Pietro Aretino

La Cortigiana, 1525





Texto utilizado para esta edición digital:
Aretino, Pietro. Teatro: Tomo I, La Cortigiana (1525 e 1534). A cura di Paolo Trovato e Federico Della Corte. Roma: Salerno Editrice, 2010.
Codifica del testo digitale per EMOTHE:
  • Romeu Guallart, Luis María
  • Tronch Pérez, Jesús

Nota a questa edizione digitale.

Questa pubblicazione fa parte del progetto di ricerca "Teatro spagnolo ed europeo dei secoli XVI e XVII: patrimonio e banche dati", riferimento PID2019-104045GB-C54 (acronimo EMOTHE), finanziato dal MICIN/AEI/10.13039/501100011033.

Il Progetto EMOTHE ringrazia Editrice Antenore per aver concesso il permesso di riprodurre il testo.


PERSONAGGI

MESSER MACO DA COE DA SIENA
SANESE, famiglio di Maco
MAESTRO ANDREA
FURFANTE CHE VENDE LE STORIE
CAPPA, famiglio di Parabolano
ROSSO, famiglio di Parabolano
FLAMINIO, scudiero di Parabolano
VALERIO, camariero di Parabolano
MESSER PARABOLANO
FACENDA, pescatore
SAGRESTANO DI SAN PIETRO
GRILLO, famiglio di Maco
SEMPRONIO, amico di Flaminio
ALOIGIA, ruffiana
ZOPPINO, tabacchino
GUARDIANO D’ARACELI
TOGNA, moglie di Ercolano fornaro
ERCOLANO FORNARO
BIASINA, fantesca
ROMANELLO GIUDEO
SBIRRI
ISTRIONE DEL PROLOGO
ISTRIONE DELL’ARGOMENTO

*NOTA: In ordine di apparizione. Il ms. non reca alcun elenco di personaggi: si tratta di un mero sussidio convenzionale, compilato per comodità del lettore.


PROLOGO [E ARGOMENTO]

[ISTRIONE DEL PROLOGO]
1Io avevo imparato un certo proemio, diceria, sermone, filostoccola, intemerata o prologo che se sia, et vel volevo recitare per amor de un mio amico, ma ognum mi vuole in pasticci. Ma se voi siate savii, plaudite et valete.

[ISTRIONE DELL’ARGOMENTO]
2Come «Plaudite et valete»? Donque io ho durato tanta fatica a co[mp]orre questo argumento, servitiale, cristiero o quel che diavol si chiami, e ora vuoi ch’io lo getti via? Per mia fe’, che tu hai magior torto che ‘l campanile de Pisa e che la superchiaria.

[ISTRIONE DEL PROLOGO]
3Sta molto ben, posch’io ho ‘l torto. O corpo di me, p’art’egli onesto ch’a peticione d’una comedia io abbi ad essere crucifixo?

[ISTRIONE DELL’ARGOMENTO]
4Messernò, che non mi pare né giusto né onesto, né si cricifigono cosí per poco le persone.

[ISTRIONE DEL PROLOGO]
5Anzi, per niente. E che ‘l sia el vero, un messer Mario romanesco or ora m’è venuto a trovare e dice ch’io gl’ho detto che gli dà il portante ale puttane, e che per questo mi vuol fare e dire.

[ISTRIONE DELL’ARGOMENTO]
6Ah, ah, ah!

[ISTRIONE DEL PROLOGO]
7Tu hai un bel ridere, e io forse ne piangerò, perché non fu sí tosto partito il prefatto messer Mario, che mi asaltò Ceccotto genovesse, già sarto e ora astrologo, e dice ch’io ho detto che li Spagnuoli [non] sono da pié che ‘ Francesi, questa peccora! Messer lorenzo Luti ancora quasi cacciò mano a un coltello per darmi, con dire ch’io ho sparlato di lui, e detto che gli è un pazzo, sendo Sanese. Et una certa monna Maggiorina che racconcia l’ossa per Roma manda i gridi al cielo per esserli stato solo ripportato ch’io l’ho per una strega, e mille altre novelle. E non voglio che ‘l padrone habbia quista impressione di me, ché importano le impressioni assai, maxime nelle orrechi de’ gran maestri.

[ISTRIONE DELL’ARGOMENTO]
8Tu sei presso ala morte poiché stimi se le impressioni buone o cattive neli orrechi de’ signori possono o non, come e tu facessi un gran conto di dispiacerli. Tu aprezzassi già tanto la gratia loro, quanto ha aprezzato Girolamo Beltramo il Giubeleo! E ora stai sul severo, recita questo beato prologo e io farò l’argumento a questi òmini da bene. E poi, chi ha a fare la comedia la faccia, ch’io per me non so’ per fare altro che l’officio mio, e ecco la calza.

[ISTRIONE DEL PROLOGO]
9Io ti vo’ contentare, e chi l’ha per male, grattisi il culo. PROLOGO Chi cercassi tutta la Marema, nonché Italia, non saria mai possibile a ragunare tanta turba di spaccendati, e ognuno è corso al romore, e non è niuno che sappia a che proposito. Almen, quando quel medica da Verzelli e i compagni si squartorno, e`si sapeva per dua giorni inanzi per che e per come. Sarà qualche satrappo che dirà essere venuto per avere qualche piacere dalla comedia, come se la comedia non avesse altra facenda che farlo ridere. Ma voi non volete stare queti! Orsú, ch’io vi chiarisco ch’io vi vitupererò tutti. Per Dio, per Dio, che, se non fate scilentio, ch’io sciorrò el cane, e dirò: el tal è agens, el tal è patiens. E se non ch’io ho rispetto a monna comedia che rimarebbe sola, io publicarei tutti i deffetti vostri che gli ho meglio in mente che la Marca, la buona e santta memoria del’Armelino (con reverentia parlando).O quanti ce ne sono che fariano il meglio a procacciare la pigione dela casa ala signora? E altri, a fare che ‘l suo famiglio abbia el suo salario, provedere doveria. Et chi è in disgratia al maestro di casa, riaverlo per amico sería buono di tentare. E vadi a cena chi no ha cenato, nanzi che le campanelle imbasatrici dela fame suonino. E chi non ha ditto l’offitio, si non andassi a dirlo, non peccarebbe però in Spirito Sancto.Per certo che si può ralegrare quel padre et fratello che ha il figliolo e fratello in corte, e con tutti i dessagii del mondo lo mantiene perché doventa mesere e reverendo, perché arà le some de’ beneficii, per andare dietro ale favole. Ma io getto via le parole e vego che a ogni modo volete impregnarvi di questa comedia. Orsú, ale mani. Assettaretivi mai piú, perdi-giornate? A fe’, che c’è tale che sta a un sinitro strano, e per che cosa? Per vedere una favola. Se gli fusse in San Piero e avesse a vedere il Volto Santo stando a sí gran disconcio, diria a messer Domenedio che ‘l verebbe a vedere una altra volta. Ma avete ventura che ci sono donne oneste e poche, ché vi so dire che bagnaresti e piedi d’altro che d’acqua lampha. Ma torniamo al proposito.Vostre Signorie mi son patrone e, ancora ch’io abbia bravato un poco, non c’è periculo niuno, e mi burlo con voi che sete nobilissimi, costumati e virtuossi. E non credete che questa ciancia che vi sarà racconta vi facessi dispiacere, perché ella è nata a contemplatione vostra, e mi vien da ridere perch’io penso che, inanzi che questa tela si levassi dal volto di questa città, vi credevate che ci fussi sotto la torre de Babilonia, e sotto ci era Roma. Vedette Palazzo, san Piero, la Piazza, la Guardia, l’osteria dela Lepre, la Luna, la Fonte, Santa Catherina e ogni cosa. Ma adesso che ricognoscete che l’è Roma al Coliseo, ala Ritonda e altre cose e che siate certissimi che dentro vi si farà una comedia, come credete vou che detta comedia abbia nome? Ha nome la Cortigiana et è per padre toscana e per madre da Bergamo. Però non vi maravigliate s’ella non va su per sonetti lascivi, unti, liquidi cristali, unquanco, quinci e quindi, e simili coglionerie, cagion che madonne Muse non si pascono si non d’insalatucce fiorentine. E per mi fe’ ch’io son schiavo a un certo cavaliero Cassio de’ Medici bolognese poeta que pars est, che un una sua opera de la Vita de’ Santi dice questo memorabile e divino verso:
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Per noi fe’ Cristo in su la croce el thomo.
E se ‘l Petrarca non disse thomo, l’h detto egli ch’è da Bologna et altro omo che ‘l Petrarcha per essere eques inorpellato. Cosí Cinotto, pur patricio bologneses, che scrivendo contro il Utrco disse cosí:
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Fa che tu sippa, Padre Santto, in mare
el Turco deroccando e tartusando,
ché Dio si vuol con tecco scorucciare
Sippa è vocabulo antiquo, deroccare e tartussare modern[i]; e Cinotto, poeta coronato per man di papa Leon, l’usa: e sta molto bene. Siché, questi comentatori di vocabuli del Petrarca, gli fanno dire cose che non l[e] faria dire al Nocca da Fiorenza VIII altri tratti di corda, come ebbe già benemerito in persona propria dala patria sua.E’ non è niuno che sappia meglio di Pasquino quello si può usare o no. E’ gli ha un libro il qual tratta dela sua genologia e c’è de belle cose, come intenderete; e perché gli è nato di poeta, però qui lo faccio autore. Parnaso è un monte alto, aspero, indiavolato, che non ci andarebbe san Francesco per le stímate; e questo loco era d’un povero gintilomo che si chiamò ser Apollo il qual, o fosse per voro o per disperatione, fatoci un romitorio, si viveva ivi. Avenne che non so chi toccò il core a nove donne da bene, e dette donne, accettate dal sopradetto Apollo, entroron seco nel monasterio e dandosi ala virtú steteron non molto insieme che si piglioron grande amore. E come accade che ‘l demonio è sutile, [fra] ser Apollo bello e madonne Muse bellissime si consumò el matrimonio, onde nacquero figlioli e figliole. Et perché Apollo fu ceretano, come per la lira si può cognoscere, e molti anni cantò in banca, tutti e figlioli e figlie che gli ebbe fur poeti e poetesse.Ora, cominciandosi a sapere che suso quel monte, a peticione d’un solo, stavono nove cosí belle donne, ce furon molti che epr industria saliron in cima al monte e assai, credendosi salire, rupporo il collo; e come le buone Muse videro di potere scemare la fatica a Apollo si domesticorono sí con soloro che erono con tanto ingegno saliti al’indiavolato monte che posseno le invisibile corna a quela gintil creatura de Apollo. E con tale archimia fu aquistato Pasquino, né si sa di qual musa o di qual poeta. Bastardo è egli, questo è certo. E chi dice che dette Muse fussero sorelle, ha il tortno, et ha quel giudicio in le croniche ch’ha il Mainoldo mantuano in anticaglie o in gioie. E lo prova, non essere pur aprenti, la differentia dele lingue che si leggono, e lo conferma Pasquino, che cicala d’ogni tempo greco, còrso, francese, todesco, bergamasco, genovese, venetiano e da Napoli; e questo è perch’una musa nacque in Bergamo, l’latra in Francia, questa in Romagna e quella in Chiasso, e Caliope in Toscana. O vedete se di tanta pescolanza nascono le sorelle! E la ragion che piace piú la lingua toscana che l’altre, è perché ser Petrarca in Avignon s’inamorò di monna Laura, la qual fu fantesca di Caliope e aveva tutto il parlare suo. E a ser Francesco piacendoli la dolce lingua di monna Laura, cominciò a comporre in sua laude. E perché a lui non è ancora agiunto stile se non quello del’abatte di Gaeta, bisogna andare dietro ale autorità sua. Ma circa al parlare non c’è pena niuna salvo se non se dicessi el vero. E il Milanese può dire micca per ‘pane’ il Bolognese sippa pro ‘sia’.

