cieco, e sta bene al buio.

Mercuzio.
244Se amore è cieco, amore non può colpire il bersaglio. In questo momento Romeo si mette a sedere sotto un nespolo, e si augura, nel suo pensiero, che la sua bella rassomigli a quelle tali frutta, che le fanciulle, fra di loro, chiamano, ridendo «le nespole». — Oh! Romeo, se ella fosse... oh! s’ella fosse una... et caetera... aperta, e tu una pera di Poperin! Buona notte, Romeo. — Me ne vado a trovare la mia branda; il campo è un letto troppo freddo perché io vi possa dormire. Vieni, ce ne andiamo?

Benvolio.
245Andiamo pure; poiché è inutile cercare chi non si vuol lasciar trovare.

(Escono).

SCENA II.

Giardino dei CAPULETI.
Entra ROMEO.

Romeo.
246Ride delle cicatrici degli altri, chi non ha mai provato una ferita. — (Giulietta appare ad una finestra in alto). Ma, piano! Quale luce spunta lassú da quella finestra? Quella finestra è l’oriente e Giulietta è il sole! Sorgi, o bell’astro, e spengi la invidiosa luna, che già langue pallida di dolore, perché tu, sua ancella, sei molto piú vaga di lei. Giacché essa ha invidia di te, non essere piú un’ ancella a lei devota. Il manto di vestale che ella cinge, è un vero squallore, con quel verde, e non lo indossano che i matti; gettalo. È la mia signora; oh! è l’amor mio! oh! se lo sapesse che è l’amor mio! — Ella parla, e pure non proferisce accento: come avviene questo? È l’occhio suo che parla; ed io risponderò a lui. Ma è troppo ardire il mio; essa non parla con me: due fra le piú belle stelle di tutto il cielo, dovendo lasciare per un istante la volta azzurra, supplicano gli occhi suoi di voler brillare nella loro sfera, finché esse abbian fatto ritorno. Se per caso gli occhi suoi, in questo momento, fossero lassú, e le stelle fossero nella fronte di Giulietta? Lo splendore del suo viso farebbe impallidire di vergogna quelle due stelle, come la luce del giorno fa impallidire la fiamma di un lume; se l’occhio suo fosse in cielo, irradierebbe le alte regioni dell’êtra di un tale splendore, che gli uccelli comincerebbero a cantare, credendo finita la notte. — Guarda come si appoggia con la guancia su quella mano! Oh! foss’io un guanto sopra la sua mano, per poter toccare quella guancia!

Giulietta.
247Ohimè!

Romeo.
248Essa parla. — Oh parla ancora, angelo sfolgorante! poiché in questa notte mentre sei costassù sopra la mia testa, tu apparisci a me in tutta la gloria di uno splendore, simile a quello onde appare un alato messaggero del cielo agli occhi stupiti dei mortali, reclinanti la testa per fissare la bianca pupilla su lui, mentre egli varca le pigre nubi e veleggia nel grembo dell’ètra.

Giulietta.
249O Romeo, Romeo! Perché sei tu Romeo? Rinnega tuo padre; e rifiuta il tuo nome: o, se non vuoi, legati solo in giuramento all’amor mio, ed io non sarò piú una Capuleti.

Romeo.
250 (Fra sè). Starò ancora ad ascoltare, o rispondo a questo che ha detto?

Giulietta.
251Il tuo nome soltanto è mio nemico: tu sei sempre tu stesso, anche senza essere un Montecchi. Che significa «Montecchi»? Nulla: non una mano, non un piede, non un braccio, non la faccia, nè un’altra parte qualunque del corpo di un uomo. Oh, mettiti un altro nome! — Che cosa c’è in un nome? Quella che noi chiamiamo rosa, anche chiamata con un’altra parola avrebbe lo stesso odore soave; cosí Romeo, se non si chiamasse piú Romeo, conserverebbe quella preziosa perfezione, che egli possiede anche senza quel nome. — Romeo, rinunzia al tuo nome, e per esso, che non è parte di te, prediti tutta me stessa.

Romeo.
252Io ti piglio in parola: chiamami soltanto amore, ed io sarò ribattezzato; d’ ora innanzi non sarò piú Romeo.

Giulietta.
253Chi sei tu che, cosí protetto dalla notte, sorprendi in questo modo il mio pensiero?

Romeo.
254Con un nome io non so come dirti chi sono. Il mio nome, cara santa, è odioso a me stesso, poiché è nemico a te: se io lo avessi qui scritto, lo straccerei.

Giulietta.
255L’orecchio mio non ha ancora bevuto cento parole di quella voce, ed io già ne riconosco il suono. — Non sei tu Romeo, e un Montecchi?

Romeo.
256Né l’uno nè l’altro, bella fanciulla, se l’uno e l’altro a te dispiace.

Giulietta.
257Come sei potuto venir qui, dimmi, e perché? I muri del giardino sono alti, e difficili a scalare, e per te, quando penso chi sei, questo è un luogo di morte, se alcuno dei miei parenti ti trova qui.

Romeo.
258Con le leggere ali d’ amore superai questi muri, poiché non ci sono limiti di pietra che possano vietare il passo ad amore: e ciò che amore può fare, amore osa tentarlo; perciò i tuoi parenti per me non sono un ostacolo.

Giulietta.
259Se ti vedono, ti uccideranno.

Romeo.
260Ahimè! c’è piú pericolo negli occhi tuoi, che in venti delle loro spade: basta che tu mi guardi dolcemente, e sarò a tutta prova contro la loro inimicizia.

Giulietta.
261Io non vorrei per tutto il mondo che ti vedessero qui.

Romeo.
262Ho il manto della notte per nascondermi agli occhi loro; ma a meno che tu non mi ami, lascia che mi trovino qui: meglio che il loro odio ponga termine alla mia vita, di quello che la mia morte si ritardi, senza che io abbia l’amor tuo.

Giulietta.
263Chi ha guidato i tuoi passi a scoprire questo luogo?

Romeo.
264Amore, il quale mi ha spinto a cercarlo: egli mi ha prestato il suo consiglio, ed io gli ho prestato gli occhi. Io non sono una pilota: ma se tu fossi lontana de me, quanto la deserta spiaggia che è bagnata dal piú lontano mare, per una merce preziosa come te mi avventurerei sopra una nave.

Giulietta.
265Tu sai che la maschera della notte mi cela il volto; altrimenti un rossore verginale colorirebbe la mia guancia, per ciò che mi hai sentito dire stanotte. Io vorrei ben volentieri serbare le vonvenienze; volentieri vorrei poter rinnegare quello che ho detto: ma ormai addio cerimonie! Mi ami tu? So già che dirai «sí», ed io ti prenderò in parola; ma se tu giuri, tu puoi ingannarmi: agli spergiuri degli amanti dicono che Giove sorrida. O gentile Romeo, se mi ami dichiaralo lealmente; se poi credi che io mi sia lasciata vincere troppo presto, aggrotterò le ciglia e farò la cattiva, e dirò di no, cosí tu potrai supplicarmi; ma altrimenti non saprò dirti di no per tutto il mondo. È vero, bel Montecchi, la mia passione è troppo ardente; e perciò la mia condotta potrebbe sembrarti leggera. Ma credimi, gentil cavaliere, alla prova io sarò piú sincera di quelle, che sanno meglio di me l’arte della modestia. Tuttavia sarei stata piú riservata, lo devo confessare, se tu, senza che io lo sapessi, non avessi sorpreso l’espressione appassionata del sincero amor mio: perdonami dunque, e non imputare la mia facile resa a leggerezza di questo amore, che l’oscurità della notte ti ha svelato cosí.

Romeo.
266Fanciulla, per quella benedetta luna laggiú che inargenta le cime di tutti questi alberi, io giuro...

Giulietta.
267Oh, non giurare per la luna, la incostante luna che ogni mese cambia nella sua sfera, per timore che anche l’¡amor tuo riesca incostante a quel modo.

Romeo.
268Per che cosa devo giurare?

Giulietta.
269Non giurare affatto; o se vuoi giurare, giura per la tua cara persona, che è il dio idolatrato dal mio curore, ed io ti crederò.

Romeo.
270Se il sacro amore del mio cuore...

Giulietta.
271Via, non giurare. Benché io riponga in te la mia gioia, nessuna gioia provo di questo contratto d’amore fatto stanotte: è troppo precipitato, troppo imprevisto, troppo improvviso, troppo somigliante al lampo che è finito prima che uno abbia il tempo di dire «eccolo». Amor mio, buona notte! Questo boccio d’amore, aprendosi sotto il soffio dell’estate, quando quest’altra volta ci rivedremo, forse sarà uno splendido fiore. Buona notte, buona notte! Una dolce pace e una dolce felicità scendano nel cuor tuo, come quelle che sono nel mio petto!

Romeo.
272Oh! mi lascerai cosí poco sodisfatto?

Giulietta.
273Quale sodisfazione puoi avere questa notte?

Romeo.
274Il cambio del tuo fedele voto d’amore col mio.

Giulietta.
275Io ti diedi il mio, prima che tu lo chiedessi; e tuttavia vorrei non avertelo ancora dato.

Romeo.
276Vorresti forse riprenderlo? Per qual ragione, amor mio?

Giulietta.
277Solo per essere generosa, e dartelo di nuovo. E intanto io non desidero se non ciò che possiedo; la mia generosità è sconfinata come il mare, e l’amor mio quanto il mare stesso è profondo: piú ne concedo a te, piú ne possiedo, poiché la mia generosità e l’amor mio sono entrambi infiniti. (La nutrice chiama di dentro). — Sento qualche rumore in casa; addio, caro amor mio! — Súbito, mia buona nutrice! — Diletto Montecchi, sii fedele. Aspetta un solo istante, tornerò.

(Esce).

Romeo.
278 (Giulietta torna alla finestra). O benedetta, benedetta notte! Stando cosí in mezzo al buio, io ho paura che tutto ciò non sia che un sogno, troppo deliziosamente lusinghiero per essere realtà.

Giulietta.
279Due parole, caro Romeo, e buona notte davvero. Se l’intenzione dell’amor tuo è onesta e il tuo proposito è il matrimonio, mandami a dire, domani per una persona che farò venire da te, dove e in qual tempo tu vuoi compire la cerimonia, ed io deporrò ai tuoi piedi il mio destino, e ti seguirò, come signore mio per tutto il mondo.

Nutrice.
280 (Di dentro). Signora!

Giulietta.
281Vengo subito. — Ma se le tue intenzioni non sono oneste, io ti scongiuro...

Nutrice.
282 (Di dentro). — Signora!

Giulietta.
283Ora, vengo: — cessa le tue proteste e lasciami al mio dolore: domani manderò.

Romeo.
284Cosí l’anima mia sia salva...

Giulietta.
285Mille volte buona notte!

(Si ritira dalla finestra).

Romeo.
286Mille volte cattiva notte, invece, poiché mi manca la tua luce. Amore corre verso amore, con la gioia con cui gli scolari lasciano i loro libri, ma al contrario amore lascia amore con quella mestizia nel volto, con la quale gli scolari vanno alla scuola.

(Si ritira lentamente; Giulietta torna alla finestra).

Giulietta.
287Pst! Romeo, pst! — Oh avessi io la voce di un falconiere, per richiamare a me questo gentile terzuolo! La voce della schiavitú è fioca, e non può farsi sentire: altrimenti saprei squarciare la caverna dove si cela l’eco, e far diventare l’ aerea sua voce piú fioca della mia, a forza di ripetere il nome del mio Romeo.

Romeo.
288 (Tornando indietro). È l’anima mia che pronunzia il mio nome; che dolce tinnire d’argento ha nella notte la voce degli amanti! È come una musica dolcissima, per un orecchio che ascolta avidamente.

Giulietta.
289Romeo!

Romeo.
290Cara!

Giulietta.
291A che ora, domani, devo mandare da te?

Romeo.
292Alle nove.

Giulietta.
293Non mancherò; ci sono venti anni di qui allora. Non mi ricordo piú perché ti ho richiamato.

Romeo.
294Lasciami restar qui finché te ne ricordi.

Giulietta.
295Allora io non me ne ricorderò apposta, affinché tu resti qui ancora, rammentandomi solamente quanti mi è cara la tua compagnia.

Romeo.
296Ed io resterò qui, perché tu non te ne ricordi, dimenticando ogni altra mia abitazione fuori di questa.

Giulietta.
297È quasi giorno; io vorrei che tu fossi già partito, ma senza allontanarti piú dell’augellino, che una gaia fanciulla lascia saltellare per un poco fuori della sua mano, povero prigioniero avvinto nelle sue ritorte catene, e tosto per mezzo di un filo di seta lo riconduce a sé con una stratta, amante troppo gelosa della sua libertà.

Romeo.
298Io vorrei essere il tuo augellino.

Giulietta.
299Anhch’io vorrei che tu lo fossi, o caro: ma avrei paura di ucciderti per il troppo bene. Buona notte, buona notte! L’addio che ci speara è un dolore cosí dolce, che ti direi «buona notte» fino a domattina.

(Si ritira).

Romeo.
300Il sonno scenda sugli occhi tuoi, la pace nel tuo petto! Oh fossi io il sonno e la pace per riposare cosí dolcemente! — Ed ora anderò alla cella del mio padre spirituale ad implorare il suo aiuto e a raccontargli la mia buona ventura.

(Esce).

SCENA III.

— La cella di frate LORENZO.
Entra frate LORENZO con un paniere.

Frate Lorenzo.
301Il mattino dai grigi occhi sorride all’accigliata notte, gettando sprazzi di luce sulle nubi orientali; e la tenebra, chiazzata in volto dall’aurora che rosseggia, si ritrae, barcollando come un ebreo, dal sentiero del giorno e dalle fervide ruote di Titano. Ora, prima che il sole si avanzi, col suo occhio fiammeggiante, a rallegrare il giorno e ad asciugare la rugiada della notte, questo paniere di vimini, deve esser pieno di erbe velenose, e di fiori dal succo prezioso. La terra che è la madre della natura, è anche la sua tomba; il sepolcro della natura, è lo stesso grembo dal quale ella ha la vita. E noi vediamo figli di diverso genere, usciti da quel grembo, suggere il materno petto della terra; molti ottimi per molte virtú, nessuno che non ne abbia qualcuna, e pure tutti differenti. Oh! grande è la virtú che risiede nelle erbe, nelle piante, nelle pietre e nelle loro intime qualità; poiché nulla esiste sulla terra di sí vile, che alla terra non dia qualche bene particolare; nè cosa alcuna è cosí buona, che distratta dal suo buon uso, non si ribelli alla sua origine, cadendo nell’abuso. La virtú stessa diventa vizio, male esercitata; e il vizio talora è nobilitato da una bella azione. Sotto la tenera pellicola che riveste il calice di questo fragile fiore, risiede nello stesso tempo un veleno e una virtú media; poiché se tu l’odori, risveglia in te una gioconda eccitazione di tutto il senso; se tu lo gusti, ti uccide, insieme col cuore, tutti i sensi. Anche nell’animo dell’uomo, come nelle erbe, stanno accampati, in continua guerra fra di loro, due re nemici: la grazia e la volontà brutale; e quella pianta dove la peggiore di queste due potenze trionfa, è divorata tosto dal verme della morte.

Entra ROMEO.

Romeo.
302Buon giorno, padre.

Frate Lorenzo.
303Benedicite! Qual voce mattutina mi saluta cosí dolcemente? — Figliuolo mio, se tu dài cosí presto il buon giorno al tuo letto, è segno che hai qualche cosa per la testa: nell’ occhio dei vecchi veglia assidua la sollecitudine, e dove alberga la sollecitudine, non trova mai posto il sonno; ma ove distende le sue membra la intatta gioventú, che ha la mente sgombra, là regna un beato sonno. Perciò questa tua visita mattutina mi dà la certezza che qualche inquietitudine ti ha costretto ad alzarti; o se non è cosí, questa volta colgo nel segno: il nostro Romeo stanotte non è andato a letto.

Romeo.
304Quest’ ultima supposizione è vera: ma il mio riposo è stato, anzi, piú dolce delle altre notti.

Frate Lorenzo.
305Dio perdoni al peccatore! Sei stato con Rosalina?

Romeo.
306Con Rosalina, padre mio? No; ho dimenticato quel nome, e le pene che quel nome mi faceva soffrire.

Frate Lorenzo.
307Bravo il mio figliuolo: ma dove sei stato dunque?

Romeo.
308Te lo dirò, senza che tu me lo domandi un’ altra volta. Sono stato a festa dal mio nemico; e là improvvisamente sono stato ferito, da chi io stesso ferivo. Il rimedio che può guarirci tutti e due è riposto nel tuo aiuto, e nella tua santa medicina. Io non serbo rancore a nessuno, padre benedetto; poiché, vedi, nella preghiera che ti rivolgo, intercedo anche per il mio nemico.

Frate Lorenzo.
309Spiegati chiaramente, figliuolo mio, e dimmi in poche parole dove tende il tuo discorso; una confessione enigmatica non può avere che un’assoluzione enigmatica.

Romeo.
310Allora sappi, senz’ altro, che il mio cuore ha posto il suo amore piú caro nella bella figlia del ricco Capuleti; e come il mio cuore l’ho posto in lei, cosí il suo l’ ha posto in me. Tutto è combinato fra noi due: resta soltanto ciò che spetta a te di concludere, per mezzo del santo matrimonio. Quando, dove, e come ci siamo visti, abbiamo parlato di amore, e ci siamo scambiati la fede, te lo dirò mentre camminiamo; ma intanto io ti prego di volerci fare sposare oggi stesso.

Frate Lorenzo.
311San Francesco sia benedetto, che cambiamento è mai questo? Rosalina, colei che tu amavi cosí teneramente, l’hai bell’e dimenticata? Dunque l’amore di voialtri giovani non ha la sua vera sede nel cuore, ma negli occhi. Gesummaria! eppure quale mare di lacrime ha bagnato le tue pallide guance per cagione di Rosalina! Quant’ acqua salata hai sprecato inutilmente per rendere piú saporito un amore, che poi non devi nemmeno assaggiare! Il sole non ha ancora dissipato nel cielo la nebbia dei tuoi sospirir, i tuoi gemiti di una volta risuonano ancora nei miei orecchi di vecchio; vedi, qui sulla tua gota c’è rimasta la macchia di un’ antica lacrima, che non si è ancora asciugata. Se tu fosti sempre lo stesso, e queste pene furono tue, tu e queste pene appartenevate unicamente a Rosalina: e sei cambiato cosí? Allora ripeti questa sentenza: — Possono ben cadere le donne, una volta che gli uomini sono cosí deboli. —

Romeo.
312Tu mi hai spesso rimproverato di amare Rosalina.