[ISTRIONE DELL’ARGOMENTO]
10Oh, tu legeresti bene il processo, o la condemnatione a un podestà; o che cicalare è stato il tuo! Che domin t’importa egli il volere disputare del parlare? Tu non dovevi finire mai piú, ad ciò ch’io avessi a stare con questa calza tutt’oggi in mano e che ‘l servitiale si fredassi, e che costoro non ricevessino la mità de l’argomento.

[ISTRIONE DEL PROLOGO]
11Tu hai ragione, tamen io voglio sapere quanto ad un certum quid che erbe sono in cotesto cristero, perché se tu vi avessi messo snelle, frondi, ostro, sereno, campeggianti rubini, morbide perle e terse parole e melliflui sguardi, e’ sono sí stitichi che non gli smaltirebbono gli struzzi che padiscono e chiodi.

[ISTRIONE DELL’ARGOMENTO]
12Io gli ho messo la merda.

[ISTRIONE DEL PROLOGO]
13Sta queto e vedi farmi cotale argomento e poi mi parla. Or comincia.

ARGOMENTO

[ISTRIONE DELL’ARGOMENTO]
14In questa calza vi porto un argomento molto ristorativo, e in questa sua compositione, ch’è buona a fare ridere il pianto, c’è messer Maco di Choe da Siena sutdiante in libris, venuto a Roma per acconciarsi per cardinal con qualque papa; che, essendo in casi di morte per il mal di mazzucco, suo padre fe’ voto che, guarendo il tetto messer Maco, lo aconceria per cardinale con un papa. Sendo exaudito, sano e piú bello che mai il figliolo, l’ha mandato in Roma per adempire il voto fatto per la salute sua. E preso maestro Andrea per pedagogo, gli fa credere che non è possibile e mettersi per cardinale con il papa, se prima non si diventa cortigiano e facilmente gli fa credere ch’un Gioan Manente da Reggio si fece cortigiano nele forme, e con questa solenne sciochezza mena questo ineffabile castrone ala stupha dove gli dice esser le forme che fanno i piú bei cortiginani del mondo. E cosí, di peccora diventando un bue, pone il sigillo a tutte le savie et salate parole di quel pazzo di maestro Andrea; e sinonch’in corte si vegono tutto il dí miracoli assai maggiori, non crede[res]te mai ch’un omo si conducessi a tanta castroneria. E’ mi pare molto maggior cosa il testamento che fece lo elephante, et era sí gran bestiaccia. Cosí, a sentire ragionare maestro Pasquino, ch’e di marmo. Et fammi anco fare le stímate avere visto un Accursio e un Serapica comandare al mondo, ch’uno era stato fattore di Caradoso orefice, e l’altro canatiero. Or lasciamo ire le philosophie morale.Homero fu litigato da sette cittade e ignuna per suo l’ha sempre voluto. A messer Maco interviene peggio, che da piú di trenta paesi è refiutato, né ‘l vole niuno per amico né per parente. Milano lo renuntia per minchione, Mantoa per babione, Venetia per coglione, e sin a Mathelica. Ma per tagliare la lite, la causa è messa in ruota, e per gratia de li auditori arà fin presto, come le altre cose. Siché per oggi il faremo da Siena; domani chi ‘l vuol sel pigli.Et anche piaceravi, credo, veder inamorato Parabolano da Napoli, uno altro Accursio, in Corte piú per i caprici della fortuna che per sua meriti. Il qual, tormentandosi per Laura moglie di messer Litio romano, e non volendo questo amor scoprire, un suo famiglio ribaldo sentí che ‘l padrone di lei si lamentava sognando, e avendo per tal mezzo questo secretto, gli fa credere che Laura di lui sia inamorata, e per via de una ruffiana conclude el parentado; e il magnifico, goffo al possibile, si ritrova con una fornaia piú sucida che la manigoldaria. E mentre che saranno in essere queste cose e che vederete rapresentare qualque particella dei costumi cortigiani di donne et òmini et che vederete doe comedie in una medesina scena nascere e morire, non vi spaventate; perché mona comedia Cortigiana, per essere ella piú constrafatta che la chimera, piú spicevole che ‘l fastidio, piú costumata che l’onestà, piú suave che l’armonia, piú gioconda che la leticia, piú iraconda che la colera, piú faceta che la buffonaria, è, nel dir il vero, molto piú temeraria che la prosomptione.E se piú di sei volte messer Maco o altri uscissi in scena, non vi corucciate, perché Roma è libera e le cathene che tengono i molini sul fiume non terebbono questi pazzi stregoni, volsi dire istrioni. Cosí, abbiate patientia, si alcun parla fuore di comedia, perché se vive a una altra foggia qui, che [‘n] Athene non si faceva; di poi colui che ha fatto la novella è omo di suo capo, né lo riformaria il Vescovo di Chieti.

[ISTRIONE DEL PROLOGO]
15E ‘nfine tu sei omo che ti governi con le bigonce, disse messer Zanozzo Pandolfini, e per mia fe’ che sei un buon maestro da fare argomenti et è stato molto solutivo. Or tiriamoci da parte e ascoltiamo come messer Maco si porta a diventare cortigiano. Eccolo! Ah, ah, ah! Oh che pecora! Ah, ah, eh, oh!


ATTO PRIMO

ATTO PRIMO

SCENA I

MESSER MACO padrone, el SANESE suo famiglio

MESSER MACO.
1Per certo Roma è capus mundi. E se io non ce veniva...

SANESE.
2...Il pan muffava.

MESSER MACO.
3...Cacava. Io dico che mai l’arei creduto che la fussi bella a milanta miglia come è bella Siena.

SANESE.
4O non ve dicevo io che Roma era un poco piú bella e piú grande che Siena? E voi diciavate: «Non è. A Siena c’è lo Studio, c’è doctori, fonte Branda, fonte Beccia, la Piazza, la Guardia; si fa la caccia del thoro, e carri con ceri et pi[s]pinelli e mille gentilezze per mezzo agosto: a Siena ci si fanno e marzapani e bericuòcoli a centenaia, e ci vuol ben l’imperadore e tutto il mondo forchñe i Fiorentini».

MESSER MACO.
5Tu me dicevi el vero, mi dicevi. A Siena non ci sono sí ben vetigi gli òmini a cavallo con il famiglio. O che magnificentia!

SANESE.
6State cheto: uno picchio favella.

MESSER MACO.
7Papagallo, volesti dire, che ti venga il grosso.

SANESE.
8Io dico picchio, e non papagallo.

MESSER MACO.
9E io dico papagallo, e non picchio.

SANESE.
10Padrone, voi siate una bestia, perdonatime, ché gli è un de quelli che vostro avolo comperò tre lire e mandolo a Corsignano e no fu epso. E cosí dise il Morgante.

MESSER MACO.
11Il Morgante, Sanese, ci voleva male e io n’ho monstro al’orefice attonaio una penna e dice ch’ella è di papagalo, e ben fine.

SANESE.
12Padrone, voi no cognoscete li ucelli.

MESSER MACO.
13Al tuo dispetto li cognosco.

SANESE.
14Non vi adirate.

MESSER MACO.
15Mi voglio adirare, mi voglio. E voglo essere obedito, stimato e creduto.

SANESE.
16Io vi extimo piú ch’un ducato, v’obedisco da servitore e credo come a messer Maco.

MESSER MACO.
17Io ti perdono e basta.

SCENA II

MASTRO ANDREA, MESSER MACO, SANESE

MAESTRO ANDREA.
18Cercate voi padrone?

MESSER MACO.
19Messersí.

SANESE.
20Ha nome messer Maco de Coe.

MAESTRO ANDREA.
21A proposito! Io vi domando se voi volete stare a padrone.

SANESE.
22La notte di Beffana fece XXII anni.

MAESTRO ANDREA.
23Lassa parlare a lui, manigoldo.

MESSER MACO.
24Lasciami favellare, tu sei un tristo e parli innanzi a me.

MAESTRO ANDREA.
25Che sete voi venuti a fare a Roma?

SANESE.
26Per vedere il Verbum caro et il Giubileo.

MESSER MACO.
27Tu ti menti per la gola, ch’io ci son venuto per acconciarmi per papa con qualche imperadore o re di Francia.

SANESE.
28Voi volesti dire per cardinale con qualche papa.

MESSER MACO.
29Tu dici il vero, il mio Sanese.

MAESTRO ANDREA.
30Voi non potete esser cardinale si prima non diventate cortigiano, e io son maestro di farli e per amor del paese son per farvi ogni apiacere.

MESSER MACO.
31Ago vobis gratis.

SANESE.
32Non vi dico io che gli è doctore?

MAESTRO ANDREA.
33E anche lo essere docto vi farà onore, maxime con il Bergamaschi. Ma dove allogiatti voi?

MESSER MACO.
34A Roma.

MAESTRO ANDREA.
35Sta molto ben. In qual loco, dico io?

SANESE.
36Per una via lunga lunga.

MAESTRO ANDREA.
37Tu fai onore a tuo padrone.

MESSER MACO.
38Spettate ch’io l’ho in su la punta dela lingua il suo nome: Boto... Scotto... Arlotto... Scarabotto... Il Biliotto... Ceccotto... Ceccotto; ah!, colui che ci ha alloggiatti, uno omo molto savio e favorito del’imperatore.

MAESTRO ANDREA.
39Per Dio, ch’io ho caro d’avervi cognosciuto e per amor vostro adeso vado per il libro che insegna fare a cortigiani, e con questo libro si fece uomo, essendo bestia, el cardinale de Bacano e monsignore della Storta e l’arcivescovo delle Tre Capanne.

MESER MACO.
40Andate, di gracia.

MAESTRO ANDREA.
41Adesso adesso ritorno e trovarovi in casa Ceccotto.

SANESE.
42Come avevi voi nome?

MAESTRO ANDREA.
43Andrea, al piacere della Signoria Vostra.

MESSER MACO.
44De chi?

MAESTRO ANDREA.
45S.P.Q.R. Io vado.

SCENA III

MESSER MACO e SANESE

MESSER MACO.
46Bonum est nomen Magister Andreas.

SANESE.
47Or cosí! Gitevi digrossando con le profetie.

MESSER MACO.
48Che dici tu?

SANESE.
49Dite «la Signoria Vostra»! Non sentisti voi maestro Andrea che disse «la Signoria Vostra»?

MESSER MACO.
50Mi ricomando alla Signoria Vostra.

SANESE.
51Mandate su la veste.

MESSER MACO.
52Cosí, la Signoria Vostra?

SANESE.
53Messersí. Acconciate la bereta cosí, andate largo, di qua, di là. Ben, benissimo.

MESSER MACO.
54Farò io onore al paese?

SANESE.
55Diavolo, eh!

SCENA IV

FURFANTE CHE VENDE LE ISTORIE

FURFANTE.
56Alle belle istorie! La pace tra il Cristianissimo e l’imperatore! La presa del re! La riforma della corte composta per il vescovo di Chieti! I caprici de fra Mariano in octava rima! Egloge del [S]trasino! La vita de l’abbate de Gaeta! Alle belle istorie! Alle belle istorie! La caretta! Il cortigiano falito! Istorie! Istorie!

SCENA V

MESSER MACO, SANESE

MESSER MACO.
57Corre, Sanese, e compera la legenda e l’oratione ch’insegna a diventare cortigiano. Corre, corre.

SANESE.
58Olà, olà! Vendermi el libro per fare cortigiano mesere.

SCENA VI

MESSER MACO solo

MESSER MACO.
59Come è bella quella donna che sta lasú in quella fenestra, sul tapeto, vestita di seta. Per certo che la debbe essere moglie di qualche re di Milano, o duca di Francia. Ala fe’, ch’io mi sento inamorare. Oh che bella via! Forse che ci si vede un saxo?