Frate Lorenzo.
313Di essere esagerato nella tua passione, non di amarla, figliuolo mio.

Romeo.
314E mi hai detto di seppellire questo mio amore.

Frate Lorenzo.
315Non però in una tomba, per mettervene uno e disseppellirne un altro.

Romeo.
316Ti prego, non mi rimproverare: colei che amo ora, mi rende grazia per grazia e amore per amore; l’altra non faceva cosí.

Frate Lorenzo.
317Oh! Perché capiva bene che l’amor tuo non sapeva compitare, e invece di leggere recitava a memoria. Ma andiamo, volubile ragazzo, vieni con me, c’ è un motivo per il quale io voglio aiutarti: questo matrimonio potrebbe avere la fortuna di cambiare in un sincero amore l’odio delle vostre famiglie.

Romeo.
318Oh! andiamo via; ho bisogno di far molto presto.

Frate Lorenzo.
319Prudenza e calma; chi corre troppo, inciampa e cade.

(Escono).

SCENA IV.

— Una strada.
Entrano BENVOLIO e MERCUZIO.

Mercuzio.
320Dove diavolo può essere questo Romeo? Che non sia tornato a casa stanotte?

Benvolio.
321A casa di suo padre no certo; ho parlato col suo domestico.

Mercuzio.
322Insomma, quella palllida fanciulla dal cuore di sasso, quella Rosalina, lo tormenta cosí, che egli finirà per diventar matto di certo.

Benvolio.
323Tebaldo, congiunto del vecchio Capuleti, ha mandato una letterra a casa di suo padre.

Mercuzio.
324Una sfida, sulla mia vita!

Benvolio.
325Romeo gli saprà rispondere.

Mercuzio.
326Chiunque sa scrivere può rispondere ad una lettera.

Benvolio.
327Ma no, dico che egli risponderà debitamente all’ autore di quella lettera: sfidato, sfiderà.

Mercuzio.
328Ah! povero Romeo, è bell’e morto! Trafitto dagli occhi neri di una bianca fanciulla, ferito in un orecchio da una canzone d’amore, col cuore spaccato nel mezzo dalla freccia del piccolo arciere cieco, è egli un uomo che può affrontare Tebaldo?

Benvolio.
329Via! Che sarà mai Tebaldo!

Mercuzio.
330Qualche cosa di piú che il principe dei gatti, te lo dico io. Oh, è il valoroso campione d’ ogni compitezza. Si batte con la precisione con cui tu potresti cantare le parti di un contrappunto: va a tempo, mantiene la distanza e la misura; ti fa una pausa di un attimo, uno, due, e la terza te la pianta nel petto; è il vero beccaio dei bottoni di seta, un duellista, un duellista; un gentiluomo di primo rango, un vero maestro di prima e seconda causa. Ah, l’immortale passata! Il punto riverso! Il «toccato»!

Benvolio.
331Il che?

Mercuzio.
332Il canchero di questi grotteschi, balbuzienti fantastici, pieni di affettazione: di questi odierni concia-parole! «Per Gesú, una bonissima lama! un uomo di bella taglia! Una puttana sopraffina!» Insomma, nonno mio, non è una cosa deplorevole, che oggi dobbiamo essere afflitti in tal modo da queste mosche straniere, da questi spacciatori di mode, da questi pardonnez-moi, i quali stanno cosí attaccati all’ultima moda, che per il gonfio delle brache non possono piú sedere comodamente, sulle panche che usavano una volta? O i loro bons, i loro bons!

Entra ROMEO.

Benvolio.
333Ecco qui Romeo, ecco qui Romeo.

Mercuzio.
334Ridotto smilzo come un’aringa secca. O carne, carne, come ti sei fatta pesce! Ora s’è dato ai metri in cui s’era ingolfato il Petrarca: Laura a paragone della sua donna non era che una sguattera; e tuttavia ebbe un amante assai piú valente a cantarla in rima; Didone era una tanghera; Cleopoatra, una zingara; Elena ed Ero due miserabili sgualdrine; Tisbe aveva l’occhio azzurro o giú di li: ma questo non importa. — Signor Romeo, bonjour! eccoti un saluto in francese per le tue brache francesi. Stanotte, bellamente, ce l’hai fatta!

Romeo.
335Buon giorno a tutti e due. Che cosa vi ho fatto?

Mercuzio.
336Quella di piantarci, signore, di piantarci, non capisci?

Romeo.
337Perdono, o buon Mercuzio, il mio affare era urgente; e in un caso come quello mio, è permesso ad un uomo di piegarsi ad un atto incivile.

Mercuzio.
338Ciò è quanto dire, che un caso come il tuo costringe un uomo a chinarsi sui ginocchi.

Romeo.
339Con l’intenzione di fare una riverenza?

Mercuzio.
340Ci hai imbroccato proprio per bene.

Romeo.
341Una interpretazione veramente gentile, la tua!

Mercuzio.
342Diavolo! io sono la vera punta della gentilezza.

Romeo.
343Punta per dire fiore?

Mercuzio.
344Precisamente.

Romeo.
345Ebbene, se punta vuol dire fiore, i miei scarpini, cosí a punta, sono ben fioriti.

Mercuzio.
346Questo è spirito vero! Seguitami pure su questo tono, finché tu non abbia rotto le sòla dei tuoi scarpini: cosí quando è consumata la loro única sòla, resterà ancora da consumare la tua facezia única e sola.

Romeo.
347Oh! spirito d’una sola sòla, singolare solo per la sua cattiva singolarità!

Mercuzio.
348Vieni a separarci, o buon Benvolio; mi vien meno lo spirito.

Romeo.
349Scudiscio e sproni, scudiscio e sproni, ci vuole per te, altrimenti io reclamerò un altro avversario.

Mercuzio.
350Perdio! se il tuo spirito vuol fare la corsa dell’oca selvática, son bell’e fritto: poiché c’è piú dell’oca selvática in uno solo dei tuoi sensi, ne sono sicuro, che io non ne abbia in tutti e cinque i miei messi insieme. In questa corsa m’avevi proprio preso per far l’oca?

Romeo.
351Non ti ho mai preso per altro, quando non ti ho preso per far la parte dell’oca.

Mercuzio.
352Per questa tua spiritosaggine ti voglio dare un morso in un orecchio.

Romeo.
353Via! o buona oca, non mordere.

Mercuzio.
354Il tuo spirito è molto agrodolce; è una verar salsa piccante.

Romeo.
355E non è forse ben servita, come contorno ad una dolce oca?

Mercuzio.
356O, ecco dello spirito di pelle di capretto, che dalla larghezza di un pollice, a forza di tirare, si può far diventare largo un braccio!

Romeo.
357Allora io lo tiro fino a raggiungere cotesta parola «largo», la quale unita ad «oca» dimostra che tu sei, per lungo e per largo, una grande oca.

Mercuzio.
358Ebbene, questo non è forse meglio che spasimare d’amore? Ora sei ritornato socievole come prima, ora si che sei Romeo; ora sei come l’arte e la natura ti hanno fatto; poiché questo pazzo di Amora assomiglia a un grande idiota, che corre su e giú con la lingua di fuori, per trovare un buco dove nascondere il suo gingillo.

Romeo.
359Fermati qui, fermati quui.

Mercuzio.
360Tu vuoi che io mi arresti nel mio discorso, proprio dove è contro la mia natura il fermarmi.

Romeo.
361Altrimenti l’avresti fatta lunga.

Mercuzio.
362Oh! t’inganni: l’avrei fatta corta, perchè ero già arrivato in fondo, e non avevo davvero l’intenzione di occupar mi ancora dell’argomento.

Romeo.
363Ecco un bell’arnese!

Entra la Nutrice insieme con PIETRO.

Mercuzio.
364Una vela, una vela!

Benvolio.
365Due, due! una camicia e una gonnella.

Nutrice.
366Pietro!

Pietro.
367Subito!

Nutrice.
368Il mio ventaglio, Pietro.

Mercuzio.
369Sí, o buon Pietro, per nascondervi dietro la faccia: poiché quella del suo ventaglio è la faccia piú bella.

Nutrice.
370Dio vi dia il buon giorno, signori.

Mercuzio.
371Dio ti dia la buona sera, bella gentildonna.

Nutrice.
372È proprio l’ora di dar la buona sera?

Mercuzio.
373Né piú né meno, te lo dio io; poiché la mano oscena della meridiana ora è sull’asta del mezzogiorno.

Nutrice.
374Finitela! che razza d’ uomo siete?

Romeo.
375Un uomo, o gentildonna, che Domineddio ha messo al mondo per fare un torto a sé stesso.

Nutrice.
376In fede mia, questa è buona: «per fare un torto a sé stesso» ha detto? — Signori, sa dirmi qualcuno di voi, dove potrei trovare il giovine Romeo?

Romeo.
377Ve lo posso dire io; ma il giovine Romeo, quando lo avrete trovato, sarà piú vecchio di quando lo cercavate. Sono io il piú giovane di questo nome, in mancanza di uno peggio di me.

Nutrice.
378Sta bene.

Mercuzio.
379Già! il peggio è bene? O bella in verità; che senno, che intelligenza!

Nutrice.
380Se siete voi, signore, desidero di farvi una confidenza.

Benvolio.
381Vorrà portargli l’invito per una cena.

Mercuzio.
382Una ruffiana, una ruffiana, una ruffiana! All’ erta!

Romeo.
383Che cosa hai scovato?

Mercuzio.
384Una lepre no di certo, signore mio; a meno che non sia una lepre da pasticcio di quaresima, che sa già un po’ di stantio, prima che uno abbia finito di mangiarla.
(Canta).
— Una lepre vecchia che sa di stantio,
Una lepre vecchia che sa di stantio,
È un buon piatto per la Quaresima:
Ma una lepre che sa di stantio,
È troppo per una ventina di persone,
Se diventa stantia prima d’ esser finita di
[mangiare. —
Romeo, vieni a casa di tuo padre? Noi andiamo là a desinare.

Romeo.
385Vi seguo.

Mercuzio.
386Addio, vecchia dama; addio, (cantando) «madama, madama, madama».

(Escono MERCUZIO e BENVOLIO).

Nutrice.
387Sí! arrivederci! — Di grazia, signore, che sfacciato rigattiere è costui, il quale faceva tanta pompa delle sue oscenità da capestro?

Romeo.
388È un signore, nutrice mia, che si diletta a sentire le sue chiacchiere, capace di dire in un minuto solo molte piú cose, di quelle che egli non ascolti in un mese.

Nutrice.
389Se crede di sparlare di me, lo metterò al posto, fosse anche piú forte di quello che è, e di venti Zanni della sua risma; e se non sono buona io, troverò chi sarà capace. Vile ribaldo! Non sono mica una delle sue sgualdrine io! Non sono mica una della sua combriccola! (A Pietro) — E tu te ne stai ancora costí, e lasci che un mariolo qualunque mi tratti a suo piacere?

Pietro.
390Io non ho visto alcuno trattarvi a suo piacere; se l’avessi visto, il mio ferro sarebbe uscito all’istante dal fodero, ve lo garantisco. Poiché ho anch’io il coraggio di sguainare la spada presto come gli altri, se vedo l’occasione buona in una lite giusta, ed ho la legge dalla mia parte.

Nutrice.
391In questo momento, lo giuro davanti a Dio, sono cosí arrabbiata, che tremo tutta. Vile ribaldo! — Vi prego, signore, una parola; come vi dicevo, la mia padroncina mi ha ordinato di andare in cerca di voi! quello che mi ha detto di dirvi, me lo terrò qui dentro: prima lasciatemi dire, che se voi dovreste condurla, come si vuol dire, al paradiso dei matti, la vostra sarebbe, como si dice, una condotta assai perfida; perché la signorina è giovane, e perciò se con lei foste doppio, in verità sarebbe una bricconata che fareste a una gentile signora, e un’azione molto cattiva.

Romeo.
392Nutrice, raccomandami alla tua signora e padrona. Ti giuro...

Nutrice.
393Che buon cuore! Si, in fede mia, le dirò tutto. Mio Dio, mio Dio, sarà proprio felice!

Romeo.
394Che cosa le dirai, nutrice, se non mi stai a sentire?

Nutrice.
395Le dirò, o signore, che voi giurate; e questo, se io capisco qualche cosa, è un pegno da gentiluomo.

Romeo.
396Dille che stasera trovi qualche pretesto per andare a confessarsi; e alla cella di frate Lorenzo sarà confessata e maritata. — Questo è per la briga che ti prendi. —

Nutrice.
397No davvero, singore; neppure un soldo.

Romeo.
398Andiamo, ti dico di prenderlo.

Nutrice.
399Allora, questa sera, signore? va bene, sarà là.

Romeo.
400Aspetta, buona nutrice: a quell’ora stessa ti raggiungerà, dietro al muro del convento, il mio servitore, il quale ti porterà una scala a corda, che nel segreto della notte dovrà condurmi al colmo della gioia. Addio! sii fedele, ed io saprò ricompensare le tue fatiche. Addio! raccomandami alla tua padrona.

Nutrice.
401Ed ora, che Dio su in cielo ti benedica! Sentite, signore.

Romeo.
402Che dici, mia cara nutrice?

Nutrice.
403Il vostro servitore è fidato? Non avete mai sentito dire, che due possono serbare un segreto, quando uno di loro sia messo da una parte?

Romeo.
404Ti garantisco che il mio servitore è sicuro come l’acciaio.

Nutrice.
405Bene, signore; la padroncina mia è la piú deliziosa damigella del mondo... — Mio Dio, mio Dio! l’aveste veduta quando era una piccola chiacchierina! — Oh, c’è un nobiluomo qui in città, un certo Paride, il quale per lei metterebbe fuori l’arma volentieri; ma a lei, anima benedetta, piacerebbe vedere un rospo, proprio un rospo, quanto veder lui. Io qualche volta la faccio arrabbiare, e le dico che Paride è l’uomo che ci vuole per lei; ma, ve lo garantisco, quando io dico cosí, diventa bianca come il piú candido panno del mondo. — Rosmarino e Romeo non cominciano tutti e due con la medesima lettera?

Romeo.
406Si nutrice: ebbene? cominciano tutti e due con una R.

Nutrice.
407Ah, burlone! Questo è il nome del cane; R è la lettera per il... — No; lo so, incomincia con un’altra lettera — e lei ci ha fatto un motto graziosissimo, su voi e rosmarino: se lo sentiste, vi farebbe bene.

Romeo.
408Raccomandami alla tua signora.

Nutrice.
409Si, mille volte (Romeo esce). — Pietro!

Pietro.
410Eccomi!

Nutrice.
411Pietro, prendi il ventaglio e avviati.

(Escono).

SCENA V.

— Il Giardino del Capuleti.
Entra GIULIETTA

Giulietta.
412L’orologio sonava le nove quando ho mandato la nutrice: essa mi aveva promesso che in mezz’ ora sarebbe tornata. Forse non riesce a trovarlo. Non può essere: oh, ella è zoppa! I messaggeri d’amore dovrebbero essere i pensieri, che corrono dieci volte piú veloci dei raggi del sole, allorché egli caccia via le ombre sulle fosche cime dei monti. Per questo, appunto, Amore è tirato da delle colombe che hanno agile e presta l’ala, e per questo ha le ali Cupido, veloce come il vento. Il sole è ormai al punto culminante del suo cammino di oggi, e dalle nove alle dodici vi sono tre lunghe ore: ed ancora non è tornata. Se avesse gli affetti e il sangue caldo della gioventú, si moverebbe con la rapidità di una palla; le parole mie la lancierebbero diritta al mio dolce amore, e quelle di lui la manderebbero diritta a me. Ma la gente vecchia molte volte pare gente morta; sono inerti, lenti, pesanti e livide como il piombo. Entrano la nutrice e PIETRO Mio Dio! viene finalmente! O dolce nutrice, che notizie mi porti? L’hai trovato? Manda via quell’uomo.

Nutrice.
413Pietro, aspetta alla porta.

(Pietro esce).

Giulietta.
414Ebbene, mia buona, mia dolce nutrice? — O Dio! Perché hai cotest’aria trista? Se lo notizie sono cattive, dammele almeno con lieta cera. Se poi sono buone, tu sciupi la musica delle dolci notizie, sonandomela con cotesta faccia arcigna.

Nutrice.
415Non ne posso piú: lasciatemi riprender fiato un momento. Ahi, come mi dolgono le ossa! che corsa ho fatto!

Giulietta.
416Potessi darti le mie ossa per avere le tue notizie! Su, via, te ne prego, parla; mia buona, mia buona nutrice, parla.

Nutrice.
417Gesuí, c he fretta! Non potete aspettare un momenot? Non vedete che non posso riprender fiato?

Giulietta.
418Come non puoi riprender fiato, se hai il fiato per dirme che sei senza fiato? La scusa con la quale tu vuoi giustificare questo indugio, è piú lunga del racconto che ti scusi di non poter fare. Le tue notizie sono buone o cattive? Dimmi almeno questo; rispondi si o no, ed aspetterò a sentire i particolari. Contentami, sono buone o cattive?

Nutrice.
419Ebbene, avete fatto una scelta meschina: voi non siete buona a scegliere un uomo. Romeo! no, non è lui quello che ci voleva per voi! Il suo viso, è vero, è piú bello di quello di qualunque altro uomo, la sua gamba vince quella di tutti gli uomini del mondo; e quanto alla mano, al piede, alla figura, si sa, non c’è nulla da dire, anzi sono senza confronto. Egli non è il fiore della cortesia, però, ne sto garante, è docile come un agnello. Va’per la tua strada, fanciulla mia; servi Dio. — Come, avete già pranzato in casa?

Giulietta.
420No, no; ma tutto questo io lo sapevo già. Che cosa dice del nostro matrimonio? Che cosa ne pensa?

Nutrice.
421Dio, come mi fa male la testa! Oh la mia testa! Me la sento battere come se si volesse fare in venti pezzi. E le spalle, di dietro! oh le mie spalle, le mie spalle! Avete un bel cuore! mandarmi in giro ad acchiapparmi la morte a forza di trottare su e giú!

Giulietta.
422In fede mia, mi dispiace che tu non ti senta bene: ma via, mia buona, mia cara, mia dolce nutrice, dimmi, che cosa dice l’amor mio?

Nutrice.
423Il vostro amore, da onesto gentiluomo, da uomo cortese, gentile, bello, e, ve lo garantisco, virtuoso com’è, dice... — Dov’è vostra madre?

Giulietta.
424Dov’è mia madre? Ma, è in casa: dove deve essere? Che strano modo di rispondere! «Il vostro amore, da onesto gentiluomo, dice... — Dove è vostra madre?»

Nutrice.
425O mandonna cara! Pigliate fuoco cosí presto? Allora, vergine santa, immaginiamoci! questo sarebbe l’impiastro per le mie ossa indolenzite? D’ora in poi le vostre imbasciate fatele da voi.

Giulietta.
426Eh, quanto chiasso! — via, che cosa dice Romeo?

Nutrice.
427Avete avuto il permesso di andare a confessarvi oggi?

Giulietta.
428Sí.

Nutrice.
429Allora, presto, andate alla cella di frate Lorenzo; là c’è un marito che aspetta per far di voi una moglie. Ecco il sangue birichino che vi sale alle gote: una notizia qualunque basta perché si facciano subito vermiglie. Presto, alla chiesa; io prenderò un’ altra strada in cerca di una scala, con la quale il vostro amante, appena è buio, dovrà salire su al nido di un uccello; io sono il facchino, e fatico per il vostro diletto: ma fra poco, appena sarà notte, il peso lo porterete voi. Andiamo; io vado a desinare, voi, presto, alla cella.

Giulietta.
430Presto, al colmo della felicità! Mia buona nutrice, addio.

(Escono).

SCENA VI.

— La cella di frate LORENZO.
Entrano frate LORENZO e ROMEO.

Frate Lorenzo.
431Il cielo sorrida a questo santo atto, e faccia si che l’avvenire non debba rimproverarcelo con qualche dolore!

Romeo.
432Amen, amen! venga pure qualunque dolore possibile: esso non può valere, in cambio quanto la gioia che mi dà un solo breve minuto della sua presenza. Congiungi soltanto le nostre mani con le tue sante parole; e poi la morte, divoratrice d’amore, faccia pure quello che vuole. A me basta di poter dire che Giulietta è mia.

Frate Lorenzo.
433Queste gioie violente hanno violenta fine, e muoiono nel loro trionfo, come il fuoco e la polvere che si distruggono al primo bacio. Il piú squisito miele diviene stucchevole per la sua stessa dolcezza, e basta assaggiarlo per levarsene la voglia. Perciò ama moderatamente; l’amore che dura fa cosí; chi ha troppa fretta, arriva tardi come chi va troppo adagio. Entra GIULIETTA. Ecco la donzella. Oh! un piede cosí leggero non consumerà mai la pietra che dura eterna. Un amante potrebbe cavalcare il filo di ragnatelo che vola per l’aria al tenue soffio d’estate, e non cadere: tanto è leggera la vanità.

Giulietta.
434Buona sera mio confessore spirituale.

Frate Lorenzo.
435Figliuola mia, Romeo ti ringrazierà per tutti e due.

Giulietta.
436Altrettanto anche a lui, se no i suoi ringgraziamenti saranno di troppo.

Romeo.
437Ah! Giulietta, se la tua gioia è al colmo come la mia, e se tu sei piú abile di me a dipingerla con la parola, allora profuma del tuo alito l’aria che ne circonda, e il linguaggio della tua ricca musica descrica la ideale felicità che noi due riceviamo, l’uno da l’altra, per mezzo di questo caro incontro.

Giulietta.
438L’immaginazione, piú ricca di sostanza che di parole, va superba della sua essenza e non di ornamenti esteriori: sono ben poveri coloro che possono contare le proprie ricchezze; ma il sincero amor mio è giunto ad un tale eccesso, che io non posso calcolare neppur la metà della somma delle mie ricchezze.

Frate Lorenzo.
439Venite, venite con me, e ci sbrigheremo, poiché, con vostra licenza, voi non resterete soli, finché la santa chiesa non abbia fatto di voi due una persona sola.

(Escono).

ATTO TERZO

SCENA I.

— Una piazza pubblica..
Entrano MERCUZIO, BENVOLIO, un paggio e alcuni servi.

Benvolio.
440Te ne prego, buon Mercuzio, ritiriamoci: la giornata è calda, i Capuleti son fuori di casa, e, se ci incontriamo, non potremo evitare una rissa; poiché in queste giornate di caldo il sangue, inviperito, ribolle.

Mercuzio.
441Tu somigli ad uno di quei compagni, che appena varcato il limitare della taverna, mi sbattono la spada sulla tavola, e dicono: «Dio faccia che io non abbia bisogno di te!» e per effetto del secondo bicchiere, la tiran fuori per saltare addosso al ragazzo del cantiniere, senza che in verità ve ne sia bisogno.

Benvolio.
442Somiglio ad un compagno di questo genere?

Mercuzio.
443Via, via, tu col tuo carattere sei un campione cosí focoso, che l’Italia non ha l’uguale: tanto pronto ad essere eccitato al cattivo umore, quanto pronto ad avere l’umore cattivo per divenire eccitato.

Benvolio.
444E che altro ancora?

Mercuzio.
445Nulla; e se ci fossero due uomini di questa fatta, resteremmo presto senza nessuno dei due, poiché uno ucciderebbe l’altro. Tu, insomma: attaccheresti lite con uno, perché ha nella barba unpelo di piú o un pelo di meno di quello che tu hai nella tua. Leticheresti con uno che schiaccia le noci, soltanto per il fatto che tu hai gli occhi color nocciola; ora, quale occhio, che non fosse come quello tuo, scoverebbe un motivo come questo per attaccar briga? La tua testa è piena di litigi, come un uovo è pieno di sostanza; eppure, a forza di leticare, è ridotta vuota come un guscio d’uovo. Hai fatto lite con un uomo che aveva tossito per la strada, perché con la sua tosse aveva svegliato il tuo cane che dormiva sdraiato al sole. Non ti sei preso a parole con un sarto, perché s’era messo la sua giubba nuova prima di Pasqua? Con un altro non hai avuto che dire, perché s’era legato le scarpe nuove con dei lacci vecchi? E vieni a predicare a me, di non fare l’attaccabrighe!

Benvolio.
446Se io fossi pronto ad attaccar lite come sei tu, potrei vendere il feudo assoluto e semplice della mia vita, al primo che volesse comprarlo, per un’ora e un quarto di esistenza.

Mercuzio.
447Il feudo assoluto e semplice? O semplicione d’un uomo!

Benvolio.
448Per la mia testa, ecco qua i Capuleti.

Mercuzio.
449Per i miei talloni, non me ne curo.

Entrano Tebaldo ed altri.

Tebaldo.
450Statemi accanto, perché voglio parlare con loro. — Signori, buon giorno; una parola con uno di voi.

Mercuzio.
451Non piú che una parola, e con uno solo di noi? Accompagnatela, almeno, con qualche altra cosa; fate: una parola e un colpo di spada.

Tebaldo.
452Mi troverete discretamente pronto anche a questo, signore, se vorrete darmene l’occasione.

Mercuzio.
453Non potreste pigliarvela da voi, qualche occasione, senza che vi fosse data?

Tebaldo.
454Mercuzio, tu hai degli accordi con Romeo...

Mercuzio.
455Degli accordi! Che, ci hai preso per dei menestrelli? Se tu ci dredi menestrelli, bada che tu non abbia a sentire altro che delle stonature; ecco l’arco del mio violino; e questo è quello che ti farà ballare. Altro che accordi!

Benvolio.
456Noi stiamo parlando in un pubblico ritrovo di gente: o ritiriamoci in un luogo appartato, e ragionate dei vostri guai con un po’ di calma, oppure separiamoci: qui tutti gli occhi ci guardano.

Mercuzio.
457Gli occhi furono fatti agli uomini per guardare, lasciate, dunque, che guardino; io non mi muovo per il comodo di nessuno, io.

Entra ROMEO.

Tebaldo.
458Ebbene, la pace sia con voi, signore; ecco qua il mio uomo.

Mercuzio.
459Ma io mi farò impiccare, signore, se egli indossa la vostra livrea. Su, andate voi per primo sul terreno, ed egli sarà al vostro seguito: allora Vosignoria potrà chiamarlo in questo senso il suo uomo.

Tebaldo.
460Romeo, l’amore che io ti porto, non mi sa porgere un’ espressione migliore di questa: tu sei un vile.

Romeo.
461Tebaldo, la ragione che io ho di amarti, è una grande scusa per la collera onde converrebbe rispondere ad un saluto come questo. Io non sono un vile; perciò addio: vedo che non mi conosci.

Tebaldo.
462Ragazzo, questo non potrà scusare l’onta che tu mi hai fatto; perciò voltati e tira fuori la spada.

Romeo.
463Io dichiaro di non averti mai offeso, e ti voglio bene piú di quello che tu non potrai comprendere, finché non saprai la ragione del mio bene: e questo, mio buon Capuleti (nome che io preferisco caramente come il mio nome stesso), ti basti.

Mercuzio.
464O fredda, disonorante, ignobile sottomissione! Ah! la stoccata può portarsela via! (Tira fuori la spada). Tebaldo, acchiappa-topi, vuoi fare una passeggiata?

Tebaldo.
465Che cosa vuoi da me?

Mercuzio.
466Buon re dei gatti, nient’altro che una delle tue nove vite, con la quale è mia intenzione di prendermi qualche libertà: poi, secondo il modo con cui mi tratterai in seguito, penserò a picchiare di santa ragione sulle altre otto. Vuoi prender per gli orecchi la tua spada e strapparla fuori dalla sua pelliccia? Fa’ presto, che la mia non t’ abbia a ronzare intorno agli orecchi, prima che la tua sia fuori.

Tebaldo.
467Sono a tua disposizione.

(Tirando fuori la spada).

Romeo.
468Caro Mercuzio, metti giù la tua spada.

Mercuzio.
469Orsú, signore, la vostra botta.

(Si battono).

Romeo.
470Benvolio, fuori la spada; abbassa con un colpo i loro ferri. Signori, risparmiate, per vergogna, questo scandalo! Tebaldo, Mercuzio, il principe ha proibito assolutamente questi chiassi per le vie di Verona. Fermo Tebaldo! e tu mio buon Mercuzio...

(Escono TEBALDO e i suoi partigiani).

Mercuzio.
471Sono ferito; al diavolo le vostre due famiglie! Sono spacciato: e costui se n’è andato, e non ha nulla?

Benvolio.
472Che! sei ferito?

Mercuzio.
473Sí, sí, uno sgraffio, uno sgraffio; ma per Dio è tanto quanto basta. Dov’è il mio paggio? Va’, ragazzaccio, cerca un medico.

(Il paggio esce).

Romeo.
474Coraggio, amico; la ferita non può essere grave.

Mercuzio.
475Oh no! non è profonda come un pozzo, né larga come la porta di una chiesa; ma può bastare, e non ci sarà bisogno d’altro. Domandate di me, domani, e troverete che son divenuto un uomo serio, e muto come una tomba. Vi garantisco che son condito per bene per questo monod. Maledizione alle vostre due famiglie! Per Dio! Un cane, un topo, un sorcio, un gatto, graffiare a morte un uomo a questo modo! Un fanfarone, un mascalzone, un briccone come lui, che si batte con la precisione della matematica! — Perché diavolo ti sei cacciato fra noi due? Io sono stato ferito di sotto al tuo braccio.

Romeo.
476Pensai che tutto questo fosse per il meglio.

Mercuzio.
477Benvolio, aiutami a trascinarmi in qualche casa, o verrò meno qui. Maledizione a tutte e due le vostre famiglie! Esse mi hanno ridotto cibo per i vermi: l’ho avuta, ed anche bella forte. Le vostre famiglie! ...

(Escono MERCUZIO e BENVOLIO).

Romeo.
478Questo gentiluomo, prossimo parente del principe, e mio vero amico, ha ricevuto quella ferita mortale per difendere me; l’ onor mio è macchiato dall’ onta di Tebaldo, di Tebaldo che è divenuto mio cugino da un’ ora. O mia diletta Giulietta, la tua beltà ha fatto di me un effemminato, e ha indebolito nell’animo mio la tempra del valore.

Rientra BENVOLIO.

Benvolio.
479O Romeo, Romeo, il prode Mercuzio è morto: quel generoso spirto, che troppo prematuramente ha disprezzato quaggiù la terra, ha raggiunto le nubi.

Romeo.
480L’oscuro fato di questo giorno pende sorpa ben altri giorni ancora: questo non segna che il principio della sventura, alla quale altri giorni dovranno mettere fine.

Rientra TEBALDO.

Benvolio.
481Ecco qua di nuovo il furente Tebaldo.

Romeo.
482Vivo, e trionfante! E Mercuzio ucciso! Ritorna al cielo, o circospetta mitezza; e tu, o furia dall’occhio di fiamma, sii ora mia guida! O Tebaldo, riprenditi ora il «vile» che mi hai dato dianzi! Poiché l’anima di Mercuzio è a poca distanza sopra le nostre teste, e aspetta che la tua vada a fargli compagnia; o tu, od io, o tutti e due, dobbiamo raggiungerlo.

Tebaldo.
483Tu, sciagurato ragazzo, tu che gli fosti compagno quaggiù, te ne anderai a lui di qua.

Romeo.
484Questa deciderà.

(Si battono; TEBALDO cade).

Benvolio.
485Romeo, vattene, fuggi! I cittadini si levano a rumore, e Tebaldo è ucciso: non te ne stare costi stupito: se ti pigliano, il principe ti condannerà a morte. Vattene! fuggi! scappa!

Romeo.
486Oh! io sono lo zimbello della fortuna!

Benvolio.
487Ma perché rimani?

(ROMEO esce).
Entrano cittadini etc.

Primo cit.
488Da qual parte è fuggito colui che ha ucciso Mercuzio? Tebaldo, quell’ assassino, dov’ è scappato?

Benvolio.
489Eccolo là per terra quel Tebaldo.

Primo cit.
490Su, signore, venite con me; ve l’ ordino in nome del principe, obbedite.

Entrano il PRINCIPE col suo seguito; il MONTECCHI, il CAPULETI, le loro mogli, ed altri.

Principe.
491Dove sono i vili eccitatori di questa rissa?

Benvolio.
492Nobile principe, io posso spiegarvi lo sciagurato svolgimento di questa fatale contesa. Ecco là disteso, ucciso per mano del giovane Romeo, l’uomo che ha ammazzato il parente vostro, il prode Mercuzio.

Donna Capuleti.
493Tebaldo, il mio nipote! O il figlio del fratello mio! Ohimé principe! Nipote, marito! Oh! si è versato il sangue del mio caro parente. — Principe, se voi siete giusto, per il sangue nostro fate scorrere sangue del Montecchi. O nipote, nipote!

Principe.
494Benvolio, chi è che ha cominciato questa rissa sanguinosa?

Benvolio.
495Tebaldo qui morto, ucciso dalla mano di Romeo; di Romeo che gli parlava con buona maniera, che lo esortava a riflettere quanto fosse sciocca quella lite, e gli metteva innanzi perfino il grande dispiacere vostro: tutto questo, sebbene espresso con accento cortese, con lo sguardo tranquilo, coi ginocchi umilmente piegati, non valse a portare tregua alla rabbia sfrenata di Tebaldo, che fu sordo alla pace, finchè ad un tratto vibra un colpo, con l’ acuto acciaio, al petto del valoroso Mercuzio. — Questi, furente del pari, oppone mortalmente punta a punta, e, con marziale disprezzo, d’una mano disvia la fredda morte, dell’ altra la ricaccia contro Tebaldo, la cui destrezza la respinge. Allora Romeo grida ad alta voce: «Fermi, amici, amici, separatevi!» e più veloce della sua lingua, il suo agile braccio abbasa con un colpo le loro punte fatali, ed egli si scaglia fra loro due: intanto di sotto al suo braccio una fiera botta tirata de Tebaldo colpisce la vita del valoroso Mercuzio, e Tebaldo fugge: ma tosto torna indietro verso Romeo, che proprio allora aveva accarezzato l’idea della vendetta, e alla vendetta corrono tutti e due come un lampo, tanto che prima che io avessi il tempo di tirar fuori la spada per separarli, l’accanito Tebaldo era ucciso; e poichè egli fu caduto, romeo si volse e fuggí. Questa è la verità, e se non è, Benvolio possa morire qui!

Donna Capuleti.
496Costui è un parente del Montecchi, l’affetto lo rende mendace, egli non dice il vero: almeno venti persone si sono azzuffate in questa funesta contesa, e tutte e venti insieme a stento riuscirono ad uccidere una vita. Io domando un atto di giustizia, che voi, principe, dovete compiere: Romeo ha ucciso Tebaldo, Romeo non deve avere il diritto di vivere.

Principe.
497Romeo ha ucciso lui, ma Tebaldo ha ucciso Mercuzio; chi, ora, dovrà pagare il suo prezioso sangue?

Montecchi.
498Non Romeo, principe: egli era amico di Mercuzio; la sua colpa non ha altra conseguenza, che quella alla quale avrebbe dovuto giungere la legge, cioè la morte di Tebaldo.

Principe.
499E per questa offesa alla legge, noi lo mandiamo immediatamente in esilio da questa città; gli effetti di questo vostro odio hanno toccato anche me: per causa dei vostri aspri litigi oggi è corso il mio sangue; ma io vi farò fare ammenda con una multa cosí forte, che dovrete pentirvi tutti della perdita che io ho fatto. Io sarò sordo a ragioni e a scuse; nè lacrime nè preghiere varranno a riscattare la violazione della legge: quindi risparmiatevele. Romeo se ne vada in fretta di qua, altrimenti, l’ora in cui verrà trovato qui, sarà l’ultima della sua vita. Si porti via di qua quel corpo, e sia eseguita la volontà nostra: la pietà non fa che commettere un assassinio, quando perdona a chi uccide.

(Escono).

SCENA II.

— Giardino dei Capuleti.
Entra GIULIETTA.