SCENA VII

SANESE solo

SANESE.
60Doi baiochi o balochi che i quatrini abin nome a Roma, m’à costo questa legenda. E bon per il mio padrone ch’è mezzo dottore, che mai mai mai intenderebbe il favellare di questa terra. Ma s’io sapesi legere bene, mi farei con questa oratione cortigiano inanzi al mio messer Maco de Coe da Siena: «O Madrama-non-vuole, o Lorenzina... Le s... t... a... r... star... n... e... ne... starne». Starne, dice, che non può dire né gallo né gallina, ma starne dice. «E vado mendicando unos s... p... e... spe... d... a... da... speda... spedale». Non può dire palazzo. E infine questo spedale! Senza compitarlo, e’ dice cosí:
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Le starne odiava e or bramo una radice
E vado mendicando uno spedale.
Cazzica! A Roma si mangia le radice e poi si va al’hospitale. E’ gli era pur meglio a stare per senese a Siena che per cortigiano a Roma. Ma dove è ito meser? O messer Maco? Maco meser? Padrone? Oimè, ch’e ladri mel furàrano. O ladri, io vi farò impicare dal senatore. O òmini con la bereta da uomo, dove è il mio messer, dico? Apunto. Niuno mi risponde. Sarà meglio farlo bandire e andare de qua.

SCENA VIII

MESSER MACO solo

MESSER MACO.
61Io ho bello che perduto il famiglio, e io a pena mi son ritrovato. E’ sarà meglio ch’io impari a caminare e poi uscire fuora. Ma questa è la porta? No, questa altra. Anzi, pur questa. Ma come farò io senza il Sanese?

SCENA IX

Il CAPPA, il ROSSO famiglii di Parabolanno

ROSSO.
62Il nostro padrone è il piú magnifico gaglioffo, el piú venerabile manigoldo, el maggior sciaurato che sia al mondo. E non è però tre anni che egli trottava alla stapha, sí ben come noi faciamo secco.

CAPPA.
63Io l’ho visto camariero d’una mula e or non si degna toccar l’oro maccinato con guanti, e si Domenedio lo servissi, nol contentarebbe mai. E’fa una galantaria con servitori: e’ piglia famiglii a provarsi un mese l’un l’altro. In capo al mese il povero uomo s’insegna servire el meglio che sa per rimanere secco, et egli gli dice: «Tu non fai per me, perch’io ho bisogno d’un piú da stratiare; se io ti posso fare piacer niuno parla, ma tu non sei per me».

ROSSO.
64Io so ciò che vuoi dire a punto: egli con queste ribaldarie è molto ben servito, e non paga salario.

CAPPA.
65È pur gran compassion quella d’un sio camariero che mette piú tempo in spogliarlo o vestirlo che non fa un iubileo con l’altro. E’ crepo di stizza quando il furfante si fa portare la carta forbirsi il culo in un piatto d’argento, e prima si fa fare la credenza al servitore. Ch’ei sia amazzato!

ROSSO.
66E ala messa il paggio tiene e sua paternostri, e quando n’ha detto uno, il paggio manda giú un paternostro e fa la reerentia ala spagnola. Cosí, nel torre l’acqua santta, il sopradetto ragazzo si baccia prima il ditto, por lo intinge nel’acqua benedetta, e al padron l’apresenta. Il goffo ribaldo gli porge el dito e con gran cermonia si fa el segno dela croce in fronte.

CAPPA.
67O Cristo, io ne disgratio il priore di Capua!

ROSSO.
68Il grattar de’ piedi e pettinare di barba, el lavarsi le mani, el montare cavallo non ma[i f]a senza il maestro dele cerimonie.

CAPPA.
69Vogliamo noi una notte dargli d’una accetta sul capo al boia?

ROSSO.
70Non già che nol meritassi; pur staremo a vedere qualche dí se glo mutta con noi verso; quan[d]o che no, qualche cosa serà.

SCENA X

FLAMINIO scudiero e VALERIO camariero

VALERIO.
71Hai sentito, per tua fe’, Flaminio? Ah briach, gaglioffi, ladroni, traditori! A questa foggia si parla del padrone, ah?

SCENA XI

ROSSO e VALERIO

ROSSO.
72Valerio, io t’ho pur fatto saltare. Ben sapevo io e il Cappa che tu e Flaminio ci stavate a scoltare, e per burla sparlavamo insieme del nostro padrone. Ma chi non sa che gli è un uom da ben e una gentil creatura?

VALERIO.
73Anche hai ardire d’aprir la bocca, disonor del vituperio? E tu, Cappa, se non ch’io non voglio fare tanto damno ali forche, adesso adesso ti cavaria il cuore. Brutti ghiottoni, andati al bordello, che, per Dio, per Dio, me vien voglia de...

ROSSO.
74Tempera la colera, di gratia.

SCENA XII

FLAMINIO e VALERIO

FLAMINIO.
75Per mia fe’, che questi signori non meritano altri servitori che dela sorte del Rosso e il Cappa; e quasi piú goiva de essere un simile che virtuoso. Quante volte m’ha ditto el padrone che ‘l Rosso ha buona creanza e che gli è fedele e costumato.

VALERIO.
76Se un bugiardo, inbriaco, maldicente, ghiotto, ladro e simulatore è ben creato, el Rosso è divino. Oh, che cosa è! Perciò le signorie de’ signori dicono avere buona creanza colui che sa trinciare un fagiano, fare bene un letto o una reverentia, mentre che è dato loro bere; e piú tosto uno di questi Rossi doventa grande in Corte che quanti interpetri ebbero mai le littere greche e latine, e piú superbo è un tale che, per portare imbasciate, è grato al padrone che non è umile la patientia. Oh, oh, oh, oh!

FLAMINIO.
77Gli è forse un’hora ch’io senti’ ch’un altro padrone biasimava Julio con dire che gli è plebeo e che ‘l signor Parabolano faceva gran male a dare tanto credito a un vilanno, exaltando la sua nobile e antichissima genologia.

VALERIO.
78Flaminio fratello, bisogna altro al dí d’oggi che dire: «De la mia casa fu monsignore tale e messer cotale». Bisogna essere uomo da bene per le sue et non per l’opere de’ suoi; e se la nobilità del sangue avessi a fare onorare gl’òmini che per loro stessi meritanno niente, el re di Cipri e ‘l principe de Fiossa non sarebbono cosí male aviati, e anche il signor Constantino riaria il principato de Macedonia, n’e si degnerebbe del governo di Phano.

FLAMINIO.
79Veramente giova poco le croniche, gli epithaphii e i previllegii del benemerito deli antichi, né mai Raphaele giudeo vole prestare doi baiochi alle memorie della nobilità e in Roma tanto se extima quanto fa el Roamnello se ‘l Mesia vien piú oggi che crai.

VALERIO.
80Questo è chiaro e vedesi che sino ala fortuna si fa beffe del sangue greco e troiano e il piú de le volte cardinali e papi sono dela stirpe de ser Adriano.

SCENA XIII

PARABOLANO e VALERIO suo camariero

PARABOLANO.
81Valerio?

VALERIO.
82Signor? A Dio, Flaminio.

PARABOLANO.
83Chiama il Rosso.

VALERIO.
84Fate carezze al Rosso, che poco fa ha detto cose di voi che nol punirebbono i tormenti che castigono le colpe.

PARABOLANO.
85Per mia fe’ che gl’import assai. O non sai tu che per il biasmo d¡un tal non si scema et per le lode non si cresce?

VALERIO.
86Lo so benissimo, ma basta che io suoi pari sono gl’idoli vostri. Ma eccolo e con che fronte!

PARABOLANO.
87Va rasetta la camera, e tu, Rosso, vien meco.

SCENA XIV

PARABOLANO e ROSSO

PARABOLANO.
88Dove sè tu stato?

ROSSO.
89Ala taverna, salvando l’onore dela Signoria Vostra, et ho veduto quella buona robba d’Angela Greca.

PARABOLANO.
90Che faceva ella?

ROSSO.
91Parlava con don Cerimonia spagnolo e dicevano de andare a cena a non so che vigna. Et io feci come la gatta de Maxino.

PARABOLANO.
92Come faceva la gatta di Maxino?

ROSSO.
93Chiudeva gli occhi per non pigliare i topi.

PARABOLANO.
94Tal mi cocessi altra fiamma, ch’io viversi senza noia.

ROSSO.
95Infine gli è un peccato a fare piacere a un gran maestro perché gli vien a noia ogni cosa.

PARABOLANO.
96Oimè, che colei ch’io adoro non mi verà mai in fastidio, tanto m’è avara d’un sguardo.

ROSSO.
97Non vi dissi io che ‘l cibo vi satia troppo tosto?

PARABOLANO.
98Or taci, ascoltami.

ROSSO.
99Or dite, ch’io intenda.

PARABOLANO.
100Sai tu la casa di messer Ceccotto?

ROSSO.
101Di quel pazzo? Signorsí.

PARABOLANO.
102Pazzo o savio, andarai ivi e presenterai messer Maco sanese, perché mio padre ebbe gran servigii dal suo, mentre studiò in Siena. Ma non so che mandargli.

ROSSO.
103Mandategli quatro tartarughe.

PARABOLANO.
104Son presenti da mei pari tartarughe, bestia?

ROSSO.
105Mandategli doi gattuci soriani.

PARABOLANO.
106Son buoni a mangiare gatti, furfante?

ROSSO.
107Se voi li mandate dieci carciofi, vi serà schiavo.

PARABOLANO.
108La peste che t’occida, dove sono ora i carciofi, peccora?

ROSSO.
109Donatili doi fiaschi di Mangiaguerra. Oh, il Riccio dela Lepre l’ha perfetta!

PARABOLANO.
110Fa’ conto che debbe essere un imbriaco come te, bufolaccio? Or non mi rompere la testa, v et con questi dieci scuti compera dele lamprede et dili che le mangi per amor mio, ancorché gli sia picolo presente, e sappi dire quatro parole.

ROSSO.
111Ne saperò dire piú d’ottanta millia, non che quatro, et è un peccato ch’io non sia mandato per imbasciatore a qualche sophçí, ch’almeno io mi faria onore. Io gli direi: «Magnificentia, Reverentia, Sacra Maestà, Padre Santto, Cristianissimo, Illustrissimo, Reverendissimo in Cristo Patri, Paternità, Omnipotentia, Viro Domino» e tutto il mondo; e faria un inchino cosí, l’altro cosí, inchinarei la testa, e ogni cosa.

PARABOLANO.
112Deh spacciati, matto spacciato, ma porta prima questa vesta a Valerio, e io entrarò nella stalla a vedere quei turchi che mi son stati madnati a donare dal cnte di Verucchio.

SCENA XV

ROSSO.
113Io vo’ provare come sto ben con la seta. O che pagarei io un specchio per vedere campegiarmi in questa galantaria! E infine e panni rifanno sino alle stangue. Oh, si questi gran maestri andassino malvestiti, quanti ce ne sono che parebbono scimie e babuini. Ma io sono il bel pazzo a non fare una leva eius, denari e veste. S’io stessi mille anni con questo furfante di Parabolano, non son mai per vedere un ducato. Dipoi, ognuno mi benediria le manni, s’io rubbo un di questi padroni ladroni che ci furanno l’anima e il corpo. Ma sarà ben giuntare questo pescatore. Col mio padron gaglioffo mi accaderà piú in gROSSO. E’ voglio usare l’arte che già usò un altro mio pari, che finse d’essere spenditore e menò un che vendeva el pesce a un frate che confessava. La favola si sa per tutto.

SCENA XVI

ROSSO e PESCATORE

ROSSO.
114Quante n’hai senza queste?

PESCATORE.
115Nisuna, perché or or l’ha comepro l’altre lo spenditore de frante Mariano.

ROSSO.
116Ben, da qui inanzi tieni a mia stanza tutte quelle che tu pigli, e io son per servirmi da te, ch’hai cera de bon compagno.

PESCATORE.
117Sognor..., Vostra Signoria non pensi..., ch’infatti..., tant’è..., io vi son sevitore.

ROSSO.
118Sta molto ben. Che vòi tu di queste?

PESCATORE.
119Otto scudi piú o meno quel che piace alla Signoria Vsotra in dono; non gaurdi ch’io sia povero omo, perché io ho il cuor generoso.

ROSSO.
120Sei sono el debito, e trapagate con questo prezzo.

PESCATORE.
121Ciò che piace ala Signoria Vostra.