Giulietta.
500Tornate di galoppo, o voi corsieri dai piedi di fiamma, alla dimora di Febo: un cocchiere come Fetonte vi avrebbe già cacciati a colpi di frusta nell’occidente, e avrebbe immediatamente ricondotta la fosca notte. — Stendi la tua cortina, o notte, sacerdotessa d’amore; affinchè gli occhi del fuggitivo giorno possan chiuder le palpebre, e Romeo balzi fra queste braccia, senza che alcuno si occupi di lui e lo veda. — Gli amanti, per compiere i loro riti amorosi, ci vedono abbastanza al lume della loro beltà: se poi l’amore è cieco, tanto meglio si accorda con la notte, Vieni, o notte solenne, o matrona dal severo abbigliamento, tutta vestita di nero, e insegnami a perdere un’ attraente partita, nella quale si giuocano due verginità senza macchia. Copri col tuo nero manto il mio vergine sangue, che si dibatte nelle mie guancie, finchè il timido amore, fattosi ardito, si convinca che l’amore sincero ha compiuto un atto di semplice pudore. Vieni, o notte, vieni, o Romeo, tu che sarai il giorno nella notte, poichè riposerai sulle ali della notte, piú bianco che recente neve sul dorso di un corvo. Vieni, o gentile notte, vieni o amabile notte dalla nera fronte, dammi il mio Romeo; e quando egli morrà, prendilo e taglialo in piccole stelle, ed egli renderà cosí bella la faccia del cielo, che tutto il mondo s’innamorerà della notte, e non presterà piú nessun culto allo splendido sole. Oh! io ho comprato un palazzo d’amore, ma non lo posseggo: ed io, sebbene venduta, ancora non sono goduta da colui che mi ha acquistata: questo giorno è cosí tediosamente lungo, come lan otte che precede un giorno di festa, per un fanciullo impaziente il quale ha un vestito nuovo, e non vede l’ora di metterselo. — Oh! ecco qua la mia nutrice: essa mi porta notizie, e per me ogni lingua che pronunzi soltanto il nome di Romeo, parla con una eloquenza celeste. Entra la nutrice con delle candele. Ebbene, nutrice, che nuove? Che cosa c’è lì? Le corde che Romeo ti disse di cercare?

Nutrice.
501Sí, sí, le corde.

(Le bulta in terra).

Giulietta.
502Ahimé! che notizie mi porti? perché ti torci le mani cosí?

Nutrice.
503Ah! maledizione! egli è morto, è morto, è morto. Siamo perdute, signora, siamo perdute! — Ah, maledetto giorno! egli se n’é anadato, è ucciso, è morto.

Giulietta.
504Il cielo può essere cosí malvagio?

Nutrice.
505Romeo può esserlo, se non lo può essere il cielo. — O Romeo, Romeo! — Chi l’ avrebbe mail pensato! — Romeo!...

Giulietta.
506Qual diavolo sei tu, che mi tormenti in questo modo? Una simile tortura dovrebbe ruggire nel buio dell’inferno. — Forse Romeo è ucciso? Rispondi soltanto «sí», e questa semplice sillaba avrà un veleno piú potente degli occhi del basilisco, che scagliano dardi di morte. Io non esisto più, se esiste un tale «sí», o se si chiusero quegli occhi, che ti fanno rispondere «sí». S’ egli è ucciso, dimmi «sí», se no, dimmi «no»: due parole cosí brevi decidono della mia gioia o del mio dolore.

Nutrice.
507Io ho visto la ferita, l’ho vista con gli occhi miei. (Dio salvi la croce!) qui sul suo robusto petto: un cadavere che fa pietà, un miserando cadavere sanguinante; livido, livido come la cenere, tutto lordo di sangue, tutto grumi di sangue: a quella vista sono svenuta.

Giulietta.
508Oh, spezzati, cuore mio! povero sciagurato, spezzati all’istante! In prigione, occhi miei, voi non dovete piú vedere la libertà! Vile terra, ritorna alla terra, cessa qui stesso d’ essere animata, e tu e Romeo gravate del vostro peso una sola bara!

Nutrice.
509O Tebaldo, Tebaldo, il migliore amico che avevo! O gentile Tebaldo! onesto gentiluomo! Cosí io non fossi mai vissuta per vederti morto!

Giulietta.
510Che uragano è mai questo che imperversa con sí contrari venti? Romeo è ucciso, e Tebaldo è morto? Il mio ben amato cugino, e il mio signore a me piú caro ancora? Allora, o terribile tromba, suona il giudizio universale! poiché chi è ancora vivo, se loro due non sono piú?

Nutrice.
511Tebaldo è morto, e Romeo è bandito: Romeo il quale lo uccise, è mandato in esilio.

Giulietta.
512O Dio! la mano di Romeo ha versato il sangue di Tebaldo?

Nutrice.
513Sí, sí, oh maledetto giorno, essa lo ha versato!

Giulietta.
514O cuore di serpe nascosto sotto una faccia fiorente di bellezza! Un drago abitò mai una caverna cosí bella? O tiranno pieno di beltà! Demonio dalle forme di angelo! Corvo dalle piume di colomba! Agnello dalla voracità di un lupo! Spregevole sostanza di una apparenza divina! Opposto preciso di quello che tu sembri! Santo dannato! Onorevole ribaldo! — O natura, che cosa puoi tu fare nell’inferno, se hai dato ricetto allo spirito di un demonio nel paradiso mortale di un corpo cosí bello? — Ci fu mai libro cosí ben rilegato, che contenesse materia tanto vile? È egli possibile, che la perfidia abiti un sí splendido palazzo! —

Nutrice.
515Non c’è piú lealtà, piú fede, piú onestà negli uomini: sono tutti spergiuri, tutti menzogneri, tutti bricconi matricolati, tutti ipocriti. — Ah, dov’è il mio servo? Datemi un po’ d’acquavite: questi dolori, queste pene, queste angosce mi fanno diventar vecchia. La vergogna cada su Romeo!

Giulietta.
516Ti si secchi la lingua per questo tuo voto! Egli non è nato per l’onta! L’onta si vergognerebbe di sedere sulla sua fronte; poiché essa è un trono, sul quale l’onore potrebbe essere incoronato monarca assoluto dell’universo. Ah! qual mostro sono io stata ad inveire contro di lui!

Nutrice.
517Vi metterete a dir bene di colui che ha ucciso il vostro cugino?

Giulietta.
518Dovrò dir male di colui che è mio marito? Ah! mio povero signore, quale lingua accarezzerà il nome tuo, se io, che sono tua moglie da tre ore, no ho fatto scempio? Ma perché, iniquo, uccidesti il cugino mio? Quello sciagurato cugino avrebbe voluto uccire mio marito: indietro, stolte lacrime, tornate alla vostra sorgente natia; le vostre stille sono un tributo che appartiene al dolore, e voi per errore l’ offrite alla gioia. Vive mio marito, che Tebaldo avrebbe voluto uccidere, ed è morto Tebaldo, che avrebbe voluto uccidere mio marito; tutto ciò è una notizia consolante, perché piangere dunque? Vi fu una parola piú funesta della morte di Tebaldo, che mi uccise: io vorrei ben dimenticarla, ma ahimè essa pesa sulla mia memoria, come un esecrando delitto pesa sulla coscienza del colpevole: «Tebaldo è morto, e Romeo bandito»; quel «bandito», quell’ unica parola «bandito», ha ucciso diecimila Tebaldi! La notizia della morte di Tebaldo era un dolore abbastanza grande, se fosse finita li: ma se il dolore si compiace della compagnia, e vuole ad ogni costo trovarsi insieme con altri dolori, perché quando ella disse: «Tebaldo è morto», non aggiunse anche: «è morto tuo padre» o «è morta tua madre» ovvero «sono morti tutti e due?» Questo, almeno, mi avrebbe fatto piangere come tutti gli altri: ma quell’ ultima parte che seguí la morte di Tebaldo, que «Romeo è bandito», oh! il pronunziare quella parola, equivale a dire: padre, madre, Tebaldo, Romeo, Giulietta, sono tutti uccisi, tutti morti! «Romeo è bandito» Oh! non c’è fine, non c’è limite, non c’è misura, non c’è confine nella potenza mortale di questa parola! non vi sono parole che possano esprimere un dolore come questo. — Nutrice, dove sono mio padre e mia madre? —

Nutrice.
519A piangere e disperarsi sul cadavere di Tebaldo. Volete andare da loro? Vi condurrò là.

Giulietta.
520Bagnino pure lacrime le sue ferite: quando gli occhi loro si saranno disseccati, verserò io le mie per l’esilio di Romeo. — Raccogli quelle corde. Povere corde, anche voi siete state ingannate come me, poiché Romeo è esiliato: egli avea fatto di voi una via aerea per giungere al mio letto; ma io, fanciulla, muoio fanciulla e vedova. Venite corde, vieni nutrice, io vado al mio letto nuziale; e la morte, non Romeo, s’abbia la mia verginità!

Nutrice.
521Andate in camera vostra: io anderò in cerca di Romeo, perchè venga a confortarvi; io so bene dov’egli è. Ascoltatemi, il vostro Romeo stanotte sarà qui: vado da lui; egli è nascosto nella cella di frate Lorenzo.

Giulietta.
522Oh, trovalo! da’ questo anello al mio fedele cavaliere, e digli che venga a prendere il suo ultimo addio.

(Escono).

SCENA III.

— La cella di frate Lorenzo.
Entrano frate LORENZO e ROMEO.

Frate Lorenzo.
523Romeo vieni fuori; esci, timoroso uomo: il dolore s’ è innamorato delle tue qualità, e tu hai sposato la sventura.

Romeo.
524Padre, quali notizie? Qual’ è la sentenza del principe? Qual dolore, che io non conosca ancora, chiede di stringermi la mano per fare la mia conoscenza?

Frate Lorenzo.
525Il mio caro figliuolo è anche troppo famigliare con la triste compagnia di questo genere; io ti porto notizie del giudizio del principe.

Romeo.
526Quanto è meno grave del giudizio universale il giudizio del principe?

Frate Lorenzo.
527Una mite sentenza usci dalle sue labbra: non la morte del corpo, ma l’ esilio del corpo.

Romeo.
528Ah! l’ esilio? abbi pietà, di’ piuttosto la morte; poiché c’è piú terrore nello sguardo dell ‘esilio, molto piú terrore, che nella morte: non dire l’ «esilio».

Frate Lorenzo.
529Tu sei esiliato di qui, da Verona; abbi pazienza, il mondo è grande e vasto.

Romeo.
530Non esiste mondo fuori delle mura di Verona: non c’ è che purgatorio, supplizio, l’inferno stesso. Essere esiliato di qui, vuol dire essere esiliato dal mondo; e l’ estilio dal mondo è la morte: l’ esilio è dunque una morte sotto falso nome. Chiamando la morte «esilio» tu mi tagli la testa con una scure d’oro, e sorridi al colpo che mi assassina!

Frate Lorenzo.
531O peccato mortale! O grossolana ingratitudine! Per la tua colpa la nostra legge reclama la morte; ma il buon principe, prendendo le tue parti, ha gettato in un canto la legge, ed ha cambiato la sinistra parola «morte» in «esilio»: questa è vera clemenza, e tu non lo vedi!

Romeo.
532È tortura, e non clemenza: il cielo è qui dove vive Giulietta; ed ogni gatto, ogni cane, il piú piccolo topo, l’essere piú insignificante, vve qui nel cielo e può contemplare Giulietta, ma Romeo non può. C’è piú riguardo, piú dignità, piú cortesia per le mosche che volano intorno a una carogna, che per Romeo: esse possono posarsi sopra quella meraviglia di candidezza che è la mano della cara Giulietta, possono rubare una gioia immortale alle sue labbra, che si fanno anche piú rosse, nel loro pudore puro e verginale, quasi credessero che quei loro baci sono un peccato; ma Romeo non può; egli è esiliato: tali gioie possono sottrarre a lei le mosche, mentre io debbo sttrarmi a tali gioie. Esse son libere, ma io sono esiliato: e tu seguiti a dirmi che l’ esilio nonè la morte? Non avevi tu, pre uccidermi, una bevanda avvelenata, un coltello affilato, un altro mezzo qualunque di morte pronta, ma tuttavia non mai cosí ignominosa? Non avevi altro che questa parola: «esiliato?» «esiliato?» Questa parola, o padre, la pronunziano i dannati nell’ inferno, e un urlo di dolore l’accompagna. Come hai tu dunque il coraggio, tu che sei un sacerdote, un confessore dell’anima, uno che assolve i peccati, tu che ti professi mio amico, di straziarmi con codesta parola «esiliato?»

Frate Lorenzo.
533O uomo pazzo dalla passione, ascolta, lasciami dire una sola parola.

Romeo.
534O, ma tu parlerai ancora di esilio.

Frate Lorenzo.
535Ti darì un’ armatura, che ti protegga da questa parola; ti darò il dolce latte della sventura, la filosofia, che ti consolerà, sebbene tu sia esiliato.

Romeo.
536Ancora «esiliato?» Alla forca la filosofia! Se non può farmi una Giulietta, se non può cambiare di posto una città, annullare la sentenza di un principe, la filosofia non giova a nulla, non può nulla; non me ne parlare.

Frate Lorenzo.
537Oh veggo bene che i pazzi non hanno orecchie?

Romeo.
538Come potrebbero averle, se i saggi non hanno occhi?

Frate Lorenzo.
539Lasciami discutere con te della tua situazione.

Romeo.
540Tu non puoi parlare di ciò che non senti: se tu fossi giovane come me, e Giulietta fosse l’amor tuo, se tu fossi maritato soltanto da un’ ora, e avessi ucciso Tebaldo; se tu fossi pazzo di amore come sono io, e come me esiliato, allora potresti parlare, allora potresti strapparti i capelli, e gettarti per terra, come fo io ora, per prendere la misura di una fossa non ancora scavata.

(Battono a la porta).

Frate Lorenzo.
541Alzati, picchiano alla porta; mio buon Romeo, nasconditi.

Romeo.
542Io no; a meno che l’ alito dei miei angosciosi sospiri mi avvolga come una nube, e mi sottragga all’ indagine degli occhi.

(Battono ancora).

Frate Lorenzo.
543Senti, come picchiano! Chi è? — Romeo, alzati; saria arrestato. — Aspettate un momento! — Alzati; corri nel mio studio. (Battono ancora). — Adesso! — Sia fatta la volontà di Dio, che maniera è questa? Vengo, vengo! (Battono). Chi è che batte in questo modo? Da parte di chi venite? Che cosa volete?

Nutrice.
544 (Di dentro). Fatemi entrare, e saprete la mia imasciata; vengo da parte della signora Giulietta.

Frate Lorenzo.
545Siate la benvenuta, allora.

Entra la nutrice.

Nutrice.
546Oh santo padre, oh, ditemi, santo padre, dov’ è lo sposo della mia signora, dov’ è Romeo?

Frate Lorenzo.
547È là per terra ubriaco delle sue lacrime.

Nutrice.
548Oh! nello stato identico della mia signora, proprio nello stato di lei!

Frate Lorenzo.
549Oh! quale simpatia di dolore! quale pietosa situazione!

Nutrice.
550Proprio cosí essa giace per terra: singhiozzando e piangendo, piangendo e singhiozzando. — Alzatevi, alzatevi; alzatevi, se siete un uomo, per amore di Giulietta, per amor suo, alzatevi e state in piedi; perchè abbandonarsi ad una disperazione cosí profonda?

Romeo.
551Nutrice!

Nutrice.
552Ah signore! Ah signore! Via, la morte soltanto è la fine di tutto.

Romeo.
553Parlavi di Giulietta? Come ha preso la cosa? Non mi crede un provetto assassino, ora che ho macchiato l’infanzia della nostra gioia con un sangue che è quasi il suo? Dov’ è? Come sta? e che cosa dice, la mia furtiva sposa, del nostro amore spezzato?

Nutrice.
554O essa non dice nulla, signore, non fa che piangere e piangere; ora si lascia cadere sul suo letto, ora balza in piedi ad un tratto, e si mette a chiamare Tebaldo; poi grida il nome di Romeo, e ricade giú un’ altra volta.

Romeo.
555Quasi che quel nome, scaricatole addosso dalla canna letale di un fucile, l’ assassinasse, come la mano maledetta di colui che porta quel nome ha assassinato suo cugino. — Oh! ditemi, padre, ditemi: in qual vile parte di questa carcassa alberga il nome mio? ditemelo, ch’ io possa mettere a sacco la sua odiosa abitazione.

(Sguainando la spada).

Frate Lorenzo.
556Ferma la tua mano disperata! Sei tu un uomo? La tua sembianza grida di sí: ma le tue lacrime sono proprio di una femminuccia; i tuoi atti violenti dimostrano l’ insensato furore di una belva. Oh donna indegnamente nascosta sotto la figura apparente di un uomo! o, meglio, belva deforme sotto l’ aspetto di entrambi! Tu mi hai fatto stupire: pel sacro ordine al quale appartengo, io ti credevo di un carattere meglio temprato. Hai ucciso Tebaldo? ed ora vuoi uccidere te stesso? vuoi uccidere la donna tua, che vive della tua vita, commettendo un atto di odio maledetto contro te stesso? Perchè maledici la tua nascita, il cielo e la terra? Nascita, cielo e terra, tutti e tre in un solo istante si sono incontrati in te, e tu in un solo istante vuoi perderli? Via, via! tu rechi oltraggio alla tua bella persona, al tuo amore, al tuo senno; di questi doni onde sei tanto ricco, tu, simile all’ usuraio, in verità non fai di nessuno quel legittimo uso, che dovrebbe ornare anche di piú la tua persona, il tuo amore, il tuo senno. La tua bella persona non è che un’ immagine di cera, poiché ha fatto divorzio da ciò che è l’ essenza umana: il tenero amore che giurasti, altro non è che un perfido spergiuro, poiché uccide la donna che tu hai fatto voto di amare teneramente; il tuo senno, quest’ornamento della bellezza e dell’ amore, guastato da loro due, ha preso fuoco per la tua inesperienza, come la polvere dentro la fiasca di un inesperto soldato, e tu squarci le tue membra con l’ arme stessa che è la tua propria difesa. Andiamo, alzati, giovinotto! La tua Giulietta vive, la tua cara Giulietta, per amor della quale pur ora morivi: per questa parte, dunque, tu sei felice. Tebaldo voleva uccidere te, tu, invece, hai ucciso Tebaldo: anche in questo tu sei felice. La legge che ti minacciava di morte, ti si fa amica, e cambia la morte in esilio: tu sei felice anche in ciò. Un sacco di benedizioni, dunque, ti casca addosso dal cielo; la fortuna ti fa la corte, vestita dei suoi abiti piú belli; e tu, come una ragazzaccia sgarbata e dispettosa, fai il broncio alla tua fortuna e al tuo amore. Bada, sta’ attento, perché la gente fatta cosí finisce male. Andiamo, va’ dalla tua amata, come era stato fissato, sali nella sua camera, e procura di consolarla. Ma bada di non tratternerti fino al momento in cui monta la guardia, poiché allora non potresti piú uscire di li per andare a Mantova, dove tu rimarrai, finché troveremo il momento opportuno per rivelare il vostro matrimonio, per riconciliare i vostri amici, per implorare dal principe il perdono, e poterti far ritronare dall’ esilio con una gioia a mille doppi piú grande del pianto in mezzo al quale partisti. — Tu va’ innanzi, nutrice: riveriscimi la tua signora, e dille di mandar tutti quelli di casa a letto presto, cosa alla quale saranno disposti, per il dolore che li opprime; Romeo viene.