ROSSO.
122Ma guarda, per tua fe’, quanto stanno i miei servitori a venire con la mula. O furfanti magna-pagnotte, io vi mandarò a ponte Sixto.

PESCATORE.
123Vostra Signoria non si scricci, perché lo porterò io.

ROSSO.
124De gratia, ma io dissi che togliessero la mula, e loro aranno inteso il gianetto, il qual è focoso e stassi un pezzo a metterli la sella.

PESCATORE.
125Per mia fe’ ch’e’ non può essere altro.

ROSSO.
126Andiamo che l’ incontraremo per la via, ma come hai tu nome?

PESCATORE.
127Il Facenda, fiorentino da porta Pinti abitante a san Pietro Cattolini et ho due sorelle al Borgo ala Noce, al piacere de la Signoria Vostra.

ROSSO.
128Fara’ti tagliare un paro di calze ala mia divisa.

PESCATORE.
129Mi basta la gratia della Signoria Vostra. Non pensate altro.

ROSSO.
130Sè tu colonese o ursino?

PESCATORE.
131Tengo da chi vince, infatti.

ROSSO.
132Saviamente. Pur fa’ che la dritta sia spezzata e l’altra tutta d’un colore.

PESCATORE.
133Come piace ala Signorie Vostra, cosí farò.

ROSSO.
134Farai dipingiere la mia arme dove tu vendi el pesce.

PESCATORE.
135Che arme è la vostra?

ROSSO.
136Una scala d’oro in campo azurro. Ma ventura ce viene. Io ho certi ducati scarsi, male al proposito. El magistro di casa, ch’è là su l’uscio di San Pietro, ti pagherà.

PESCATORE.
137A tempo, come el buon dí.

ROSSO.
138Aspettami qui, ch’adesso torno.

SCENA XVII

ROSSO e SAGRESTANO

ROSSO.
139Padre, quel sciagurato ch’è quivi ha la sua moglie spiritata nela ostaria dela Luna, e fa cose indiavolate; onde suplico Vostra Paternità voglia metterla ala colonna, e col nome de Dio cavarli questa maledittione d’adosso, perché ha forse dieci spiriti in corpo che parlanno d’ogni linguagio; e anche il povero uomo è mezzo aduggiato.

SCENA XVIII

SEGRESTANO, ROSSO e PESCATORE

SAGRESTANO
140Verrà qua. Come ho detto vinte parole a questo amico mio, farò el debito d’una buona voglia.

PESCATORE
141Io vi ringratio, padre.

ROSSO.
142Non dubitare. Da’ qua le lamprede e piglia questi quatro iulii et dagli per caparra al calzettaio.

PESCATORE
143Voi fate troppo, la Signoria Vostra. Ma qual calza va spezzata?

ROSSO.
144Qual tu vòi.

PESCATORE
145Basta! Ma questo magiordomo è piú longo che un dí senza pane! Abrevia, cancar ti venga! Ma cicala pur, che tu mi paghi el tempo a peso di zafferanno: io arei dato per quatro scudi quello che tu paghi otto. O che accorti spenditori! O che maestri de casa!

SCENA XIX

SAGRESTANO e PESCATORE

SAGRESTANO.
146Tu non odi, an?

PESCATORE.
147Eccomi, servitore de la Signoria Vostra, infatti.

SAGRESTANO.
148Non dubitare, ch’io ti vo’ contentare.

PESCATORE.
149Se Vostra Signoria mi farà ben niuno, sarà una limosina perch’i’ò quatro bambolini che no peson l’un l’altro.

SAGRESTANO.
150Quanto è che gl’introrno?

PESCATORE.
151Quatro.

SAGRESTANO.
152Di giorno o di notte?

PESCATORE.
153Tra oggi e stanotte.

SAGRESTANO.
154Come è il suo nome?

PESCATORE.
155Nol sapete voi? Lamprede.

SAGRESTANO.
156Apunto! Io ti domando come la tua moglie si chiama e quanti spiriti l’ha addosso.

PESCATORE.
157Voi aveti e bel tempo, Idio vel mantenga. Ma se voi avessi a pensare al pan, vi iscirebbono di capo i grilli.

SAGRESTANO.
158Tuo padre ti dovette lasciare la sua maladittione.

PESCATORE.
159Mio padre mi lasciò maladittione trippo a lasciarmi povero.

SAGRESTANO.
160Fagli dire le messe di san Gregorio.

PESCATORE.
161Gli farò dire... presso ch’io non dissi. Che diavolo ha da fare le messe de san Gregorio con le lamprede? Maestro di casa, io voglio essere pagato, altrimetni mi basta l’animo di parlare sino al papa.

SAGRESTANO.
162Pogliatelo, preti. Sta caldo, qui habitat. Fatti el segno dila croce.

PESCATORE.
163O Cristo, lasciatemi, pretacci!

SAGRESTANO.
164Tu mordi. Demonio, io ti scongiuro.

PESCATORE.
165Con pugni, schierecati?

SAGRESTANO.
166Tiratelo in chiesa al’acqua santta.

PESCATORE.
167Ah, che siate amazzati! Spiritato io? Io spiritato?

SAGRESTANO.
168Tu n’uscirai senza fare male, in aiutorio altissimi. Dove entrarai? Rispondi?

PESCATORE.
169In cul v’entrerò, in culo, diss[e] Hercule.

SCENA XX

CAPPA e ROSSO

CAPPA.
170Tu sei molto alegro, Rosso, tu vrai ridendo da ti stesso. Che vuol dire?

ROSSO.
171Io mi rindo d’una giuntaria, ch’è stato fatta tanto dextra che non se ne sarebbe accorto il maestro dele bagatelle, e te la conterò piú per agio. Io voglio portare questa vesta al padrone, e poi farem un presente di queste lamprede a un gintilomo. E tu ritròvati ala Lepre.

CAPPA.
172Torna presto.

ROSSO.
173Adesso adesso.

SCENA XXI

PESCATORE e CAPPA

PESCATORE.
174Roma doma! O credi ch’è ‘l paradixo? Naccheri.

CAPPA.
175Che cosa c’è, Facenda?

PESCATORE.
176O che ladronerie si fanno per Roma; e a chi? A un fiorentino. O pensa quello che se faria a un senese! Forse che tutto dí non vanno bandi che non si porti armi?

CAPPA.
177Non si può dire questa sciagura?

PESCATORE.
178Te dirò: io sono stato giuntato di certe lamprede a un modo, per una via, ch’io mi vergogno a dirlo; e por como un spiritato sono stato messo ala colonna. «Spegni la lampa, busa la porta, non fare male a persona...». Et ho avuto tanti pugni, e tutto el capo mi hanno pelato. Preti becchi, sodomiti, ladroni, al corpo... al sangue... che, s’io giungo quel giotton del sagrestano, gli mangierò il naso, gli pesterò gli occhi e caverogli la lingua, che maledetta sia Roma, la Corte, la Chiesia e chi ci sta e ch[i] li crede.

CAPPA.
179Per Dio, che l’è una gran truffaria, e quasi quasi men pare avere, e s’io posso niente, comandami.

PESCATORE.
180Ti ringratio. Io voglio irmi con Dio questa Roma porca e forse ch’un dí, se io trovo un di qua in Firenze... Basta basta.

PARABOLANO e VALERIO

PARABOLANO.
181Quanti odii comincio avere con la vita.

VALERIO.
182L’odio con la vita abiam noi poveri servitori.

PARABOLANO.
183Tu non senti quello che mi duole.

VALERIO.
184E’ vi nuoce el piú dele volte il troppo bene. E’ mi dispero quando un vostro pari si lagna. O pensate ciò che doveria fare un simile a me, che vivo dal pan d’altri, e un inciampare in una paglia ci fa rompere il collo.

PARABOLANO.
185Non t’odo.

VALERIO.
186Se voi avessi nella bilancia dela pretesca discretione la speranza, come hanno contanti che servono, voi intenderesti.

PARABOLANO.
187O Fortuna invidiosa!

VALERIO.
188La Fortuna sete voi signori, voi signori sete la Fortuna, che dale stalle e dale staphe sulevate il vitio e la ignorantia, e alle stalle e alle staphe ponete la virtú.

PARABOLANO.
189Io mi consumo.

VALERIO.
190Che voresti voi?

PARABOLANO.
191Il premio dele mie fatiche.

VALERIO.
192Da chi desiderati voi questo premio?

PARABOLANO.
193Dove son io? Almen n’avess’io lettere o ambasciata.

VALERIO.
194Dove s’hanno a dirizare queste lettere?

PARABOLANO.
195Dove io sono.

VALERIO.
196Voi l’arete tardi.

PARABOLANO.
197Perché?

VALERIO.
198Perché non sete né qui né altrove, pare a me.

PARABOLANO.
199Aiutami.

VALERIO.
200Mai non vi aiuterò, se non me aprite il vostro secretto.

PARABOLANO.
201Quanti amari veneni ascondeno i pretiosi vasi. Entriamo in casa.

SCENA XXIII

MAESTRO ANDREA solo

MAESTRO ANDREA.
202Io ho voluto dare padrone a quel sanese, e poi mi sono aconcio secco per pedante. Questa è pur bella! Or dico io che son dotto, diangli pur dentro, acciò che agosto lo trovvi bello e legato. Ma quando accadessi, non solamente a lui, a mio padre l’acoccarei e parmi un gran-merciè a pagar i cavagli a un che voglia mandar e cervelli per le poste. E mi penso che non si possa fare la maggior limosina al mondo quanto fare impazire uno. Forse che gli doni officio o beneficio? Anzi, non è sí tosto scappato il cervello, che subito el capo è rimpito di signorie, di grandezze, di triomphi, di giardini ch’ànno i fiori a ogni luna come il rosmarino; e questi tali gongolano quando gli credi, gl’exalti e ogni loro detto gli confermi; e per Dio ch’un simile non cambiaria il suo stato con quello che ha dato l’imperatore a Ceccotto. Ma io veggio el mio scolare pincolone fermo su la porta come un termine. A fe’ che come trovo il maestro dele cerimonie, lo voglio far porre sul cath[a]logo de’ pazzi, accioché di lui si facci solemne commemoratione, a laude et gloria dela reverenda e imperilissima Siena.

SCENA XXIV

MESSER MACO e MAESTRO ANDREA

MAESTRO ANDREA.
203Ben sia trovata la Signoria Vostra.

MESSER MACO.
204Buona sera e buon anno. Io credevo aver perduto voi come el mio famiglio.

MAESTRO ANDREA.
205Gli è meglio perdermi che smarirme. Or ecco el libro. Andiamo dentro, ch’io vi legerò una lettioncina dolce dolce per la prima volta.

MESSER MACO.
206Deh, maestro, fatemi questa gratia, insegnatemi qualche cortigianeria ora.

MAESTRO ANDREA.
207Voluntieri, apreti gli occhi ben ben, perché le primer e principal cose a essere buon cortigiano son queste: saper biastemare et essere eretico.

MESSER MACO.
208Cotesto non voglio io fare, perché andarei in l’infermno, e mal per me.

MAESTRO ANDREA.
209Come in l’inferno? Non sapeti voi ch’a Roma non è peccato a rompersi il collo nella Quaressima?

MESSER MACO.
210Signorsí?

MAESTRO ANDREA.
211Messernò. E sapiate che tutti quelli che vengono a Roma, subito che sono in Corte, per aprere d’essere pratichi, non andarebbeno mai a messa per tutto l’oro del mondo, e poi non parlarebbono mai, che la Vergine e la Sagrata non gli fussi in bocca.

MESSER MACO.
212Adonque io biastemerò la pota da Modena, nevero?

MAESTRO ANDREA.
213Signorsí.

MESSER MACO.
214Ma come se donventa eretico? Questo è il caso.

MAESTRO ANDREA.
215Quando un vi dicessi: «Gli struzzi son camelli», dite: «Io n[e]l credo».

MESSER MACO.
216Io nel credo.

MAESTRO ANDREA.
217E chi vi dessi a intendere che i preti abbino una discretione al mondo, fativene beffe.

MESSER MACO.
218Io me ne fo beffe.

MAESTRO ANDREA.
219E se alcun vi dicessi ch’a Roma c’è conscientia niuna, ridetivene.

MESSER MACO.
220Ah, ah, ah!

MAESTRO ANDREA.
221Insomma, se voi sentite mai dire bene dela corte di Roma, dite a colui che non dice el vero.

MESSER MACO.
222Non sarà meglio a dire: «Voi mentite per la gola»?

MAESTRO ANDREA.
223Madesí, serà piú facile e piú breve. Or questo basti quanto alla prima parte. Vi insegnerò poi il Barco, la Botte di Termine, il Coliseo, gli archi, Testaccio e mille belle cose, che un ciecco pagaria un occhio per vederle.

MESSER MACO.
224Che cosa è il Coliseo? Ègli dolce o agro?

MAESTRO ANDREA.
225La piú dolce cosa di Roma e piú stimata da agnuno, perché è antico.

MESSER MACO.
226Gli archi gli cognisco per cronica, e gli ho veduti per letter sula Bibia. Cosí l’anticaglie. Ma le debbono essere tutte grotte, l’anticaglie?

MAESTRO ANDREA.
227Qual sí e qual no. E come sapete queste cose, pigliarete pratica con magistro Pasquino, ma vi sarà gran fatica a imparare la natura di maestro Pasquina, il quan ha una lingua che taglia.

MESSER MACO.
228Che arte fa egli, questo maestro Pasquino?

MAESTRO ANDREA.
229Poeta di porco in la ribecca.

MESSER MACO.
230Come, poeta? Io gli so tutti niente i poeti, e anch’io son poeta.

MAESTRO ANDREA.
231Certo?

MESSER MACO.
232Chiaro! Ascoltate questo epigrama ch’io ho fatto in mia laude.

MAESTRO ANDREA.
233Dite.

MESSER MACO.
234
Si deus est animas prima cupientibus artem
Silvestrem tenui noli gaudere malorum
Hanc tua Penelope nimui ne crede colori
Titire tu patule numerum sine viribus uxor...

MAESTRO ANDREA.
235(O che stile! misericordia!)

MESSER MACO.
236
...Mortem repentina pleno semel orbe cohissent
Tres sumus in bello vaccinia nigra leguntur
O formose puer musam meditaris avena
Dic michi Dameta recumbens sub termine fagi.

MAESTRO ANDREA.
237(O che vena de pazzo!)

MESSER MACO.
238Sono in dotto, maestro?

MAESTRO ANDREA.
239Piú che l’usura che insegna a legere ai pegni. Orbè, io son ricco, se voi me date de queste musiche: le farò stampare da Ludovico Vicintino et da Lauticio da Perugia, e eccomi un re. Ma daché avete perduto el paggio, bisogna trovarn[e] un altro, perché voglio che voi v’inamorate.

MESSER MACO.
240Io son inamorato d’una signora, e son ricco, e ciò che voi vorete, farò.

MAESTRO ANDREA.
241Poiché sète ricco, torrete casa, farete veste, comparete cavalcature, faremo bancheti a vigne in maschera. Ite pur, magnifico messer mio. (Ah, ah, ah, ah!)


ATTO SECONDO

SCENA I

ROSSO e ‘l CAPPA

ROSSO.
1Chi non è stato alla taverna, no sa che paradiso si sia. O taverna gintile, forse che fai una reputacione al mondo? Anzi, obedisci ognuno da signor. E che inchini t’è fatto intorno. Per mia fe’, Cappa, che s’io avesse mai figlioli, faria imparare i costumi e le virtú nele taverne.

CAPPA.
2Tu hai ingegno.

ROSSO.
3O che musica galante fanno gli spiedoni quando son pieni di tordi, salcicce o caponi? O che odore ha la vitella mongana, barbacano o ambracano dentrovi?

CAPPA.
4Sta bene. Se le taverne fussino a canto a’ profumieri, a ognuno putiria il zibetto.

ROSSO.
5C’è qualche bue che fa dolce amore, e ‘l fare quella novella. Dolce è un buon pasto che se piglia senza sospiri o golosia. Sai tu? Se qual Cesaro che loda tanto il nostro padrone, avessi triomphato per mezo una taverna ben in ordine d’ogni cosa, per mia fe’ che gli archi de marmo gli venivono a noia, e ‘ suoi soldati ci sariano passati voluntieri.

CAPPA.
6Io el credo.

ROSSO.
7O che magnificentia, o che allegrezza è vedere fumare gli arosti e pesci d’ogni sorte? O che bel vedere fanno le tavole apparechiate? Io, per me, s’io fussi stato quel papa che fece Belvedere, aría spesi i mei danari in una ostaria ch’almeno una volta il mese facesse un bel vedere d’altro che de loggie o camere depinte.

CAPPA.
8Rosso, queste lamprede son bocconi d’angeli. Io, per me, n[on] ho envidia a chi esce da stregiare uno cavallo e fassi grande; ma quando io veggio Brandino e ‘l Moro de’ Nobili che s’empiono il corpo di queste cose sante e divine, io crepo e vienmi l’anima ai denti per lo affanno.

ROSSO.
9Sí, ché le son buone e conosciute. Ma se quel pescatore mi trova, me le farà smaltire.

CAPPA.
10Sua posta. Io non combattei mai a’ mie die, ma per una di queste lamprede mi faria amazare centro volte il dí. Ma Valerio [m]i domanda. A rivederci.

SCENA II

MESSER MACO, MAESTRO ANDREA e GRILLO famiglio di messer Maco

MAESTRO ANDREA.
11Molto ben vi sta questa vesta: da paladino!

MESSER MACO.
12Voi mi fate ridere, mi fate.

MAESTRO ANDREA.
13Voi avete ben tenuto a mente quello ch’io vi ho insignato, nevero?

MESSER MACO.
14So fare tutto el mondo.

MAESTRO ANDREA.
15Gate el duca.

MESSER MACO.
16Cosí... cosí… a questo modo… Oimè, ch’io son caduto.

MAESTRO ANDREA.
17Rizatevi, castrone.

MESSER MACO.
18Fatemi doi occhi al mantello, ala vesta, ch’io per me non so fare il duca al buio.

MAESTRO ANDREA.
19Sí sí. Ma come se risponde ai signori?

MESSER MACO.
20Baccio le mani.

MAESTRO ANDREA.
21Ale signore?

MESSER MACO.
22Questo cuore è il mio.

MAESTRO ANDREA.
23Ai buon compagni?

MESSER MACO.
24Sí, a fe’.

MAESTRO ANDREA.
25Ai prelati?

MESSER MACO.
26Giuro a Dio.

MAESTRO ANDREA.
27Buono, savio. E al servitor come si comanda?

MESSER MACO.
28Porta qua la mula, mena qua la vesta, che t’amazarò.

GRILLO.
29Mastro Andrea, fatemi dare buona licentia, ch’io non voglio stare con questi bestialacci.

MESSER MACO.
30Io fo per giambo, Grillo, e imparo a essere cortigiano, né ti farò male.

MAESTRO ANDREA.
31Ora andiamo, che impararete Borgo Vecchio, Corte Savella, Torre di Nona, Ponte Sixto e dietro Banchi.

MESSER MACO.
32Porta la barba, Borgo Vecchio?

MAESTRO ANDREA.
33Ah, ah, ah!

MESSER MACO.
34Torre de Nona suona anche vespero?

MAESTRO ANDREA.
35E compieta, con i tratti de corda. Poi andaremo a Santo Pietro, vederete la Pina, la Nave, Camposanto e la Guglia.

MESSER MACO.
36In Camposanto possiam[o]ci ire con le scarpe?

MAESTRO ANDREA.
37Sí, voi. Altri no.

MESSER MACO.
38Andiam, ch’io voglio mangiare quella pina, e costi ciò che la vuole.

SCENA III

ROSSO.
39Il mio padrone gaglioffo non crede ch’io sappia perché gli sta cosí fantastico. Ancorach’io abbia fatto vista non sapere la sua rabbia, questa notte, andando io a procission per casa come è mio costume, senti’ ch’egli, sognando, era ale mani con madonna Laura moglie de messer Lutio, e la chiamava per nome, la manegiava come se fosse stato vero. Io ho questo secretto, il quan non ha scoperto a persona, et col meggio de Aloigia specciala, la qual dirò che sia sua baila, piglierò verso di fare credere al signor mio ciò ch’io voglio. Io vado adesso a trovarla, e so ch’e’ la coromperia la castità. Farà ogni cosa per amor mio.

SCENA IV

PARABOLANO solo

PARABOLANO.
40Questo vivere è peggio che morte. Quando io era in minore grado, tutto il giorno il stimulo del salir mi molestava, e ora che quasi mi potrei chiamare contento sono assalito da sí pessima febre che niuna medicina mi puì sanare, salvo che una, che non si compera per oro né per grandezza, perché Amor la vende di sua manno e per prezzo ne vuole sangue, lagrime e morte de’ suoi sugetti. O Amor, che no puoi tu fare? Molto è maggior la tua possanza che quella della Fortuna: ella comanda agli òmini e tu gli òmini e gli dei sforzi; ella volubile e instabile e... Con queste armi feminili e con questo dolermi non acquisterò io chi piú che la vita disio. E’ voglio ire in camera, e forse ch’Amore m’insegnerà a sciormi come insegnò legarmi; e potria ancora per me stesso di questi tormenti uscire per industria, per[r] [vi]a di ferro, di laccio e veneno.

SCENA V

FLAMINIO e SEMPRONIO vecchio

SEMPRONIO.
41Donque, tu mi [s]consigli di mettere Camillo mio figliolo a servitio dela Corte?

FLAMINIO.
42Sí, se già il tuo figliolo non odiassi da inimico.

SEMPRONIO.
43Molto è intristita la Corte al tempo di voi altri cortiguani. Io mi ricordo che, quando io steti con monsignore reverendissimo, che non era altro paradixo, e tutti eravamo richi, favoriti e fratelli.

FLAMINIO.
44Voi vecchii ve ne andate dietro ale regole del tempo antico, e noi siamo nel moderno i-nome del Centopaia. Al tempo tuo a uno servitore di papa Ianni era dato letto, camera, legne, candele, cavalcatura, pagato la lavandara, il barbieri, il salario del garzon e ‘l vestito doe volte l’anno. E adesso un povero cortigiano, apena è acceptato, à ‘ comprarsi l’acqua e il fuoco e, quando pure pure t’è fatto carezze, te si concede un mezzo famiglio. Or pensa, come è possibile c[h]’un mezzo uomo basti a un intero? Quanto c’è di buono è che, se tu t’amali, ancorche fussi in lor servitú, tu si provede d’un spedale, e con mille prieghi.

SEMPRONIO.
45O che fanno egli de tante entrate?

FLAMINIO.
46Ale putane e ragazzi. O veramente moiono senza cavarsi mai la fame, e poi lasciamo XV e XX milia scudi a tali che non trariano una coreggia per l’anima loro.

SEMPRONIO.
47Gran pazia, però.

FLAMINIO.
48Almen trattassero ben la famiglia. Sai tu come fanno i ribaldoni?

SEMPRONIO.
49Non, io.

FLAMINIO.
50Gli hanno imparato a mangiar soli in camera, e dicano che ‘l fanno perché doi pasti il giorno gli amaza, e che la sera fanno colatione legieri legieri, e i miseroni lo fanno perché non si tratenghino i poveri virtuosi ala tavola loro.

SEMPRONIO.
51Gran vergogna, per certo, e gran meccanecaria.

FLAMINIO.
52Non fu bella quella de Malfetta, che, avendo speso el suo speditore doi caiochi piú che ‘l solito in una laccia, non la volse? Onde certi dela famiglia, e cosí lo spenditore, messono tanto per uno e comperorla, e cocta per magiarla insieme, el bon vescovo, sentito l’odore e corso in cocina, volse anch’egli pagare la ratha sua per magairne, e i buon compagni non volsero.

SEMPRONIO.
53Ah, ah; eh, eh; oh, oh; uh, uh!