Nutrice.
557O Signore mio, sarei rimasta qui tutta la notte ad ascoltare questi buoni consigli: oh, che gran cosa è l’ sitruzione ¡ — Signor mio, dirò alla mia padrona che voi venite.

Romeo.
558Diglielo, e avvertila che si prepari a farmi una gridata.

Nutrice.
559A voi, signore, questo è un anello che essa mi ordinò di dare a voi, signore: sbrigatevi, fate presto, perché si sta facendo molto tardi. (Esce).

Romeo.
560Oh, come la speranza si ravviva in me per questo dono.

Frate Lorenzo.
561Va’, buona notte; e ricordati che tutto il vostro destino sta qui: o tu vai via prima che sia montata la guardia, o allo spuntar del giorno fuggi di qui travestito: fermati a Mantova; io farò ricerca del tuo servitore, ed egli ti riferirà di tanto in tanto tutto ciò che di bene per te accade qui. Dammi la mano, è tardi; addio, buona notte.

Romeo.
562Se una gioia superiore ad ogni altra non mi chiamasse, per me sarebbe un dolore, separarmi da voi cosí in fretta.

(Escono).

SCENA IV.

— Una stanza in casa Capuleti.
Entrano il CAPULETI, DONNA CAPULETI, e PARIDE.

Capuleti.
563Che volete, signore, le cose sono precipitate cosí sinistramente, che noi non abbiamo avuto il tempo di interrogare nostra figlia. Vedete, essa amava teneramente il suo cugino Tebaldo, ed io lo stesso. — Ebbene, siamo nati per morire. — È molto tardi; stasera essa non scenderà piú: vi garantisco, che se non fosse per la vostra compagnia, io sarei stato a letto da un’ ora.

Paride.
564Questi momenti di dolore non consentono il tempo di parlare di nozze. Signora, buona notte: ricordatemi alla vostra figliuola.

Donna Capuleti.
565Lo farò, e domattina per tempo saprò il suo pensiero; questa sera essa si è chiusa nel suo dolore.

Capuleti.
566Signor Paride, io vi faccio risolutamente offerta formale dell’ amore di mia figlia: credo che essa si lascerà regolare da me; anzi, non ne dubito. — Moglie mia, voi prima di andare a letto recatevi da lei; fatele noto l’amore di mio figlio Paredi; ed avvertitela, statemi bene attenta, che mercoledi prossimo..., ma adagio, che giorno è oggi?

Paride.
567Lunedí, signore mio.

Capuleti.
568Lunedí? eh! eh! allora mercoledí è troppo presto: sarà per giovedí; ditele che giovedí ella sarà maritata a questo nobile conte... — Voi sarete pronto? Vi fa piacere questa sollecitudine? Non faremo gran festa: un amico o due; perché, vedete essendo cosí poco tempo che Tebaldo è stato ucciso, si potrebbe pensare che c’importasse poco di lui, benché nostro cugino, se si facessero delle feste molto rumorose: perciò una mezza dozzina di amici, e basta. — Ma che cosa dite giovedí?

Paride.
569Signor mio, vorrei che giovedí fosse domani.

Capuleti.
570Sta bene, andate pure: allora siamo intessi per giovedí. — Moglie mia, prima di andare a letto recatevi da Giulietta, e preparatela al giorno delle nozze che abbiamo fissato per lei. — Addio, signore. — fate lume in camera mia! ehi! — In fede mia, è cosí tardi, che fra poco si potrebbe dire che è presto. — Buona notte.

(Escono).

SCENA V.

— Il giardino dei Capuleti.
Entrano ROMEO e GIULIETTA in alto, alla finestra di camera.

Giulietta.
571Vuoi già partire? Il giorno non è ancora vicino: era l’ usignuolo, e non l’ allodola, quello che ti ha ferito col suo canto l’ orecchio trepidante; esso canta tutte le notti su quel melograno laggiú: credi, amor mio, era l’ usignuolo.

Romeo.
572Era l’ allodola, messaggera del mattino, non l’ usignuolo: guarda, amore, come quelle strisce di luce, invidiose della nostra gioia, cingono di una frangia luminosa le nubi che si disperdono, laggiú nell’ oriente; i lumi della notte si sono spenti a poco a poco, e il dí giocondo si affaccia in punta di piedi sulle nebbiose cime delle montagne: io debbo partire e vivere, o restare e morire.

Giulietta.
573Quella luce laggiú non è la luce del giorno, io lo so bene: è qualche meteora che il sole emana, affinché stanotte essa ti sia come una face, e rischiari la via a te in cammino per Mantova: perciò rimani ancora, non è vero che tu devi partire ad ogni costo.

Romeo.
574Mi prendano pure, mi mettano a morte: io sono contento, se tu vuoi cosí. Dirò che quel bagliore laggiú non è l’ occhio del mattino, ma il pallido riflesso della fronte di Cinzia; dirò che non è l’allodola quella che ferisce coi suoi accenti la volta del cielo, su in alto sopra le nostre teste: io ho piú desiderio di rimanere che volontà di partire: vieni, o morte, e sii la ben venuta! Giulietta vuole cosí. — Va bene, anima mia? discorriamo, ancora non è giorno.

Giulietta.
575È giorno, è giorno: parti, fuggi di qua, presto! è l’ allodola quella che canta in sí discordi accenti, sforzando la sua voce a striduli suoni e sgradevoli acuti. Dicono che l’ allodola unisce piú note in dolci variazioni: questa no, poiché invece di unire le note divide noi due; dicono che l’ allodola e il sozzo rospo hanno fatto scambio degli occhi: oh, in questo momento io vorrei che si fossero scambiata anche la voce! poiché quella voce ci strappa con terrore l’ una dalle braccia dell’ altro, e scaccia di qui te, sonando la sveglia al giorno. Ah, parti, ora: la luce si fa sempre piú chiara.

Romeo.
576La luce si fa sempre piú chiara? — Oh, no, le tenbre dei nostri dolori si fanno, invece, sempre piú scure!

Entra in camera la nutrice.

Nutrice.
577Signora!

Giulietta.
578Nutrice?

Nutrice.
579Vostra madre viene in camera vostra: il giorno è spuntato; siate prudente, fate attenzione.

(Esce).

Giulietta.
580Su via, finestra, lascia entrare il giorno ed uscire la mia vita.

Romeo.
581Addio, addio, un bacio, e scendo. —

(Romeo scende).

Giulietta.
582Sei dunque partito cosí? amor mio, mio signore, ah, mio marito, amico mio! Tu mi devi mandare tue notizie ogni giorno che c’è in un’ ora, poiché in un solo minuto vi sono piú giorni: oh! contando le ore cosí, sarò già vecchia prima di rivedere il mio Romeo!

Romeo.
583Addio! Io non mi lascerò sfuggire nessuna occasione, amor mio, che possa portarti i miei saluti.

Giulietta.
584Oh! dimmi, pensi tu che noi ci rivedremo mai piú?

Romeo.
585Non ne dubito; e tutte queste angosce, un giorno saranno per noi due argomento di dolci discorsi.

Giulietta.
586O Dio! Io ho nell’ anima una triste visione. Mi par di vederti, ora che sei costaggiú, come se tu fossi un morto in fondo ad una tomb: o la vista m’ inganna, o tu sembri pallido.

Romeo.
587E credimi, amor mio, anche tu, agli occhi miei, sembri cosí: l’ angoscia sitibonda beve il nostro sangue. Addio! Addio!

(Esce).

Giulietta.
588O fortuna, fortuna! tutti gli uomini ti chiamano incostante; se tu sei incostante, che ti importa di lui, che è celebre per la sua fedeltà? Sii inconstante, o fortuna; poiché allora io spero che tu non lo terrai lontano per lungo tempo, ma lo rimanderai presto.

Donna Capuleti.
589 (Di dentro). Figlia mia! sei alzata?

Giulietta.
590Chi è che chiama? è mia madre? Ancora non è andata a letto, sebbene sia cosí tardi, oppure si è alzata così presto? Quale insolita ragione la conduce qui?

Entra DONNA CAPULETI.

Donna Capuleti.
591Ebbene, come va ora, Giulietta?

Giulietta.
592Signora, non sto bene.

Donna Capuleti.
593Ancora piangi per la morte di tuo cugino? Che cosa credi, di portarlo via dalla sua tomba col fiotto delle tue lacrime? E se anche tu potessi portarlo via, non potresti mica farlo rivivere; dunque basta: un dolore moderato è segno di molto affetto, ma un dolore esagerato è sempre indizio di poco senno.

Giulietta.
594Lasciate, tuttavia, che io pianga una perdita cosí sensibile.

Donna Capuleti.
595Facendo cosí sentirai la perdita, ma non già l’ amico per il quale tu piangi.

Giulietta.
596Sentendo cosí amaramente la sua perdita, io non posso fare altro che piangerlo sempre.

Donna Capuleti.
597Ebbene, fanciulla mia, tu non piangi tanto per la morte di lui, quanto perché sai che è vivo il vile che lo ha ucciso.

Giulietta.
598Qual vile, signora?

Donna Capuleti.
599Proprio quel vile che si chiama Romeo.

Giulietta.
600La viltà e lui sono separati da molte miglia di distanza. Dio gli perdoni! Io gli perdono con tutto il cuore; e pure non c’è uomo che mi strazi il cuore al pari di lui.

Donna Capuleti.
601Questo è perché il traditore assassino vive ancora.

Giulietta.
602È vero, signora: perch’ egli vive, lungi dalla portata di queste mie mani. Oh! potessi io sola vendicare, a modo mio, la morte del mio cugino!

Donna Capuleti.
603Ne avremo vendetta, non aver apura: perciò non piangere piú. Manderò a cercare una persona in Mantova, dove si trova quel bandito vagabondo, la quale gli somministrerà una bevanda cosí straordinaria, ch’ egli anderà presto a tenere compagnia a Tebaldo: e allora, spero, tu sarai soddisfatta.

Giulietta.
604In verità, io non sarò mai soddisfatta, finché non vedrò Romeo —morto— è torturato cosí per un parente il mio povero cuore! Signora, sol che voi poteste trovare un uomo, che procurasse un veleno, penserei io a prepararlo in modo, che Romeo appena l’ avesse tirato giú, si addormenterebbe subito tranquillamente. Oh! come il mio cuore aborre dal sentirlo nominare, e quanto mi duole di non potere andare a trovarlo, per sfogare l’amore che portavo a mio cugino, sul corpo di colui che lo ha ucciso!

Donna Capuleti.
605Tu trova i mezzi, ed io troverò l’uomo che ci vuole. Ma ora, fanciulla, debbo darti delle notizie piene di gioia.

Giulietta.
606La gioia viene a proposito in un momento in cui ce n’ è tanto bisogno. Vi prego, signora, quali sono queste notizie?

Donna Capuleti.
607Ecco, ecco, tu hai un padre amoroso, fanciulla; un padre cheper levarti dalla tua tristezza, ti ha destinato improvvisamente un giorno di gioia, che tu non ti aspetti, e che io stessa non prevedevo.

Giulietta.
608Ma insomma, signora, che cos’ è questo giorno?

Donna Capuleti.
609Affè, fanciulla mia, giovedí prossimo, di buon mattino, il prode, giovine, e nobile gentiluomo, il conte Paride, avrà la fortuna di far di te una lieta sposa, nella chiesa di San Pietro.

Giulietta.
610Ah no! per la chiesa di San Pietro, e per San Pietro stesso, egli non farà di me la sua lieta sposa in quel luogo. Io mi meraviglio di questa fretta, mi meraviglio ch’io debba andare a nozze, prima che l’ uomo il quale dovrebbe essere mio marito, sia mai venuto a farmi la sua corte. Ve ne prego, signora, dite al mio signore e padre, che io ancora non ho intenzione di prender marito, e che quando l’avrò, questi, lo giuro, sarà Romeo, che voi sapete che io odio, piuttosto che Paride. — Queste sono belle notizie davvero!

Donna Capuleti.
611Ecco qui vostro padre; diteglielo da voi stessa, e vedete un po’ come egli la prende.

Entrano il CAPULETI e la nutrice.

Capuleti.
612Quando il sole tramonta, la terra stilla rugiada; ma pel tramonto del figlio di mio cognato piove a dirotto. — Ebbene! sei divenuta una fonte, fanciulla mia? Come, ancora in lacrime? Ancora ti sciogli in pianto? Nella tua piccola persona tu raffiguri, ad un tempo, una barca, il mare, e il vento: infatti negli occhi tuoi c’è un incessante flusso e riflusso di lacrime, che io chiamerei il mare; il tuo corpo è la barca, che veleggia in mezzo a quell’onda salata, e i tuoi sospiri sono i venti. E i sospiri infuriando contro le lacrime, e queste contro quelli, se non sopraggiunge un’improvvisa bonaccia, travolgeranno il tuo corpo sbattuto dalla tempesta. — Ebbene, moglie mia, le avete annunziato la nostra decisione?

Donna Capuleti.
613Sí, signore; ma essa non ne vuol sapere, e vi ringrazia. Ben le starebbe, alla stolta, di sposarsi la sua tomba!

Capuleti.
614Adagio! lasciatemi il tempo di capire! lasciatemi il tempo di capire, moglie mia. Come! non ne vuol sapere? e non ci ringrazia, invece? Non è orgogliosa? non si reputa felice, indegna com’è che noi siamo riusciti a darle in isposo un gentiluomo cosí degno?

Giulietta.
615Non ne sono orgogliosa, ma ve ne sono grata: non potrei essere mai orgogliosa di ciò che è per me una cosa aborrita; ma posso essere riconoscente anche di una cosa aborrita, che mi è fatta per amore.

Capuleti.
616Come? come? signorina filosofessa! Che cos’è questo «sono orgogliosa»; questo «vi ringrazio» e «non vi ringrazio»; e poi ancora: «non sono orgogliosa?» Voi, la mia bimba, risparmiatevi pure i vostri ringraziamenti, e serbate per voi i vostri orgogli; pensate, piuttosto, a tener pronte per giovedí prossimo le vostre belle gambine, per andare insieme con Paride alla chiesa di San Pietro, altrimenti ti ci trascino io, sopra un graticcio. Vattene, clorotica carogna! Via di casa, bagascia, faccia di sego!

Donna Capuleti.
617Via, via! ma che siete pazzo?

Giulietta.
618Padre mio, ve ne supplico in ginocchio, abbiate la pazienza di ascoltare una sola parola.

Capuleti.
619Impiccati, sgualdrinella! miserabile ribelle! — Bada bene a quello che ti dico: o giovedí tu vai in chiesa, o non guardarmi mai piú in faccia: non parlare, non replicare, non rispondere; mi prudono le mani! — Moglie mia, noi non ci credevamo abbastanza felici, perché Dio ci aveva mandato soltanto questa figliuola; ma ora veggo che anche quest’una è troppo, e che l’ averla fu per noi una maledizione. Al diavolo, miserabile che non è altro!

Nutrice.
620Dio che è in cielo la benedica! — Voi avete torto, signore mio, a trattarla cosí.

Capuleti.
621Eccola, la signora dottoressa! tenete a casa la vostra lingua, monna Prudenza: ciarlate con le vostre comari, andate.

Nutrice.
622N0n è un delitto, quello ch’io dico.

Capuleti.
623Oh, Dio vi danni!

Nutrice.
624Non si può parlare?

Capuleti.
625Zitta, vi dico, borbottona imbecille! Andate a sciorinare le vostre senteze, fra una tazza e l’ altra, con le vostra comari; poiché qui non ne abbiamo bisogno.

Donna Capuleti.
626Tu ti scaldi troppo.

Capuleti.
627Per l’ ostia santa! io ci divento matto: di giorno, di notte, ad ogni ora, ad ogni minuto, ad ogni istante, durante le mie occupazioni, in mezzo ai divertimenti, solo o in compagnia, il mio pensiero è stato sempre quello di vederla maritata: ed ora che le ho trovato un gentiluomo, di nobile famiglia, che ha un bel patrimonio, è giovane, nobilmente educato, che è dotato, come si dice, di eccellenti qualità, compíto quanto si potrebbe desiderare che fosse un uomo, ha da venire una miserabile scioccherella che frigna sempre, una bambola piagnucolosa, che quando le si offre la sua fortuna, vi rispone: «non voglio maritarmi; io non posso amare, sono troppo giovane; vi prego di perdonarmi». Ma se voi non volete maritarvi, lo vedrete come io vi perdone: andate a mangiar l’erba dove vi piacerà, voi non starete piú in casa con me: badate, pensateci bene, io non sono uso scherzare. Giovedí è vicino; mettetevi una mano sul cuore e riflettete. Se fate a modo mio, io vi darò al mio amico; se no, impiccati, va’ a chiedere l’ elemosina, crepa di fame, muori in mezzo alla strada; poiché per l’ anima mia, io non ti riconoscerò piú per figliuola, e nulla di quanto è roba mia apparterrà mai a te. Credi a quel che ti dico, e rifletti; io manterrò la mia parola. (Esce).

Giulietta.
628Oh! non c’ è un Dio pietoso, lassú in mezzo alle nubi, il quale vegga in fondo al mio dolore? — O buona madre mia, non mi abbandonate! Ritardate questo matrimonio di un solo mese, di una sola settimana; o se no, preparatemi il letto nuziale in quella buia tomba dove giace Tebaldo.

Donna Capuleti.
629Non mi parlare, perchè non ti risponderò una sola parola: fa’ quello che ti pare, di te non ne voglio piú sapere.

(Esce).

Giulietta.
630O Dio! — Nutrice mia, come si potrà impedire ciò? Il mio sposo è quaggiú in terra, la fede che io gli ho giurato è su in cielo; come potrà quella fede ritornare in terra, a meno che il mio sposo non me la rimande giú dal cielo abbandonando la terra? — Fammi coraggio, consigliami! Ahimè, ahimè! è possibile che il cielo tenda di questi inganni a una povera creatura, debole come me? Che cossa dici? Non hai una parola che mi consoli? Un po’ di conforto, nutrice.