FLAMINIO.
54Una altra piú bella. Io ho inteso in casa del Ponzetta che fue un monsignore reverendissimo che faceva mettere un ovo e mezzo per frittata, e facevalo poi porre nele forme dove pigliano le pieghe le berette. Avenne una matina un caso strano, ch’un vento le portò sino ale scale de San Pietro, come porta le fronde lo autuno, e cadevono in capo alle genti a guisa di diadema.

SEMPRONIO.
55Ah, ah, ah!

FLAMINIO.
56Odi questa altra. Voi avevate per maestri di casa gli uomini, e noi le donne. Le matri de’ nostri padroni ci danno contumacia, assaggion vini se c’è puoca acqua, tengon le chiave dele cantine, danno a conto i bocconi (tanti el dí dele feste e tanti i dí neri) e ci misurano sino ale minestre.

SEMPRONIO.
57So che ‘l mio figliolo [ne] starà in casa sua.

FLAMINIO.
58Dipoi, fatto un cortigiano, è fatto un invidioso, ambitioso, misero, ingrato, adulatore, maligno, iniusto, eretico, ipocrito, ladro, giotto, insolente e busardo. E se minor vitio che ‘l tradimento si trovasi, direi che ‘l tradimento è il minor peccato che ci sia.

SEMPRONIO.
59Come? I ladri ancora soni in Corte?

FLAMINIO.
60Ladri, sí! Il minor furto che ci si faccia è el robarsi x o xx anni ala vita e servitú tua, e no si attendere ad altro ch’aspettare che muoia questo e quello; e se per sorte avenne che colui del quale hai impetrati ‘ benefitii campi, tutti quei fastidii, tutte quelle febre e dolori che ha avuto nel male quello per la morte del quale credevi essere ricco, tormentono te, sconsolato per la sanità sua. Cose crudele, a desiderare la morte a chi non ti offese mai!

SEMPRONIO.
61Non m’aiuti Dio, se Camillo serve mai Corte.

FLAMINIO.
62Sempronio, se tu ti consciglii mecco perch’io dica a tuo modo, è una; ma se tu vuoi ch¡io dica el vero, è un’altra.

SEMPRONIO.
63Ti sono obligatissimo, Flaminio e conosco che ser verace uomo e da ben. Io delibero non mandare il mio figliolo con niuno, e ci riparlaremo piú per agio. Io voglio ire a pihliare i denari del mio offitio al banco deli Strozzi.

FLAMINIO.
64E io mi tornerò in Corte a consumarmi de dispiacere.

SCENA VI

ROSSO e ALOISIA roffianna

ROSSO.
65Dove ne vai tu con tanta furia?

ALOISIA.
66Mo quan e mo là, tribulando.

ROSSO.
67Che ti manca? Tu governi Roma.

ALOISIA.
68Gli è vero. Ma la disgratia dela mia maestra mi dà questa briga.

ROSSO.
69Che ha? male?

ALOISIA.
70L’haverà male e el malanno è pro meriti: si abrucia domatina. Pàrt’egli onesto?

ROSSO.
71Né iusto, né onesto. Come diavolo abruccia? Ha ella crucifixo Cristo?

ALOISIA.
72Non ha fatto nulla.

ROSSO.
73O ardese le gente per no fare niente? Che cose son queste, ladre e ribalde? Or credi a me, che Roma ha presto ruinare.

ALOISIA.
74L’ha bevuto el figliolo dela sua comare, per troppo amore.

ROSSO.
75E non altro?

ALOISIA.
76Amaliò il suo compare, per compiacere a un amico.

ROSSO.
77Questo è una galanteria.

ALOISIA.
78Diede el velleno al marito dela Georgina, perché gli era un tristo.

ROSSO.
79El senator non sa ricevere gli scherzi.

ALOISIA.
80Rosso mio, l’ha fatto un testamento de raina, e m’ha fatto erede de ciò che l’ha.

ROSSO.
81Bon pro. Che t’ha ella lasciato, se si può dire?

ALOISIA.
82Molte belle cose: lambicchi da stillare acque da levare lentigini [e] machie di mal francioso, strettoio da ritirare poppe che pendono, molette da pelare ciglia, un fiasco de lacrime d’amanti, un bichiere di sangue di nottola, ossa di morti per tormenti et per tradimento, unghie de gufi, cuori d’avoltori, denti di lupi, grado d’orso e funi di impicato a torto. E per il vicinato non se ragiona d’altro, dove, per sua gratia, son sempre la prima chiamata a nettare denti, a cavar la puzza del fiato e mille gintilezze.

ROSSO.
83Riscòtila con digiuni, fagli dire le messe de San Gregono, il paternostro de San Giuliano e qualche oratione, che la merita.

ALOISIA.
84Credi tu ch’io nol facessi, se bisognassi? La povereta...

ROSSO.
85Per pianger non la riarai tu.

ALOISIA.
86Comeché, quando mi ricordo che sino agli sbiri gli faceveno di beretta, mi scoppia el cuore... E’ non è però un mese che al’ostaria del Pavone e’ la bevete forse di sei ragioni vini, sempre al boccale, senza una reputacione al mondo. Non fu m’a la meglior compagna, né mai fu donna vechia di sí gran pasto e di cosí poca fatica.

ROSSO.
87Però la morte la vuole per si.

ALOISIA.
88Al beccaio, al pizzicagnolo, al mercato, ala fiera, al fiume, al forno, ala stupha, al barbiero, alla gabella, ala taverna, con sbirri, cuochi, mesi, preti, frati e fra soldati, sempre sempre toccava a f[a]vellare a lei, e era una Salamona tenuta.

ROSSO.
89Abrucia, impica, e non ci campa piú né un uomo né una donna da bene.

ALOISIA.
90Come un[a] draga e una paladina andava a cavare gli occhi agl’impicati e per cimitieri, de notte, a cavare l’unghie a’ morti per fare certe medicine per el mal del fianco. Si transformava in gatta, in toppo, in cane, e andava sopra acqua e sopra vento alla noce de Benevento.

ROSSO.
91Come ha ella nome?

ALOISIA.
92Madonna Maggiorina, con reverentia parlando. Non ti segnare, che gli è ciò che tu odi.

ROSSO.
93A questo modo si fa ragione a Roma? Oh, oh, oh! La min’ rincresce pure.

ALOISIA.
94Però tu sei uomo diritto, per ciò te rincresce.

ROSSO.
95Se fussi mezzo agosto, la faria chiedere da’ Rioni per mezzo di Rienzo Capovacina di Lielo, caporione de Parione.

ALOISIA.
96Se avessino, con la mitria, spuntati gl’ orecchi e ‘l naso, ci si poteva stare, ch’anch’io, quando era giovene, l’ho provato: è poi un pizzico di mosca, di poi bisogna provare qualche cosa di qua per non ire di là a casa calda.

ROSSO.
97E’ vero, e’ preti dal bon vino ebbero pacientia, loro che furono squartati.

ALOISIA.
98Quella fu altra ribaldaria, e forse che non eranno fratelli giurati della mia maestra?

ROSSO.
99Or lasciamo ire le cose coleriche e ragionamo dele alegre, perché moremo anche noi, e Dio el sa se meglio o peggio. Aloigia, noi siamo felici: el mio patrone è inamorato di Laura di messer Lutio.

ALOISIA.
100È mio fratello di latte.

ROSSO.
101Ricchi siamo! Egli non l’ha mai scoperto a persona; ei sognando, òglielo da lui sentito. Io vorei...

ALOISIA.
102Taci e lascia far a me. Tu vòi che noi gli diamo ad intendere che la stia mal di lui.

ROSSO.
103Entriamo in casa, che tu vali piú che un dextro a chi ha preso le pillole.

SCENA VII

MESSER MACO e MAESTRO ANDREA

MESSER MACO.
104L’è donque de legno, quella pina de bronzo?

MAESTRO ANDREA.
105Sere sí.

MESSER MACO.
106Quella nave dove son quei santi che affogano, di chi è?

MAESTRO ANDREA.
107Di musaico.

MESSER MACO.
108Oh, fatemi insegnare la musica a lei, poiché l’importa a farsi cortigiano, bench’io so la manno: è Gama-ut A-re Be-mi mi fa solare.

MAESTRO ANDREA.
109Voi avete un gran principio, ma sarà buono andare a riposare.

MESSER MACO.
110Io ho la gran sette, Dio me lo perdoni.

MAESTRO ANDREA.
111Ecco la casa. Entrate, signore.

MESSER MACO.
112Intrate voi, che siate maestro.

MAESTRO ANDREA.
113Procedete voi, messere.

MESSER MACO.
114Non bene conveniunt, con vostra licentia.

SCENA VIII

PARABOLANO e VALERIO

PARABOLANO.
115(Parlarò? Tacerò? Nel parlare è el suo sdegno, e nel tacere è la mia morte, perch’io scrivendoli quanto l’amo, se sdegnerà essere amata da sí basso uomo; s’io sto queto, el celare tanta passione mi condurà a extremo fine, ma conscigliami tu, Amore!)

VALERIO.
116Signore, per usare ufficio de bon servitore e non de presumptuoso, cerco di sapere el vostro male, e procacciarvi rimedio con la propria vita.

PARABOLANO.
117L’averti io sempre cognoisciuto tale, t’ha fatto diventare meco quello che tu sei, ma questo mio novo accidente non ti curare sapere.

VALERIO.
118Qui manca d’assai la grandezza vostra, e vi è poco onore ch’un vil desio signoreggi di cosí mala maniera la prudentia vostra. E ancora: che ‘l nascondere il dolore vostro proceda d’amore, ben lo cognosco io al poco mangiare e niente dormire, e al volto depinto dele vostre passioni. Ma se gli è amore, mancav’egli animo de ottenere qual si voglia donna? Voi sete ricco, bello, nobile, liberale, accorto, dolce del parlare, che son mezzi fideli a ottenere Venere, non solamente questa che cosí vi trafigge.

PARABOLANO.
119Se l’impiastri dele savie parole guaressimo le piaghe mie, tu m’aresti a quest’ora sanatomi.

VALERIO.
120Deh, signore mio, retrovate e recognoscete voi stesso e rilevativi di sñi strannio umore, e non vogliate diventare favola dela Corte e de’ vostri emuli. Donque voleti ch’a Napoli si sappia questa sciochezza che vi mena ala vergogna e morte vostra? Sentendo tal cosa, che alegrezza ne averanno li vostri? Che gloria la patria? Che consolatione li amici? E che utile e poveri servitori?

PARABOLANO.
121Vatti a spasso, che mi faresti forse uscire del manico con tante ciance.

SCENA IX

PARABOLANO solo

PARABOLANO.
122Conosco che Valerio me dice el vero, come giovene prudentissimo, ma el soverchio amore mi diffida d’ogni salute. Pur ogni cosa si vede avere fine, oggi non somiglia a ieri, sempre non sono le neve e i giacci, si placa el cielo e gli dei. Serà megglio ch’io intenda il conscilio di VALERIO. Eccolo su la porta. Valerio!

SCENA X

PARABOLA e VALERIO

PARABOLANO.
123Valerio, s’io, come tu dici, fussi inamorato, che remedio mi daresti tu?

VALERIO.
124Trovare una ruffiana e scrivere una lettera.

PARABOLANO.
125E se la non la volessi?

VALERIO.
126Di questo state sicuro, che mai né lettere né denari sono refiutati dale donne.

PARABOLANO.
127E che voresti ch’io gli dicessi?

VALERIO.
128Quello che Amor vi dettarà.

PARABOLANO.
129S’ella l’avesse per male?

VALERIO.
130Io vi ricordo che le donne sonno di piú molle carne e de piú tenere ossa di noi.

PARABOLANO.
131Quando mandaresti tu questa lettera?

VALERIO.
132Spettarei la opportunità del tempo.

PARABOLANO.
133Scempio, io t’ho pur fatto parlare: io ho altro caldo che d’amore.

VALERIO.
134Padrone, mai per voi non si pigliava San Leo, poiché non vi basta l’animo d’ottenere una donna.

PARABOLANO.
135Né per questo scema uuna dramma del mio tormento. Or entriamo in casa, che l’essere solo piú mi contenta che con altrui ragionare.

SCENA XI

MAESTRO ANDREA solo

MAESTRO ANDREA.
136Mentr[e] ch[e] messer moccicone beeva, s’è inamorato di Camilla Pisana per averla vista dale fenestre dela camera. Questa è quella volta che Cupido doventa una pecora. Egli canta improviso e compone i piú ladri versi e le piú ribalde parole che se udisero mai; e, per non parere busardo come gl’astrolagi del diluvio, vi voglio legere una pistola ch’egli manda alla signora. (Lettera de messer Maco ala Camilla Pisana) «Salve regina misericordie. Perché i vostri occhi marmorei e inorpellata boca e serpentini capelli e fronte coralina e labra di brocato m’hanno cavato di me stesso, e’ son vneuto a Roma e faromi cortigiano favente deo per amore vostro, perché sete piú morvida che le ricotte, piú fresca del ghiaccio, piú polita che la mandragola, piú dolce che la quintadecima, e piú bella che la fata Morgana e la Diana stella. Siché spetate il luogo e trovate el tempo dove io possa dirvi milanta parole, le quale seranno secrette come un bando et fiat voluntas tua.
-->
Maco che sta per voi a pollo pesto
Vi voria far quel fatto presto presto».

SCENA XII

MESSER MACO e MAESTRO ANDREA

MESSER MACO.
137Portate questo strambottino ancora.

MAESTRO ANDREA.
138Di gratia, ma lo voglio prima legere, perché voi siate malitioso, e chi sa ch[e] voi non mi volessi fare dare cento bastonate.

MESSER MACO.
139No, no, maestro, che vi voglio bene.

MAESTRO ANDREA.
140Io el so certo, pure...
(Strambottino di messer Maco letto da amestro Andrea)
-->
«O steluzza d’amore, o angelo d’orto
Faccia di legno e viso d’oriente
Io sto pur mal di voi la nave in porto,
e si’ piú bella che tutto el ponente;
le tue belezze veneron di Francia,
come che Giuda che si strangolòe.
Per amor tuo mi fo cortigiano io,
non espettò già mai con tal desio».
O che versi sentenciossi, tersi, limati, dotti, novi, arguti, divini, corenti, dolci e pien di sugo! Ma c’è un latino falso.

MESSER MACO.
141Qual è? «La nave in porto»?

MAESTRO ANDREA.
142Signorsí.

MESSER MACO.
143E’ l’è una licentia poetica. Ora andate, via, presto, ala diva.

SCENA XIII

MAESTRO ANDREA solo

MAESTRO ANDREA.
144Ora sí che’ poeti andaranno ala stupha! El bisogna fare emttere el basto a’ camelli per coronarci su messer Maco de spini, ortiche e bietoloni, al dispetto di lauri et de mirthi, che fanno tante cacherie inanzi che vogliono ornare le tempie a niuno, e non si degnono se non con l’imperatori e con poeti e con le taverne. Ma mi pare cosí veder che messer Maco far[i[a impazire d’alegrezza una coperta e che gli scoppia se non sta tre mesi legato. Ora, a trovare el Zopino.

SCENA XIV

ROSSO solo

ROSSO.
145La vecchia farà el debito. Oh, l’è gran ribalda, questa ALOIGIA. E’ l’ha piú punto che non hanno mille sarti, barbuta, strega, suocera de Sathanaso, avola del’Aversiera e madre de Antecristo! Ma sia come la vuole; a me basta d’asassinare el mio padrone, e vendicarmi de mille disagii che mi dà senza proposito, il furfantino, che gli pare essere de XXII anni cavati d’aprile e ‘l maggio e’ passa la quarantina e crede che le tutte duchesse del mondo si consumino per lui. Ma tu assagerai d’una fornaia, ignorantone. Ma ci comparisce.

SCENA XV

ROSSO e PARABOLANO

PARABOLANO.
146Che c’è, Rosso?

ROSSO.
147Vorei che voi ridessi un poco per amor mio.

PARABOLANO.
148E sí sia.

ROSSO.
149Mala parola, et ‘e scritta per tutto; ni si seppe mai chi la scrivessi, né mai fu detta da uomo lieto.

PARABOLANO.
150Che piú?

ROSSO.
151Ma torniamo al proposito. Che pagaresti voi se m’endovinassi de chi e de come Amor vi crucifigge? E non mi fa profetizare el vino, che, Dio gratia, s’adacqua in modo che ‘l cervello sta in cervello.

PARABOLANO.
152Che di’ tu, fratello?

ROSSO.
153Fratello, ah? Sapiate ch’io so come l’ha nome, di chi è moglie, dove è la casa, e tutto.

PARABOLANO.
154Come? La casa, el marito e lei?

ROSSO.
155Ogni cosa: moglie, marito, balie, fratelli e paggi[i].

PARABOLANO.
156Se mi dice la prima lettera del suo nome, tu guadagni cento ducati.

ROSSO.
157D’oro o di carlini?

PARABOLANO.
158D’oro.

ROSSO.
159Larghi o stretti?

PARABOLANO.
160Traboccanti e larghi.

ROSSO.
161Levàtimi de tinello e dirovi ogni cosa, ancoraché nol meritati.

PARABOLANO.
162Padrone dela mia casa ti faccio. Comincia per S?

ROSSO.
163Mesernò.

PARABOLANO.
164Per A?

ROSSO.
165Apuntto, Viola.

PARABOLANO.
166Per Z?

ROSSO.
167Piú su sta santa Luna.

PARABOLANO.
168Per C?

ROSSO.
169A un buco ve desti. A fe’ che domani o l’altro ve lo dirò, e molto voluntieri.

PARABOLANO.
170Ah cielo, perché consenti tu che un mio famiglio mi schernisca?

ROSSO.
171Che vi fa piú oggi che domani asaperlo? Dipoi, si voi mi amazat[e], Laura non sete voi per avere. Il Rosso valente come Astlpho...

PARABOLANO.
172Non piú. Dove son io?

ROSSO.
173In èstesis.

PARABOLANO.
174Dormo, io?

ROSSO.
175Sí, a farmi bene.

PARABOLANO.
176Con chi parlo, io?

ROSSO.
177Col Rosso, che non ha piú mangiare in tinello, e l’ho piú caro che s’io fussi potestà di Norcia, imbasciatore di Thodi e vecerñe di Baccano.

PARABOLANO.
178Andiam dentro, amico mio carissimo, che buon per te.

SCENA XVI

ZOPPINO tabacchino e MAESTRO ANDREA

MAESTRO ANDREA.
179Mai, daché furon fatte le baie, si udí la maggior ciancia de questa.

ZOPPINO.
180Io gli dirò che la signora mi manda a Sua Altezza e, s[i] non fussi per rispetto di don Lindezza spagnollo, che per gelosia tien le gaurdie dí e notte ala sua porta, che gli potrai venire a dormire seco; ma che, scognosciuto, non c’è niuno periculo.

MAESTRO ANDREA.
181Tu sei per la via maestra. Ma el babuasso vien fuora, càvategli la beretta.

SCENA XVII

MESSER MACO, MAESTRO ANDREA e l’ ZOPPINO

ZOPPINO.
182La signora vi basa le mani e ‘ piedi, e sta molto mal di voi.

MESSER MACO.
183O poveretta! Gran mercè a voi.

ZOPPINO.
184Piú di cento baci ha dato la signora ala letterina e alo strambotto e l’ha imparato a mente e cantqalo in su l’organno.

MESSER MACO.
185Come io mando per marzapani a Siena, ve ne darò uno per questa buona nova.

MAESTRO ANDREA.
186Liberalacio che voi sète! Or, Zoppino, drento in casa; e ordinaremo quello che la signora Camilla vuol qui da messer Maco.

SCENA XVIII

ROSSO solo

ROSSO.
187Io sto meglio che non merito: il mio padron m’ha dato mille bacci, e me dice mesere, e vuol che me obedisca sino al canevaio, ah, ah, ah! E che sí, che sí, che sí ch’io dovento piú gran maestro che Marphorio. Infin, beato è chi sa ben portare polli, e mi pare cosí vedere ch’ognun mi si caverà la beretta. Or m’è forza ritrovare Aloigia e menarla a lui. Ma se questa cosa si scuopre, suo danno: io so ogni buco in Italia a irsi con Dio. Ma io mi confido in santa Aloigia, che ne sa piú che ‘l calendario che insegna le feste al’anno, e credo che mi bisognerà spettarla un’ora, perché l’ha piú da fare che la solicitudine.

SCENA XIX

GRILLO solo

GRILLO.
188Che cicalone e simpliciotto è questo mio padrone. Ti so dire che, per un peccorone che gli [è], non ha invidia a niuno. Ma gli è capitato in buone mani: a maestro Andrea e al Zopino! Uno giuntaria l’usura e l’altro faria impazire la Sapientia Capranica. O può fare questo la natura, ch’egli si creda che gli asini tenghino scuola? Veramente gli è, come disse la buona memoria de Strascino, un maccherone senza sale, senza caseo e senza fuoco.

SCENA XX

MAESTRO ANDREA, ZOPPINO e MESSER MACO

MESSER MACO.
189La mi vuol bene, è vero?

MAESTRO ANDREA.
190Piú che se l[a] v’avesse partorito.

MESSER MACO.
191Se la mi fa un figliolo, gli pagherò la culla alla fegatella, ghiotta, traditrice, ribaldella.

ZOPPINO.
192Torniamo ala cosa nsotra. A me apre che sería securissimo a venire vestito da fachino, e Grillo vestito con suoi panni gli verrà dietro.

MESSER MACO.
193Aconciatemi pur ben, maestro.

MAESTRO ANDREA.
194Non dubitate, ma bisogna che voi impariate certe parole per contrafare la lingua, e se nisun ve dicessi se voi sete fachino, dite: Oidà.

MESSER MACO.
195Olà.

MAESTRO ANDREA.
196Galante. E se persona dicessi: «Sè tu da Bergame?», dite: «Maidè, maidè».

MESSER MACO.
197Be’ be’.

MAESTRO ANDREA.
198E se nesun dicessi: «Quando venesti qui, fachino?» respondete: Anchò.

MESSER MACO.
199Cacarò.

MAESTRO ANDREA.
200Ah, ah, ah! Buono, bonissimo! Andatevi a travestire con Grillo, ché in casa sono i vostri panni.

SCENA XXI

MAESTRO ANDREA e ZOPPINO

ZOPPINO.
201Vogliamo noi metterli sotto un peso che li rompa un[a] spala?

MAESTRO ANDREA.
202Non, che sería peccato. Basta vestirlo da fachino, e come s’è posto a sedere su la porta, muta solamente la cappa e dimandagli poi s’egli ti vuol portare un amalato di peste al’ospitale.

ZOPPINO.
203T’ho inteso. Io ti farò ridere, che una di queste burle faria ringiovenire el Testamento Vecchio. A revederci.

SCENA XXII

MAESTRO ANDREA e GRILLO con i panni de messer Maco

GRILLO.
204Sto io da uomo?

MAESTRO ANDREA.
205Non gustare l’ucellare: noi gli volemo dare ad intendere che gli è el Siciliano fachino e menarlo dove tu sai.

SCENA XXIII

MESSER MACO, MAESTRO ANDREA e GRILLO

MAESTRO ANDREA.
206Non vi conosceria el senno, ma bisogna mosntrare el cervello che voi avete. Ponetevi a sedere sula porta dela signora e, se niuno passa, fingete d’avere a portare una casa; ma se voi non vedete nisuno per la strada, intrate in casa e fate quella cosa ala signora.

MESSER MACO.
207Con gintelezza, giuro a Dio, bacio le mani!

MAESTRO ANDREA.
208Aviatevi inanzi, e noi vi veremo dietro passo passo, et se la mala ventura volessi che quel spagnolo traditore ve incontrassi, Grillo, che per avere ‘ vostri panni, p[a]r voi al naturale, gli passerà da lato e non piglierà sospetto di voi cosí trasvestito. Intendi, gocciolon mio dolciato?

MESSER MACO.
209Io v’afferro; ma caminatemi presso, che qualcun non mi furassi a me stesso.