Nutrice.
631In fede mia, eccovela: Romeo è esiliato, ed io ci scommetto il mondo intero contro nulla, ch’egli non oserà mia tornare qui a reclamarvi; o se lo farà, bisogna che lo faccia di nascosto. Allora, poichè le cose pur troppo stanno cosí, io credo che il miglior partito sia quello che voi sposiate il conte. Oh! egli è un amabile gentiluomo! Romeo, in confronto a lui, è uno strofinacciolo! un’ aquila, signora mia, non ha l’ occhio cosí verde, cosí vivo, cosí bello come quello di Paride. Maledetta l’anima mia, se io non credo che per voi questo secondo partito sia una fortuna, poiché è molto migliore del primo: d’ altronde se anche non fosse, il vostro primo marito è morto, o tanto varrebbe che fosse morto, poiché anche vivo in questo mondo, non vi serve a nulla.

Giulietta.
632Parli col cuore?

Nutrice.
633Col cuore e con l’ anima; e se non è vero, siano maledetti tutti e due!

Giulietta.
634Amen!

Nutrice.
635Come?

Giulietta.
636Ebbene, tu mi hai consolata a meraviglia. Va’, e di’ alla signora che io, avendo recato dispiacere a mio padre, sono andata alla cella di frate Lorenzo a confessarmi e a prendere l’ assoluzione.

Nutrice.
637Per la Madonna, vado subito; questa è una cosa fatta con giudizio.

(Esce).

Giulietta.
638Vecchia dannata! Iniquissimo demonio! Io non so se ella commetta un peccato più grande col voler fare di me, in questo modo, una spergiura, o disprezzando cosí lo sposo mio, con quella medesima lingua, con la quale tante migliaia di volte lo ha esaltato, mettendolo al di sopra di ogni confronto. — Vattene pure, consigliera mia! tu ed il mio cuore da questo momento siete due cose, che non hanno piú niente di comune. — Andrò a trovare il frate, per sentire qual è il rimedio che egli ha per me; se ogni altro venga a mancare, ne ho uno inmio potere: morire.

(Esce).

ATTO QUARTO

SCENA I.

— La cella di frate LORENZO.
Entrano frate LORENZO e PARIDE.

Frate Lorenzo.
639Giovedí, signore? il tempo è assai breve.

Paride.
640Mio padre Capuleti vuole che sia cosí; ed io non ho nessuna ragione d’ esser pigro, e di rallentare la sua fretta.

Frate Lorenzo.
641Voi dite che non conoscete i sentimenti della fanciulla a vostro riguardo: questo modo di procedere non è regolare; non mi piace.

Paride.
642Ella piange senza moderazione per la morte di Tebaldo, e però io le ho potuto parlare ben poco d’ amore, poichè Venere non sorride in una casa di lacrime. Ora, signore, suo padre stima pericoloso, ch’ essa si lasci dominare cosí dal dolore; e nella sua saggezza affretta il nostro matrimonio, per mettere un argine alla piena delle sue lacrime. Stando cosí sola sola, ella dà troppo mente ad un dolore, che potrebbe essere allontanato da lei con la compagnia. Ed ora voi conoscete la ragione di questa fretta.

Frate Lorenzo.
643 (Da sé). Cosí io non conoscessi la ragione, per cui essa dovrebbe essere rallentata! — Guardate, signore, ecco qua la fanciulla, che viene verso la mia cella.

Entra GIULIETTA.

Paride.
644Felice incontro, questo, mia signora e moglie mia!

Giulietta.
645Ciò potrà essere, signore, quando lo potrò esser vostra moglie.

Paride.
646E questo potrà essere, anzi deve essere, giovedí prossimo, amor mio.

Giulietta.
647Ciò che deve essere sarà.

Frate Lorenzo.
648Questa è una massima sicura.

Paride.
649Venite dal padre per confessarvi?

Giulietta.
650Per rispondere a ciò, dovrei confessarmi con voi.

Paride.
651Non gli negate che voi mi amate.

Giulietta.
652Confesserò, invece, a voi che io amo lui.

Paride.
653E confesserete anche, ne sono sicuro, che voi mi amate.

Giulietta.
654Se veramente io vi amo, la mia confessione avrà piú valore s’io lo dico dietro le spalle vostre, che in faccia a voi.

Paride.
655Pover’anima, il tuo viso è molto sciupato dalle lacrime.

Giulietta.
656Le lacrime hanno riportato, con ciò, una ben piccola vittoria: poich’ esso era già discretamente brutto, prima d’essere offesso dalla loro rabbia.

Paride.
657Tu lo offendi anche piú delle lacrime con cotesta affermazione.

Giulietta.
658Non è calunnia, signore, la verità: e ciò che ho detto, l’ho detto al mio viso.

Paride.
659Il tuo viso appartiene a me, e tu lo hai calunniato.

Giulietta.
660Potrebbe anch’essere, poichè esso non appartiene a me. — Siete comodo ora, padre santo, o debbo ritornare da voi stasera dopo la funzione?

Frate Lorenzo.
661Io son comodo ora, mia pensosa fanciulla. — Signore, abbiamo bisogno di restar soli un momento.

Paride.
662Dio mi guardi dal recare disturbo in un momento di devozione! — Giulietta, giovedí di buon mattino verrò a svegliarvi, addio fino allora a tenete questo bacio rispettoso.

(Esce).

Giulietta.
663Oh! chiudi la porta, e quando l’ hai chiusa, vieni piangere con me: non c’è speranza, non c’è rimedio, non c’è soccorso!

Frate Lorenzo.
664Ah! Giulietta, conosco già il tuo dolore; esso mi strazia in modo superiore alle forze del mio spirito: sento che giovedí prossimo, e nulla può prorogarlo, tu dovrai essere maritata a questo conte.

Giulietta.
665Non me lo dire, padre, che tu hai sentito questo, se non sai dirmi anche come io posso impedirlo: se nella tua saggezza non puoi darmi nessun soccorso, di’almeno che la mia risoluzione è saggia, ed io con questo coltello vi metterò rimedio all’istante. Dio ha unito il mio curore e quello di Romeo, tu le nostre mani; e prima che questa mano, che per opera tua ha suggellato la mia unione con Romeo, sia il suggello di un altro atto, o il mio cuore leale con una perfida ribellione si volga ad un altro, questo coltello trafiggerà mano e cuore; perciò con la lunga esperienza della tua vita dammi un pronto consiglio; se no, guarda, fra la mia disperazione e me sarà arbitro questo coltello di sangue, decidendo di ciò che i tuoi anni e la tua scienza, ai quali io l’ avevo commesso, non seppero condurre ad una fine veramente onorevole. Non indugiare così a parlare; a me tarde il morire, se ciò che tu dici, non è una parola di rimedio.

Frate Lorenzo.
666Calmati, figliuola mia; io veggo un mezzo di speranza, ma esso richiede un’ esecuzione disperata, come è disperata l’azione che noi vorremmo impedire. Se proprio, piuttosto che sposare il conte Paride, tu hai la forza di volontà di ucciderti, allora è probabile che tu, che sfidi la morte stessa per sottrarti a quell’ onta, pur di respingerla lontana da te, voglia avventurarti ad una prova, che ha somiglianza con la morte. Se tu hai il coraggio, io ti darò il rimedio.

Giulietta.
667Oh! piuttosto che sposare il conte Paride, dimmi di spiccare un salto dai merli di quella torre laggiú, o ch’io passeggi per vie battute dai ladri; dimmi chi’io mi appiatti dove han nido le serpi; incatenami insieme con orsi che ruggiscano, o chiudimi di notte in un ossario pieno zeppo di scricchiolanti ossa di morti, di putridi stinchi e di gialli crani scarniti; dimmi di entrare in una fossa recente, e di nascondermi insieme col morto nel suo stesso lenzuolo; cose tutte, queste, che mi hanno sempre fatto rabbrividire soltanto a sentirle raccontare; ed io le farò tutte senza paura, senza esitazione, pur di rimanere la sposa incontaminata del dolce amor mio.

Frate Lorenzo.
668Senti, dunque: torna a casa, mostrati allegra, e acconsenti a sposare Paride: domani è mercoledí; domani notte cerca di dormir sola, e non lasciare che la nutrice venga a dormire con te nella tua camera; quando sei in letto, prendí questa ampolla, e bevi questo liquore preparato: subito ti correrà per tutte le vene un fluido freddo che addormenterà in te la vita; poichè il polso non conserverà più il suo movimento regolare, ma cesserà di battere: nessun calore, non un respiro, attesteranno che tu vivi; le rose delle tue labbra e delle tue guance appassiranno e si faranno pallide come la cenere; sugli occhi ti caldrà il velo delle palpebre, come quandola morte chiude il giorno della vita. Ogni membro del tuo corpo, privato della padronanza del movimento e della flessibilità, rigido, intirizzito, e freddo, avrà l’aspetto della morte: sotto questa temporanea sembianza di mortale rattrappimento tu resterai per quarantadue ore, e quindi ti desterai come da un placido sonno. Ora, quando lo sposo la mattina viene per farti alzare dal letto, tu sei lí morta: allora, secondo il costume del nostro paese, vestita dei tuoi abiti piú belli, e distesa scoperta sulla bara, sarai portata a quella stessa antica volta sotterranea, dove giacciono sepolti tutti i congiunti dei Capuleti. Intanto, prima che tu ti desti, Romeo informato da una mia lettera del nostro disegno, verrà qua; lui ed io spieremo il tuo ridestarti, e in quella notte stessa Romeo ti condurrà via a Mantova. Cosí, se un capriccio del momento o una paura da femminetta non la vinceranno sul tuo coraggio all’istante della esecuzione, tu sarai salva dall’imminente disonore.

Giulietta.
669Dammi qua, dammi qua! Oh non mi parlare di paura!

Frate Lorenzo.
670Tieni; vattene subito, e sii forte e felice in questa tua risoluzione: io manderò in fretta un fratello a Mantova con una lettera per tuo marito.

Giulietta.
671Amore dammi tu forza! e la forza mi porgerà aiuto. — Addio, caro padre!

(Escono).

SCENA II.

— Una stanza in casa Capuleti.
Entrano il CAPULETI, DONNA CAPULETI, la nutrice e due servi.

Capuleti.
672Inviterai tutte le persone che sono scritte qui. (Il servo esce). — Tu, briccone, vammi a fissare venti abili cuochi.

Secondo servo.
673Non ne avrete neppur uno, che sia un cattivo cuoco, signore, poichè io li metterò alla prova, per vedere se sanno leccarsi la punta delle dita.

Capuleti.
674E come puoi provare se non bravi, facendo cosí?

Secondo servo.
675Sfido, signore: è un cattivo cuoco, quello che non si può leccare la punta delle dita; e allora chi non se le può leccare, non viene con me.

Capuleti.
676Via, vattene. — (Il servo esce). Saremo assai sprovvisti in questa circostanza. — Come, mia figlia è andata da Frate Lorenzo?

Nutrice.
677Si, davvero.

Capuleti.
678Bene, bene, potrebbe essere ch’egli le giovasse un poco: è una creatura stizzoza, ostinatat, trista.

Entra GIULIETTA.

Nutrice.
679Guardate, eccola qua che ritorna dalla confessione tutt’allegra.

Capuleti.
680Ebbene, che c’è, signora testarda? Dove siete stata a vagabondare?

Giulietta.
681Dove ho imparato a pentirmi del peccato di disobbediente resistenza a voi ed ai vostri comandi, e dove mi è stato ingiunto dal buon padre Lorenzo di prostrarmi qui ai vostri piedi e di domandarvi perdono: perdonatemi, ve ne scongiuro! D’ora innanzi mi lascerò sempre guidare da voi.

Capuleti.
682Mandate per il conte; andate, avvertitelo di questo: voglio che questo nodo sia stretto domattina.

Giulietta.
683Alla cella di frate Lorenzo ho incontrato il giovane conte, e gli ho dato quelle prove d’affetto convenienti, che potevo dargli senza uscire dai limiti della modestia.

Capuleti.
684Via, sono, contento; cosí va bene: alzati; questo è il modo come le cose dovevano andare. — Fatemi vedere il conte; si, per bacco, andate, dico, e conducetelo qui. — Ed ora, lo dichiaro davanti a Dio, tutta la intera città dev’essere molto obbligata a questo frate venerando e benedetto.

Giulietta.
685Nutrice, volete venire con me nel mio gabinetto, per aiutarmi a scegliere gli ornamenti necessari, che vi sembreranno adattati per abbigliarmi domani?

Donna Capuleti.
686No, fino a giovedì no: c’è abbastanza tempo.

Capuleti.
687Andate, nutrice, andate pure con lei: domani anderemo in chiesa.

(Escono GIULIETTA e la nutrice).

Donna Capuleti.
688Saremo a corto dell’ occorrente: ormai è quasi notte.

Capuleti.
689Ma che! mi darò attorno io stesso, ed ogni cosa anderà bene, te lo garantisco io, moglie mia: va’ da Giulietta, e aiutala ad abbigliarsi; stanotte io non vado a letto; lasciami solo: per questa volta voglio farla da massaia. —Olà! ehi! — son tutti fuori; ebbene, arriverò io stesso dal conte Paride a prepararlo per domani: mi sento l’animo straordinariamente sollevato, ora che quella pazzerella ha messo giudizio a questo modo.

SCENA III.

— La camera di Giulietta.
Entrano GIULIETTA e la nutrice.

Giulietta.
690Sí, quell’abito è il più adatto: — ma, te ne prego, mia buona nutrice, stanotte lasciami sola; poichè ho bisogno di fare molte preghiere, affinché il cielo si muova a compassione, e voglia sorridere alla situazione nella quale mi trovo, che come tu sai bene, è trista e piena di peccato.

Entra DONNA CAPULETI.

Donna Capuleti.
691Come, siete ancora occupate, èh? avete bisogno del mio aiuto?

Giulietta.
692No, signora; abbiamo già scelto quanto sarà necessario e conveniente per il mio abbigliamento di domani: se non vi dispiace, ora, permettete che io rimanga sola, e stanotte lasciate che la nutrice stia alzata insieme con voi, poichè son certa che voi avrete le mani molto impicciate per quest’improvviso avvenimento.

Donna Capuleti.
693Buona notte; va’ a letto e riposati ché ne hai bisogno.

(Escono DONNA CAPULETI e la nutrice).

Giulietta.
694Addio! — Dio sa quando noi ci rivedremo. Mi sento correre per le vene un leggero e freddo brivido di paura, che quasi agghiaccia il calore della vita: le richiamerò per prendere un po’ di coraggio. — Nutrice! — Ma che farebbe qui? Io debbo assolutamente esser sola a recitare la mia lugubre scena. — Vieni, o ampolla. — E se questa miscela non avesse alcun effetto? Domattina dovrò maritarmi? No, no: questo lo impedirà. — Resta qui tu. — (Posando un pugnale). Ma se fosse un veleno, che il frate mi ha somministrato, astutamente, per farmi morire, per apura di disonorarsi con questo matrimonio, avendomi già maritata a Romeo? Io ho paura che sia proprio un veleno: ma d’altra parte, penso, ciò non può essere affato, perch’ egli è stato conosciuto sempre per un santo uomo. — Che succederà se, quando io sarò nella tomba, mi sveglio prima che Romeo venga a liberarmi? Ecco un terribile punto! Non sarò io soffocata dentro quella volta sotterranea, nella cui fetida bocca non entra un alito di aria pura, e là dentro non morrò asfissiata, prima che venga il mio Romeo? O, se rimango viva, non è molto probabile, che l’ orribile idea della morte e della notte, insieme col terrore del luogo, — di quel sotterraneo, che è un antico ricettacolo, dove per molte centinaia d’anni si sono ammucchiate le ossa di tutti i miei antenati sepolti; dove l’insanguinato Tebaldo, che poc’anzi era vivo e verde sulla terra, giace putrefacendosi; dove, come dicono, a una cert’ora della notte hanno ritrovo gli spiriti; ahimè, ahimè, non è egli probabile che io svegliandomi troppo presto, — in mezzo a metifiche esalazioni e a strilli come quelli della mandragora strappata dalla terra, che fanno diventar pazzi i mortali che li odono: — oh, se mi sveglio allora, non perderò io la ragione, circondata da tutti questi orribili terrori? E non mi metterò, come una pazza, a giocare con le ossa dei miei padri? E non strapperò dal funebre lenzuolo le membra di Tebaldo fatto a brani? E in questo accesso di furore brandendo, come una clava, un osso di qualche mio vecchio antenato, non mi farò schizzar fuori dalla testa le mie pazze cervella? — Oh, guarda mi par di vedere l’ombra del mio cugino, che insegue Romeo, il quale lo infilzò con la punta della spada: — ferma, Tebaldo, ferma! — Romeo, eccomi! Questo lo bevo a te.

(Si getta sul letto).

SCENA IV.

— Una sala in casa Capuleti.
Entrano DONNA CAPULETI e la nutrice.

Donna Capuleti.
695Tieni, nutrice, prendi queste chiavi, e metti fuori delle altre spezie.

Nutrice.
696Il pasticcere, in cucina, chiede datteri e mele cotogne.

Entra il CAPULETI.

Capuleti.
697Andiamo, movetevi, movetevi, movetevi! il gallo ha cantato già la seconda volta, la campana ha sonato, sono le tre. Abbi un occhio ai piatti, al forno, mia buona Angelica: non risparmiare spese.

Nutrice.
698Andate via, faccendone, andatevene a letto; in fede mia, domani starete male, per essere stato su stanotte.

Capuleti.
699No, niente affatto: ma che! Altre volte, prima di questa, ho fatto nottata per ragioni meno importanti, e non mi sono mai sentito male.

Donna Capuleti.
700Eh! sì, al tempo vostro siete stato un cacciatore di topi; ma d’ora in poi vi guarderò io da certe veglie.

(Escono DONNA CAPULETI e la nutrice).

Capuleti.
701La donna gelosa! la donna gelosa! — Entrano dei servi con spiedi, legna, e canestri. Ebbene, giovinotto, che cos’ è cotesta roba?

Primo servo.
702Roba per il cuoco, signore, ma non so che cosa.

Capuleti.
703Fate presto, fate presto. (Il primo servo esce). — Tu, briccone, va’ a prendere della legna più secca: chiama Pietro, che t’insegnerà dove si trova.

Secondo servo.
704Ho anch’io il capo sulle spalle, signore, e saprò trovare della legna senza aver bisogno di seccar Pietro per questo.

(Esce).

Capuleti.
705Ben detto, per la messa! Costui è un allegro briccone, è! ti nomineremo capo... di legno. — Affè! è giorno: il conte sarà presto qui con la musica, poiché m’ha detto che l’ avrebbe menata con sé. (Musica di dentro). Lo sento, è qui. — Nutrice! Moglie! — Olà! — eh! Olà, nutrice, dico! Rientra la nutrice. Va’ a svegliare Giulietta, va’ e aiutala ad abbigliarsi; io anderò a chiacchierare con Paride: — sbrigati, presto, presto! lo sposo è già venuto: presto, dico.

(Escono).

SCENA V.

— La camera de GIULIETTA.
GIULIETTA è distesa sul suo letto.
Entra la nutrice.

Nutrice.
706Signora! Su via, signora! Giulietta! Posso garantire che dorme la grossa! Su, agnellino! Via, signorina! ah, dormigliona! ebbene, dico, amor mio! Padroncina! cuore mio! andiamo, signora sposa! Come, nemmeno una parola? — Volete farvi la vostra provvista ora è? dormite pure per una settimana: poichè stanotte, ve lo garantisco, il conte Paride riposa nell’idea che voi dobbiate riposare ben poco. — Dio mi perdoni, madonna, ed amen, come dorme profondamente! Debbo svegliarla intutti i modi. — Signora, Signora, Signora! Sí, lasciatevi trovare a letto dal conte, e poi vedrete, in fede mia, s’egli vi fa alzare su dallo spavento! Non sarà così? — Come! vi siete vestita e abbigliata, e poi vi siete messa giú di nuovo? Debbo svegliarvi ad ogni costo! — Signora! signora! signora! — Ahimé! ahimè! — Aiuto, aiuto! la mia signora è morta! Oh, maledetto giorno! ch’io non fossi mai nata! Un po’ d’acquavite, olà! Signore mio! Signora mia!

Entra DONNA CAPULETI.

Donna Capuleti.
707Che cos’ è questo chiasso?

Nutrice.
708O giorno di pianto!

Donna Capuleti.
709Che cos’ è stato?

Nutrice.
710Guardate guardate! O sventurato giorno!

Donna Capuleti.
711Povera me, povera me! — Figliuola mia, mia unica vita, rivivi, riapri gli occhi, o io morrò insieme con te. Aiuto! aiuto! chiamate aiuto!

Entra il CAPULETI.

Capuleti.
712Che vergogna è questa? menate fuori Giulietta: il suo sposo è già arrivato.

Nutrice.
713Essa è morta! è morta! è morta! Dio mio!

Donna Capuleti.
714Dio mio! essa è morta! è morta! è morta!

Capuleti.
715Ah! lasciatemela vedere! — È finita, ahimè! è già fredda; il sangue s’ è arrestato, e le membra sono irrigidite; la vita e le sue labbra si sono lasciate da un pezzo. La morte si è posata sopra di lei, come una brina fuori di stagione sul fiore più gentile di tutto il campo.

Nutrice.
716O giorno di pianto!

Donna Capuleti.
717O momento di strazio!

Capuleti.
718La morte, che me l’ha portata via per farmi gemere di dolore, mi incantena la lingua e non mi permette di parlare.

Entrano frate LORENZO e PARIDE coi sonatori.

Frate Lorenzo.
719Andiamo, la sposa è pronta per andare in chiesa?

Capuleti.
720Pronta per andarci, ma per non ritornare mai piú. (A Paride). — O figlio mio, la notte innanzi alle tue nozze la Morte è stata nel letto della tua fidanzata: eccola qui distesa, fiore, quale ella era, disfiorato dall’ amplesso di lei. La morte è mio genero, la Morte è mia erede; essa ha sposato mia figlia: io morrò e lascerò tutto a lei; la mia vita, i miei beni, tutto è della Morte.

Paride.
721Ho dunque atteso con tanta ansietà di vedere spuntare questo giorno, ed esso mi offre uno spettacolo come questo?

Donna Capuleti.
722O giorno maledetto, fatale, sciagurato, abbominevole! Ora la più disgraziata che li tempo abbia mai visto nell’eterna fatica del suuo pellegrinaggio! Non avevo che una figliuola, soltanto una povera figliuola, un’unica povera adorata figliuola, la sola cosa nella quale io vedevo tutta la mia gioia e tutta la mia consolazione, e la Morte crudele l’ha strappata agli occhi miei!

Nutrice.
723O sventurato, sventurato, sventurato giorno! Il piú doloroso, il piú sventurato, giorno, che io abbia mai, mai visto ancora! O giorno! O O giorno! O giorno! O abbominevole giorno! Mai fu veduto, ancora, un giorno brutto come questo: o sventurato giorno, o sventurato giorno!

Paride.
724Tradito, costretto al divorzio, offeso, tormentato, assassinato! Tradito da te, odiosissima Morte, da te rovinato per sempre, crudele, crudele che sei! O amore! O vita! non piú vita, ma amore riposto nella morte!

Capuleti.
725Disprezzato, abbandonato, odiato, torturato, ucciso! Malaugurato tempo, perché sei venuto ora ad assassinare, ad assassinare la nostra festa? O figliuola! o figluola mia! o, piú che figliuola, anima mia! tu sei morta! Ahimè, la mia figliuola è morta; e insieme con la figliuola mia sono sepolte tutte le mie gioie!

Frate Lorenzo.
726Pace, dunque! vergogna! Il rimedio ai guai non si trova in questi guai. Il cielo e voi possedevate in comune questa bella fanciulla; ora il cielo la possiede tutta per sè, ed è maggior ventura per la fanciulla: voi, infatti, non avete saputo salvare dalla morte, la parte di lei che era vostra; il cielo, invece, serba la sua parte in una vita eterna. Il vostro supremo desiderio era la esaltazione di lei, poichè il vederla in alto era il vostro paradiso: — e voi piangete, ora, che la vedete in alto, su al di sopra delle nubi, alta come il cielo stesso? — Oh! con questo amore, voi amate cosí male la vostra figliuola, che diventate pazzi vedendo ch’ ella sta bene: non è bene maritata colei che vive lungamente col marito; la meglio maritata è colei, che muore moglie giovinetta. — Asciugate le vostre lacrime, spargete su questo bel corpo il vostro rosmarino; e, secondo l’usanza, fate portare in chiesa la morta, vestita dei suoi abiti più belli. — Sebbene la natura, sensibilie com’è, ci spinga, tutti al pianto, le lacrime della natura destano il sorriso della ragione.

Capuleti.
727Tutte le cose che avevamo preparate per una festa, mutano improvvisamente il loro ufficio, e serviranno per un tetro funerale: i nostri strumenti si cambiano in meste campane; la nostra allegria nuziale in un triste mortorio; i nostri inni solenni si mutano in lugubri nenie; i nostri fiori di nozze servono per una sepoltura, ed ogni cosa si cambia nel suo contrario.

Frate Lorenzo.
728Signore, ritiratevi; e voi, signora, andate insieme con lui; — anche voi, signor Paride, andate; — ognuno si prepari ad accompagnare questa bella salma alla sua tomba: il cielo vi guarda accigliato per qualche vostra colpa; non lo irritate maggiormente, ribellandovi ai suoi alti voleri.

(Escono il CAPULETI, DONNA CAPULETI, PARIDE e il frate).

Primo sonatore.
729In fede mia, noi possiamo riporre i nostri flauti, e andarcene.

Nutrice.
730Buona e brava gente, ah, riponeteli, riponeteli! poiché, lo vedete bene, questo è un miserando caso.

(Esce).

Primo sonatore.
731Sí, in fede mia, il caso ha bisogno di un rimedio.

Entra PIETRO.

Pietro.
732Sonatori, oh! sonatori, l’aria: «Pace del cuore»; oh! se volete ridarmi la vita, sonate, «pace del cuore».

Primo sonatore.
733Perché «pace del cuore»?

Pietro.
734Oh! sonatori miei, perché il mio cuore stesso suona: «il mio cuore è pieno di dolore». Oh! sonatemi qualche allegra nenia, per confortarmi.

Secondo sonatore.
735Neppure una, noi: questo non è il momento di sonare.

Pietro.
736Non volete sonare dunque?

Primo sonatore.
737No.

Pietro.
738Allora vi darò il vostro avere.

Primo sonatore.
739Che cosa ci darai?

Pietro.
740In fede mia, non del danaro: vi darò... di strimpelloni, di menestrelli.

Primo sonatore.
741E io darò... di servitore.

Pietro.
742E io vi sonerò sulla zucca la daga del servitore. Io non vi sonerò delle semiminime: vi darò dei re, vi darò dei fa; notate bene quel che vi dico. Se ci soni dei re e dei fa, sarai tu che noti noi.

Secondo sonatore.
743Ti prego, metti dentro la tua daga, e metti fuori il tuo spirito.

Pietro.
744Allora in guardia, contro i colpi del mio spirito! Io picchierò su voi botte da orbi con la lama del mio spirito, e rimetterò nel fodero la lama della mia daga. Rispondete dunque, da uomini, ai colpi miei: «Quando ci afferra il dolore, e ci ferisce il cuore, e tristi lamenti ci opprimono l’ anima, allora la musica col suo suono d’argento......» perchè «suono d’argento»? perché: «la musica col suo suono d’argento»? Che ne dici tu, Simon Cantino?

Primo sonatore.
745Sfido! signore: perché l’ argento ha un dolce suono.

Pietro.
746Ciance! — Che cosa dici tu, Ugo Ribeca?

Secondo sonatore.
747Dico, che dice: «suono d’ argento», perché i sonatori sonano per avere dell’ argento.

Pietro.
748Ciance anche queste! E tu che cosa dici, Giacomo dell’ Anima?

Terzo sonatore.
749In fede mia, io non so che dire.

Pietro.
750Oh, hai ragione, ti chiedo scusa: tu sei un cantore. Risponderò io per te. Dice «la musica col suo suono d’ argento», perché i sonatori pari vostri, per sonare, non hanno mai oro: «allora la musica, col suo suono d’ argento, con pronto aiuto ci dà un po’ di sollievo».

(Esce).

Primo sonatore.
751Che sozzo briccone è costui!

Secondo sonatore.
752Impiccalo, che furfante! — Andiamo, entriamo dentro; aspettiamo i piagnoni, e fermiamoci qui per il desinare.

(Escono).

ATTO QUINTO

SCENA I.

— Montova. Una strada.
Entra ROMEO.

Romeo.
753Se io posso prestar fede alle lusinghiere visioni del sonno, i miei sogni mi presagiscono vicina qualche notizia piena di gioia: il tiranno del mio cuore se ne sta assiso allegramente sul suo trono; e tutto il giorno, oggi, una insolita animazione mi solleva al di sopra della terra con giocondi pensieri. Ho sognato che la mia donna veniva e mi trovava morto (strano sogno, questo, che concede ad un morto la facoltà di pensare!), e che a forza di baci infondeva nelle mie labbra un tale soffio di vita, ch’ io revivevo ed ero imperatore. Ahimè! come deve esser dolce il vero possesso dell’amore, se la sua ombra soltanto è cosí ricca di gioia! Entra BALDASSARRE. Notizie da Verona! — Ebbene, Baldassarre, non mi porti lettere del frate? Che fa la mia signora? Mio padre sta bene? Come sta la mia Giulietta? te lo domando di nuovo, perché nulla può andar male, se ella sta bene.

Baldassarre.
754Allora ella sta bene, e nulla può andar male: il suo corpo dorme nel monumento dei Capuleti, e quella parte di lei che è immortale, vive insieme con gli angeli. Io l’ ho vista deporre giú nella volta sotterranea dei suoi congiunti, e immediatamente sono partito per venirvelo a dire: oh! perdonatemi se vi reco queste tristi nuove, poiché voi stesso, signore, me ne lasciaste l’ incarico.

Romeo.
755È proprio cosí? Allora io vi sfido, o stelle! — Tu sai la mia abitazione: comprami dell’ inchiostro e della carta, e noleggiami dei cavalli di posta. Stasera io parto.

Baldassarre.
756Signore, ve ne scongiuro, calmatevi: voi avete l’ aspetto pallido e stravolto, e mi fate temere qualche sciagura.

Romeo.
757Ma che! t’ inganni: lasciami, e fa’ quel che ti ordino di fare. — Non hai lettere del frate per me?

Baldassarre.
758No, mio buon signore.

Romeo.
759Non importa: va’ subito, e noleggiami quei cavalli; io ti raggiungo immediatamente. (Baldassarre esce). — Ebbene, Giulietta, stasera io dormirò accanto a te. Vediamo con quali mezzi: — O distruzione, come fai presto ad entrare nei pensieri degli uomini ridotti alla disperazione! — Mi viene in mente uno speziale..., egli sta qui nei dintorni, che io ho visto ultimamente, con un vestito a brandelli, tutto occupato a cercare erbe medicinali. Era allampanato; una miseria atroce l’ aveva spolpato fino all’ osso: e nella sua squallida bottega stavano appesi una tartaruga, un coccodrillo imbalsamato, ed altre pelli di pesci mostruosi. Qua e là per gli scaffali una misera accozzaglia di scatole vuote, di pentoli di coccio tinti di verde, di vesciche e semi ammuffiti, di pezzi di spago e pasticche di fior di rosa, stantie, era sparsa alla meglio per fare un po’ di apparenza. Notando tanta miseria, dissi fra me: se uno avesse bisogno di qualche veleno (vendere bito a morte) ecco un miserabile furfante che glie lo venderebbe. — O, questo stesso pensiero non fece altro che precorrere il mio bisogno, e questo stesso uomo bisognoso deve, appunto, vendermelo. Se mi ricordo bene, questa dovrebbe essere la sua casa: essendo giorno di festa, la bottega del disgraziato è chiusa. — Ehi! olà! Speziale!

Entra lo speziale.

Speziale.
760Chi è che chiama cosí forte?

Romeo.
761Vieni qua, amico. Vedo che tu sei povero; tieni, questo sono quaranta ducati: dammi un grammo di veleno; ma una roba cosí sbrigativa, che appena si sparge per le vene, faccia cader morto colui che stanco della vita lo ha preso, e gli tronchi il respiro nel petto, con la violenza e la rapidità, con cui la polvere infiammata si precipita fuori dalle fatali viscere del cannone.

Speziale.
762Io ne ho di questa merce micidiale; ma la legge di Mantova punisce con la morte chiunque la spaccia.

Romeo.
763Tu sei cosí nudo e pieno di miseria, e hai paura di morire? La fame è sulle tue guancie; il bisogno e i patimenti ti agonizzano negli occhi; il disprezzo e la miseria ti stanno appesi alle spalle; il mondo non ti è amico, e nemmeno la sua legge; il mondo non ha per te una legge che ti faccia ricco: dunque non esser piú povero, ma rompi la legge, e prendi questo.

Speziale.
764La mia povertà acconsente, ma non acconsente la mia volontà.

Romeo.
765Io pago la tua povertà e non la tua volontà.

Speziale.
766Mettete questo in un liquido qualunque a piacer vostro, e bevete fino all’ultima goccia: se anche aveste la forza di venti uomini, sarete spacciato immediatamente.

Romeo.
767Ecco qua il tuo oro, il quale è un veleno peggiore, per l’ anima degli uomini, e commette in questo odioso mondo piú assassinii, che non queste povere misture che tu non puoi vendere; sono io che vendo a te il veleno, tu non ne hai venduto a me. Addio: comprati da mangiare, e rimettiti in carne. — Vieni, o cordiale, e non veleno: vieni insieme con me alla tomba di Giulietta; poiché là io debbo servirmi di te.

(Escono).

SCENA II.

— La cella di frate Lorenzo.
Entra frate GIOVANNI.

Frate Giovanni.
768Riverendo frate francescano! fratello, olà!

Entra frate LORENZO.

Frate Lorenzo.
769Questa dovrebb’ essere proprio la voce di frate Giovanni. — Ben tornato da Montova: che dice Romeo? Se egli mi ha scritto il suo pensiero, dammi la sua lettera.

Frate Giovanni.
770Andavo in cerca di un fratello scalzo del nostro ordine (che è qui in città per andare a visitare gli ammalati), perché mi fosse compagno di via, quand’ecco, nel momento in cui lo trovavo, le guardie sanitarie della città, sospettando che noi due fossimo stati in una casa dove infieriva la peste contagiosa, serrarono le porte, e non ci vollero lasciare uscire dalla città. Cosicchè il mio viaggio a Mantova restò lí.

Frate Lorenzo.
771Allora chi ha portato la mia lettera a Romeo?

Frate Giovanni.
772Eccola qui: io non ho potuto né mandarla, nè trovare un messo che te la riportasse, tanto erano spaventati tutti dell’infezione.

Frate Lorenzo.
773Oh sorte avversa! Pel sacro ordine mio, quella lettera non era insignificante, ma piena di cose di preziosa importanza, che trascurate potrebbero essere causa di una grave sciagura. — Frate Giovanni, va’; cercami una leva di ferro, e portala immediatamente qui alla mia cella.

Frate Giovanni.
774Fratello, vado e te la porto.

Frate Lorenzo.
775Ed ora bisogna che io mi diriga solo, al monumento; in queste tre ore la bella Giulietta si sveglierà; chi sa quanto imprecherà contro di me, perché Romeo non ha avuto notizie di questi avvenimenti: ma io scriverò di nuovo a Mantova, e tratterrò lei nella mia cella, finché giunga Romeo. Povera salma vivente, chiusa nella tomba di un morto!

(Esce).

SCENA III.

— Un cimitero. Monumento dei Capuleti.
Entrano PARIDE e il suo paggio, il quale porta dei fiori ed una torcia.

Paride.
776Dammi la tua torcia, ragazzo: vattene, e fermati ad una certa distanza di qui: — anzi, spengila, poiché non vorrei essere veduto. Mettiti disteso sotto quei tassi laggiú, con l’ orecchio vicino al terreno risonante: cosí nessun piede passerà sul cimitero, che è smosso e mal fermo per le fosse che vengono scavate, senza che tu lo senta: allora fammi un fischio, come segno che senti qualcuno avvicinarsi. Dammi quei fiori. Fa’ quello che ti dico, va’.

Paggio.
777 (Da sé). Ho quasi paura a star solo qui nel cimitero; tuttavia mi ci arrischierò.

(Si ritira).

Paride.
778O dolce fiore, io spargo di fiori il tuo letto nuziale (ahimè! il tuo baldacchino è polvere e sassi), ed ogni notte li bagnerò di dolce acqua, o, mancando essa, di lacrime distillate dai miei singhiozzi. Le esequie che io celebrerò per te, saranno: spargere ogni notte, di fiori, la tua tomba e piangere. (Il paggio fischia). Il ragazzo mi avverte che qualcuno si avvicina. Qual piede maledetto erra stanotte in queste parti, per disturbare le esequie e i riti che io tributo al vero amore? Come, con una torcia! — Nascondimi, o notte, per un istante.

(Si ritira).
Entrano ROMEO e BALDASSARRE con una torcia, un piccone ecc.

Romeo.
779Dammi quel piccone e la leva di ferro. Tieni, prendi questa lettera; domani mattina di bon’ ora guarda di consegnarla al mio signore e padre. Dammi il lume. Per la tua vita, ti do quest’ ordine: qualunque cosa tu oda o veda, non ti avvicinare, e non interrompermi nella mia opera. La ragione per la quale io discendo in questo letto di morte, è in parte per contemplare la faccia della mia donna, ma principalmente per portar via dalla sua morta mano un prezioso anello; un anello del quale io debbo fare un uso importante. Perciò vattene di qua: che se tu, sospettoso, tornassi a spiare quello che io intendo di fare fra poco, per il cielo, io ti farò a brandelli, e seminerò delle tue membra questo affamato cimitero: il momento e le mie intenzioni sono feroci, piú tremendi e inesorabili, molto, di tigri digiune o del mare ruggente.

Baldassarre.
780Vado subito, signore, e non vi disturberò.

Romeo.
781Cosí tu mi dimostrerai la tua amicizia. Prendi qua: vivi e sii felice; addio, buon giovinotto.

Baldassarre.
782 (Da sè) Ció nonostante io mi nasconderò qui intorno: i suoi sguardi mi fanno paura, e dubito delle sue intenzioni.

(Si ritira).

Romeo.
783O tu detestabile bocca, o tu ventre della morte, satollato col boccone piú prezioso della terra, cosí io forzo le tue putride mascelle ad aprirsi (Spezzando la porta del monumento), e a tuo dispetto voglio impinzarti ancora di altro cibo.

Paride.
784Costui è quel bandito orgoglioso Montecchi, che uccise il cugino dell’ amor mio, pel cui dolore si crede che la bella creatura morisse, ed è venuto qui a fare qualche villano insulto agli estinti: io lo arresterò. — (Avanzandosi). Cessa la tua empia fatica, o vile Montecchi! Può la vendetta essere spinta oltre la morte? Villano d’ un bandito, io ti arresto: obbedisci, e vieni con me, poiché tu devi morire.

Romeo.
785Io debbo morire veramente, e appunto per questo venni qui. O buono e gentile giovinotto, non tentare un uomo disperato; fuggi di qui e lasciami: pensa a questi morti, e il loro pensiero ti spaventi. Io ti scongiuro, giovinotto, non accumulare sul mio capo un altro peccato, spingendomi al furore. Oh vattene! Per il cielo io ti amo piú di me stesso, poiché io vengo qui armato contro me stesso; non restare, vattene: vivi, e racconta, fin da questo momento, che la clemenza di un pazzo ti ordinò di fuggire.

Paride.
786Io sfido i tuoi scongiuri, e ti arresto qui come un fellone.

Romeo.
787Tu vuoi provocarmi? allora in guardia, fanciullo!

(Si battono).

Paggio.
788O Signore, si battono! anderò a chiamare la guardia.

(Esce).

Paride.
789Oh, sono ucciso! (Cade). Se tu sei pietoso, apri la tomba, e mettimi accanto a Giulietta.

Romeo.
790In fede mia lo farò. — Esaminiamo questa faccia: il parente di Mercuzio, il nobile conte Paride! Che cosa diceva il mio servitore, quando la mia mente agitata non badava a lui mentre cavalcavamo? Mi pare ch’ egli mi dicesse che Paride avrebbe sposato Giulietta: non disse cosí? o me lo sono sognato? O sono io un pazzo, sentendolo parlare di Giulietta, a pensare ch’ egli dicesse questo? — Oh, dammi la tua mano, tu che fosti inscritto con me nel duro libro della sventura! Io ti seppellirò in una tomba splendida; — una tomba? Oh no, un faro, o mia giovane vittima: poiché qui giace Giulietta, e la sua bellezza trasforma questa tomba in una sala piena di festa e di luce. — O morte, riposa là dentro, sotterrata da un uomo morto. (Deponendo Paride nel monumento). — Oh, come spesso gli uomini sul punto di morire provano un istante di gioia! un istante, che chi li veglia, suole chiamare: il lampo che precede la morte. Ma io come potrei chiamare questo un lampo? — O amor mio, o mia sposa! La morte che ha libato il miele del tuo respiro, nulla ha potuto ancora sulla tua bellezza: tu non sei conquistata; l’ insegna della bellezza è ancora rosea sulle tue labbra e sulle tue guancie, e il pallido vessillo della morte non vi si è ancora spiegato. — Tebaldo, giaci tu là nel tuo sanguinoso lenzuolo? Oh! quale piú grande favore poss’ io farti, che con quella mano stessa che spezzò in dua la tua giovinezza, spezzare quella di colui che fu tuo nemico? Perdonami, cugino! — Ah! cara Giulietta, perchè sei tu ancora cosí bella? Debbo io credere che la morte immateriale senta l’amore, e che lo smunto aborrito mostro ti tenga qui nelle tenebre, perché tu sia la sua amante? Per paura di questo, io resterò per sempre accanto a te, e non mi partirò mai piú da questo palazzo della scura notte: qui, qui io voglio rimanere insieme coi vermi che sono le tue ancelle: oh! qui io fisserò il mio sempiterno riposo, e scoterò, da questa carne stanca del mondo, il giogo delle avverse stelle. — Occhi, guardatela per l’ ultima volta! Braccia, prendete il vostro ultimo abbraccio! e voi, labbra, voi che siete la porta del respiro, suggellate, con un leale bacio, un contratto indefinito con la morte che tutto rapisce! — Vieni, amaro conduttore, vieni disgustante guida! Via, o disperato pilota, precipita d’ un colpo sugli scogli, che la infrangeranno, la tua barca afflitta e stanca dal mare. Bevo all’ amor mio! (Beve). — O speziale veritiero! Il tuo veleno è rapido. — Io muoio cosí con un bacio.

(Muore).
Dall’ altra parte del cimitero entra frate LORENZO con una lanterna, una leva, ed una vanga.

Frate Lorenzo.
791San Francesco mi accompagni! quante volte stanotte il mio vecchio piede ha inciampato nelle tombe! — Chi c’è là?

Baldassarre.
792C’è un uomo che vi è amico, e che vi conosce bene.

Frate Lorenzo.
793Siate benedetto! Ditemi, mio buon amico, che cos’ è quella torcia llaggiú, che fa luce inutilmente a dei vermi e a dei teschi sesnz’occhi? A quel che vedo, essa è accesa nel monumento dei Capuleti.

Baldassarre.
794È proprio cosí, padre santo; e là c’è il mio padrone, uno che vi ama.

Frate Lorenzo.
795Chi è?

Baldassarre.
796Romeo.

Frate Lorenzo.
797Quanto tempo è che è là?

Baldassarre.
798Una buona mezz’ ora.

Frate Lorenzo.
799Vieni con me al sotterraneo.

Baldassarre.
800Io non oso, signore: il mio padrone sa che io me ne sono andato di qui; egli mi ha minacciato tremendamente di morte, se fossi rimasto a spiare le sue intenzioni.

Frate Lorenzo.
801Allora resta; anderò solo. — La paura mi prende; oh, io temo molto qualche triste sciagura!

Baldassarre.
802Mentre dormivo qui sotto questo tasso, ho sognato che il mio padrone si batteva con un altro, e che il mio padrone l’ ha ucciso.

Frate Lorenzo.
803 (Avvicinandosi al monumento). Romeo! Ahimè, ahimè! che cos’ è questo sangue, che macchia la marmorea entrata del sepolcro? — Che significano quelle spade senza padrone e imbrattate, che giacciono per terra, rosse di sangue, in questo luogo di pace? (Entra nel monumento). Romeo! Oh, qual pallore sulla sua faccia? — Chi c’ è ancora? — Come, anche Paride? E bagnato di sangue? — Ah, quale sciagurata ora è rea di cosí lacrimevole sventura! — La fanciulla si muove.

(Giulietta si sveglia).

Giulietta.
804O padre consolatore! Dov’ è il signor mio? — Io mi ricordo bene in qual luogo debbo essere; e infatti ci sono: — ma dov’ è il mio Romeo?

(Si sente del rumore).

Frate Lorenzo.
805Sento del rumore. — Fanciulla, esci da cotesto nido di morte, di contagio, di sonno artificiale; una potenza superiore, alla quale noi non possiamo opporci, ha attraversato i nostri disegni: vieni, vieni via; tuo marito giace costí morto, accanto a te, e Paride anche; vieni, io ti metterò in un convento di sante monache: non mi chiedere spiegazioni, poiché la guardia arriva. Vieni, andiamo, mia buona Giulietta (Il rumore si avvicina); io non oso restare piú a lungo.

(Frate Lorenzo esce).

Giulietta.
806Va’, fuggi pure di qui, poiché io non anderò via. — Che cosa c’ è qui? una tazza, che il fido amor mio tiene stretta in mano? Comprendo: il veleno è stato la causa della sua fine immatura; — oh cattivo! lo ha bevuto tutto, e non ne ha lasciato una benefica goccia, che dopo lui aiutasse me? — Voglio baciare le tue labbra; forse vi rimane ancora un po’ di veleno, che basti per farmi morire con le dolcezze di un balsamo. (Lo bacia). Le tue labbra sono ancora calde.

Entra la guardia col paggio di Paride.

Paggio.
807Ecco il luogo: là dove arde quella torcia.

Prima guardia.
808Il terreno è insanguinato: cercate intorno pel cimitero: andate, alcuni di voi, e chiunque trovate arrestatelo. — (Escono alcuni della guardia). Oh pietosa vista! Qui giace ucciso il conte; e per terra c’ è Giulietta sanguinante, ancora calda, e appena morta, lei che da due giorni era stata sepolta qui! — Andate, avvertite il principe; correte dai Capuleti; fate venir qui i Montecchi: altri di voi si diano a cercare intorno. (Escono altre guardie) Noi vediamo il terreno sul quale giacciono le vittime di queste sventure; ma il vero terreno dal quale germogliò il seme di tutte queste lacrimevoli sventure, non potremo scoprirlo senza conoscere le circostanze particolari.

Entrano alcuni della guardia con BALDASSARRE.

Seconda guardia.
809Ecco il servo di Romeo: l’ abbiamo trovato nel cimitero.

Prima guardia.
810Trattenetelo in un luogo sicuro, finché giunga qui il principe.

Entra un’ altra guardia con FRATE LORENZO.

Terza guardia.
811Qui c’ è un frate, che trema, sospira e piange: questa leva e questa zappa l’ abbiamo sequestrate a lui, mentre veniva da questa parte del cimitero.

Prima guardia.
812Egli è molto sospetto: trattenete anche il frate.

Entra il PRINCIPE col suo seguito.

Principe.
813Quale sventura si è alzata oggi cosí di bon’ ora, da toglierci al nostro riposo mattutino?

Entrano il CAPULETI, DONNA CAPULETI, ed altri.

Capuleti.
814Che può esser mai accaduto, che tutti urlano a questo modo per le vie?

Donna Capuleti.
815La gente, per la strada, va gridando chi «Romeo», chi «Giulietta», e chi «Paride»; e tutti con grande schiamazzo corrono verso il nostro monumento.

Principe.
816Che cosa sono queste grida paurose che ci colpiscono gli orecchi?

Prima guardia.
817Signore, qui c’ è il conte Paride assassinato, e Romeo morto; e Giulietta, che era già morta, è qui uccisa in questo istante e ancora calda.

Principe.
818Cercate, domandate, e informateci come si spiega questo orrendo massacro.

Prima guardia.
819Qui c’ è un frate e un servo dell’ ucciso Romeo, che avevano addosso degli strumenti necessari per aprire le tombe di questi morti.

Capuleti.
820O cielo! Moglie mia, guarda come versa sangue la nostra figliuola! Questo pugnale ha sbagliato strada, poichè, vedi, la sua guaina è là vuota al fianco del montecchi, e per errore s’è riposto nel seno di mia figlia!

Donna Capuleti.
821Ohimè! questo spettacolo di morte è come una campana, che annunzia alla mia vecchiaia la partenza per il sepolcro.

Entrano il MONTECCHI ed altri.

Principe.
822Vieni, o Montecchi; tu ti sei alzato innanzi tempo, per vedere il tuo figliuolo ed erede ancor piú innanzi tempo coricato.

Montecchi.
823Ah! mio principe, stanotte è morta mia moglie; il dolore cagionatole dall’ esilio del suo figliuolo le ha troncato il respiro: quale nuova angoscia cospira contro la mia vecchiaia?

Principe.
824Guarda, e vedrai.

Montecchi.
825O screanzato figliuolo! qual rispetto è cotesto: spingersi innanzi al proprio padre, per arrivare prima di lui ad una tomba?

Principe.
826Chiudi per un istante la bocca alla disperazione, finché siamo in grado di chiarire questi misteri e conoscerne l’ origine, l’ occasione, il loro vero principio; e allora io stesso mi farò guida ai tuoi dolori, e ti accompagnerò fino alla morte: per ora frenati, e lascia che la sventura sia schiava alla pazienza. — Fate venire innanzi le persone sospette.

Frate Lorenzo.
827Fre queste io sono la piú importante, e sebbene il meno capace di sí orrendo misfatto, io sono, tuttavia, il piú sospetto, cosí gravemente depongono contro di me il tempo e il luogo; ed eccomi qui pronto ugualmente ad accusarmi e a discolparmi, di ciò che in me è condannabile o scusabile.

Principe.
828Allora racconta subito quello che sai.

Frate Lorenzo.
829Sarò breve, poichè il poco fiato che mi avanza, non é tanto che mi basti per annoiarvi con un lungo racconto. — Romeo, qui morto, era marito di Giulietta; e lei, lì morta, era la fedele moglie di Romeo: li avevo sposati io; e il giorno del loro segreto matrimonio fu quello stesso in cui morí Tebaldo, l’ immatura morte del quale fece bandire da questa città il novello sposo; e per lui, non per Tebaldo, si struggeva Giulietta. Voi per liberarla dal dolore ond’ era oppressa, la fidanzaste, e l’ avreste maritata per forza, al conte Paride. Lei, allora, venne da me, e con la disperazione negli occhi mi scongiurò di trovare qualche mezzo onde liberarla da questo secondo matrimonio, altrimenti si sarebbe uccisa nella mia cella stessa. Allora io, consigliato dall’ esperienza, le detti un sonnifero, il quale fece l’ effetto che io desideravo, poichè operò su di lei l’ apparenza della morte. Nello stesso tempo scrissi a Romeo, che fosse venuto qui, proprio in questa fatale notte, per aiutarmi a trarla fuori dalla sua finta tomba essendo giunto il momento nel quale l’ azione del narcotico doveva cessare. Ma quegli che portava la mia lettera, cioè frate Giovanni, fu trattenuto per un malaugurato caso, e ieri notte venne a restituirmi la lettera. Allora, al momento preciso del suo risvegliarsi, sono venuto da me solo qui per farla uscire dalla volta sotterranea dei suoi congiunti, con l’ intenzione di tenerla nascosta nella mia cella, finché avessi potuto mandarla in modo conveniente a Romeo. Ma llorchè giunsi, qualche minuto prima del momento in cui si doveva svegliare, il nobile conte Paride e il fedele Romeo giacevano qui morti immaturamente. Essa intanto si svegliava, ed io la scongiuravo di venir via e sopportare con rassegnazione quest’ opera del cielo: ma in quell’ istante un rumore mi fece allontanare, per subita paura, dalla tomba, e lei in preda ad una estrema disperazione non volle venir via con me, ma, a quel che pare, incrudelì contro se stessa. — Questo è tuto quello che so io: del matrimonio è consapevole anche la sua nutrice; e se in tutto ciò qualche sciagura è accaduta per colpa mia, questa mia vecchia vita sia sacrificata, qualche ora prima della sua fine naturale, al rigore della legge piú severa.

Principe.
830Noi ti abbiamo conosciuto sempre per un sant’ uomo. — Dov’ è il servo di Romeo? Che cosa può dire di tutto questo?

Baldassarre.
831Io portai al mio padrone la notizia della morte di Giulietta, ed egli allora con la posta partí per Mantova, e venne qui in questo luogo, proprio qui a questo monumento, Mi ordinò di consegnare di buon mattino questa lettera a suo padre, e mi minacciò di morte, entrando nella volta sotterranea, s’ io non mi fossi allontanato, e non lo avessi lasciato lí solo.

Principe.
832Datemi la lettera; voglio vederla. — Dov’ è il paggio del conte, che è andato a chiamar la guardia? — Mariuolo, che cosa veniva a fare il vostro padrone in questo luogo?

Paggio.
833Veniva con dei fiori per spargerli sulla tomba della sua donna, e a me aveva ordinato di restare in distanza, ciò che io avevo fatto: poco dopo venne uno con una torcia per aprire la tomba, e il mio padrone in un attimo trasse fuori la spada contro di lui, ed io allora scappai via a chiamare la guardia.

Principe.
834Questa lettera rende ragione alle parole del frate, racconta le peripezie del lore amore, e accenna alla notizia della morte di lei: ed egli scrive, qui, che aveva comprato un veleno da un povero speziale, e che con quello era venuto in questa volta sotterranea, per morire e igacere accanto a Giulietta. — Dove sono questi nemici? — Capuleti! — Montecchi! — Guardate quale maledizione è caduta sul vostro odio: il cielo per uccidere le vostre gioie si è servito dell’amore! Ed io per aver chiuso gli occhi sopra le vostre discordie, ho perduto due parenti. Noi siamo tutti puniti.

Capuleti.
835O fratello Montecchi, dammi la tua mano: eccoti in questa stretta la dote di mia figlia, poiché io non posso chiedere di piú.

Montecchi.
836Ma io posso darti di piú: io farò inalzare a tua figlia una statua in oro puro, affinché nessuna immagine, finché duri il nome di Verona, sia tenuta in cosí alto pregio, come quella della leale e fedele Giulietta.

Capuleti.
837E in una forma egualmente preziosa starà Romeo presso la sua sposa: povere vittime, tutt’ e due, della nostra inimicizia.

Principe.
838Questa mattina è foriera di una pace che rattrista; il sole pel dolore non mostrerà la sua faccia. — Andiamo via di qui, a ragionare ancora di questi dolorosi avvenimenti; a qualcuno sarà perdonato, ed altri sarà punito: poiché non ci fu mai storia piú pietosa di questa di Giulietta e del suo Romeo.