SCENA XXIV

MESTRO ANDREA e GRILLO

MAESTRO ANDREA.
210Questa novella non è nel Boccacio. O che ladra cosa! eh, eh, eh, ah, ah, ah! El coronare del’abbate di Gaeta non fu niente, ancoraché gli andasi sul[o] elephante, né quante ciance si fecion mai in Palazzo al buon tempo agiongono a questa.

GRILLO.
211O che da ben tristo è questo Zoppino! O gli è el suttile impiccato! Vede come si mostra d’essere un altro, e messer mescolone s’è posto a sedere e sta saldo come un edificio.

MAESTRO ANDREA.
212Andiamoli presso e ascoltiamo ciò che li dice el Zoppino reverendissimo.

SCENA XXV

ZOPPINO e MESSER MACO vestito da fachino

ZOPPINO.
213Hai tu compagno da portare a uno amalato in Santo Spirito?

MESSER MACO.
214Ben sai ch’io ho spirito.

ZOPPINO.
215Dico ben: a Santo Spirito; et è poco male la peste.

MESSER MACO.
216Che peste? no io, che non l’ho.

ZOPPINO.
217Tu cianci, gaglioffo. Come el pan val poco, cosí non voleti durare fatica.

MESSER MACO.
218Se ‘l pan val poco, tuo danno.

SCENA XXVI

MAESTRO ANDREA, MESSER MACO, GRILLO e ZOPPINO

MAESTRO ANDREA.
219Siciliano, fa’ piacere a questo gintilhomo: è una opera de misericordia.

MESSER MACO.
220Maestro Andrea, volete voi la baia, o pur mi sono scambiat[o] in questi panni?

MAESTRO ANDREA.
221Tu par[i] sanese, perché i Sanesi ogni natale si fanno uno di cotesti saltimbarchi ricamati. O il gintil manigoldo!

MESSER MACO.
222Adonque non son io?

MAESTRO ANDREA.
223Deh, vanne alle forche!

GRILLO.
224Che tu trovi quel che tu cerchi, boiaccia.

MESSER MACO.
225Deh, Grilaccio ladro, tu mi dileggi. Or dà qua e mia panni, maladrino traditore.

MAESTRO ANDREA.
226Fati indietro, becco, pesadeos, vigliacco, che chiero matarti.

MESSER MACO.
227Oimè, ch’i’ mi son perduto.

ZOPPINO.
228Dice uno che passa adesso adesso de qui che ‘l governatore ha mandato uno bando che, chi sapessi, avessi o tenessi un messer Maco da Siena, che a pena del polmone lo rivelli, perché gli è venuto a Roma senza buletino.

GRILLO.
229Oimè, ch’io son spacciato.

MAESTRO ANDREA.
230Non dubitare. Spoglia qui queste veste e mettiamole a questo fachino, e tu vestiti el saltimbarco, e cosí trovandolo, il bargello lo apiccarà in tuo scambio.

MESSER MACO.
231Impiccato, ah? Misericordia! Ala strada, ala strada! Soccorétime, io son morto!

ZOPPINO.
232Tenetelo, tenetelo! Piglia, para! Ala spia, al mariolo! ah, ah, ah, ah!

MAESTRO ANDREA.
233Di gratia, Grillo, corrigli dietro e rimènerlo a casa, e digli che abiamo burlato seco per dare piacere ala signora, perché a Roma s’usano queste burle. Perché gli è ben nato e qualcuno de’ suoi il porria avere per mal da noi.

GRILLO.
234Andrò, perché me lo pare vedere come uno barbagianno, e avere intorno tutti i banchieri firentini, ché i cicaloni ingrassano a queste coglionarie come fanno nel guadagno dele usure.


ATTO TERZO

SCENA I

PARABOLANO e VALERIO suo camariero

PARABOLANO.
1Virtuoso, savio, discretto e da bene è ‘l Rosso, mesersí.

VALERIO.
2Voi lodate el rosso non altrimenti che se v’avessi fatto quel che voi sète.

PARABOLANO.
3Non m0ha già ditto che la famiglia se lamenti...

VALERIO.
4Perch’egli mente.

PARABOLANO.
5...Né che gli staphieri non siano pagati...

VALERIO.
6Non vi vuol ben, però.

PARABOLANO.
7...Né che ‘l zanetto sia rapresso...

VALERIO.
8Donque date voi credenza alle menzogne?

PARABOLANO.
9...Né che ‘l mercante domandi denari de’ drappi...

VALERIO.
10Bisogna pur pagare ch[i] ha d’avere.

PARABOLANO.
11Né anche m’ha portato versi in mia laude, ma la mia vita, la mia salute e la mia pace, e l’ho per cordial amico, per ottimo compagno e per carnale fratello.

VALERIO.
12Mi maraviglio assai che non vi piaccino gli spiriti peregrini.

PARABOLANO.
13Fa’ tuo conto ch’io [non] vivo de poesie, e non sarà dui giorni ch’io vo’ dare licentia a tanti philosophi ch’io ho in casa, e a mio dispetto gli ho dato el pane sino a qui; e ciò ch’io ho voglio spartire col Rosso, el qual m’ha cavato de l0inferno e messomi in paradiso, e m’ha dato la vita et ha in me resuscitato la speranza secca e aduggiata nele amorose passioni; e però lièvamiti dinanzi, ch’io spetto il Rosso con piú grate nuove ch’altri che lui non può darmi.

SCENA II

ROSSO e ALOIGIA

ROSSO.
14Fa’ tu.

ALOIGIA.
15Credi tu che questa sia la prima?

ROSSO.
16Non, io.

ALOIGIA.
17Donque lascia il pensiero a me. Ma questo debbe essere il tuo padrone.

ROSSO.
18Quello è esso.

ALOIGIA.
19Io il cognosco al rincroschichiare dele mani, al’alzare del volto al cielo e al porsi or el dito ala bocca or la mano ala guancia, signali de inamorati. O che bestie son questi signori? Sempre si vano guastando dele principesse, e poi con qualche zambraca si caveno la fame. E anche dietro Banchi n’ho visti. E poi si vantano d’avere fatto e detto a madonna tale e ala signora cotale.

ROSSO.
20Per mia fe’, che ‘l credo. E per certo, che ‘l possedere de una gran donna debbe essere una gran fatica.

ALOIGIA.
21Grandissima. E non ha mai questa ventura se non un famiglio e un fattore di casa, non per altra cagione che la comodità.

ROSSO.
22Io son pur felice averle dietro, queste femine, e mi stupisco di quei perdi-giornate che a vesp[er]i, a messe, a stazoni, al freddo, al caldo, de dí e de notte le seguitanno; e se mai per disgratia, in capo a XX anni, hanno la posta, por che con mille dissagii e in luogi sporchi e pericolosi ha’ spettat[o] prima quattro ore, un tusire, un sternuto ti rovina del mondo, e svergogni lei e tutto el suo parentado. Or ragionamo d’Orlando. State cosí, un pocheto da parte, et io farò l’ufficio col padrone.

SCENA III

ROSSO, PARABOLANNO e ALOIGIA

PARABOLANO.
23El ben venuto, Rosso carissimo!

ROSSO.
24Questa è la balia di quella cosa, cioè de..., tu m’intendi.

PARABOLANO.
25Voi sète quella ch’avete un angelo in governo.

ALOIGIA.
26Servitrice di Vostra Signoria, e Laura mia si reccomanda a quella.

PARABOLANO.
27In ginochioni vi voglio ascoltare.

ALOIGIA.
28Questo è piú tosto mio debito, parlando con un sí gran maestro.

ROSSO.
29Lièvati su e non usate tante spagnolerie e gagliofferie.

ALOIGIA.
30La mia signora vi basa le mani e non ha altro Dio di Vostra Signoria... Ma io ho vergogna parlarvi con questa gonellaccia. Perdonatemi!

PARABOLANO.
31Questa catena vi la rifacci. Pigliate!

ALOIGIA.
32Gran mercè. Pur, e’ non bisognava.

ROSSO.
33Non ti diss’io che ‘l fa quel conto a donare cento ducati che faccia un procuratore a robargli? (Io mento per la golla!)

ALOIGIA.
34Io el credo!

ROSSO.
35Egli ci dona l’anno piú veste che non vende piaza Navona. (Oh, pagàsici il nostro salario, il miserone!) Del mangiare e del bere non ti dico, perché nel suo tinello c’è sempre Carnevalle. (Anzi Quaressima, e siàn tutti piú magri che un digiuno!)

ALOIGIA.
36Vi sono schiava!

ROSSO.
37Forse che, quando accade, non ci aiuta del suo favore? Sino al Papa parlarebbe per il minor dela famiglia! (Tant’avessi egli fiato, che, se ci vedessi el capestro al collo, non moveria un passo!)

PARABOLANO.
38Quel ch’io sono è a ccomodo deli mei amici, come sa qui el mio ROSSO. Ma ditemi, di gratia, con che faccia ascolta di me Laura?

ALOIGIA.
39Con faccia imperiale!

PARABOLANO.
40Che ragionamenti fa ella di me, e con che maniere?

ALOIGIA.
41Anorevoli e con manieri di zuchero e di mèle.

PARABOLANO.
42Che promesse fa ella ala mia servitú?

ALOIGIA.
43Magnifiche e larghe.

PARABOLANO.
44Credete voi che la finga?

ALOIGIA.
45Apuntto!

PARABOLANO.
46Che ne sapete?

ALOIGIA.
47Lo so perché la sta mal di Vostra Signoria, e poi è gintildonna.

PARABOLANO.
48Ama ella altro che me?

ALOIGIA.
49Non, signore.

PARABOLANO.
50Certo?

ALOIGIA.
51Chiaro!

PARABOLANO.
52Che fa ella ora?

ROSSO.
53(È ita a orinare!)

ALOIGIA.
54Maledisce el girono, che pena un anno a irse con Dio.

PARABOLANO.
55Ch’importa irsi con Dio del giorno?

ALOIGIA.
56Hl’importa perché s’ha questa notte a trovare con voi, che gli pare mille anni.

PARABOLANO.
57Veneranda madre mia, degnàtive ascoltarmi vinte parole in secretto.

ALOIGIA.
58Quel che piace ala Vostra Signoria.

PARABOLANO.
59Rèstati qui, Rosso, ch’adesso ritornaremo.

ROSSO.
60(In quel punto, ma non con quella grazia!)

SCENA IV

MESSER MACO e ROSSO

MESSER MACO.
61Che mi consciliate voi ch’io faccia?

ROSSO.
62Apiccati!

MESSER MACO.
63Il bargello mi cerca per pigliarmi a torto!

ROSSO.
64Oh, part’egli non aver cera da fargli onore?

MESSER MACO.
65Conoscete voi messer Rapolano?

ROSSO.
66Messer Maco! Che abito è questo? Siate voi scappato afatto?

MESSER MACO.
67Maestro Andrea, che mi menava ale puttane...

SCENA V

PARABOLANO, ALOIGIA, MESSER MACO e ROSSO

PARABOLANO.
68Che di’ tu, Rosso?

ROSSO.
69Quello scioperato di maestro Andrea ha condutto el vostro messer Maco come poteti vedere, in questi panni!

PARABOLANO.
70Voi sèti, messer Maco?

MESSER MACO.
71Io sono, io sono!

PARABOLANO.
72Accompagna tu, Rosso, qui la mia madre dolcissima, e voi, messer Maco, verete meco in casa, che mai non so’ per perdonare questa a quel tristo, a quel poltrone di maestro Andrea.

MESSER MACO.
73Non gli fate male, ch’ei si giamba meco, el mio maestro.

SCENA VI

ROSSO e ALOIGIA

ROSSO.
74Che t'ha ei detto?

ALOIGIA.
75Che sta a l'olio santo. Ma a dirti il vero, io ho scopati tutti i bordelli d'Italia, e al mio tempo non saria stata atta a scalzarmi. Lorenzina né Beatrice. Avevo la martora, il zibelino, il papagalo, la scimia e ogni cosa, intendi?

ROSSO.
76E io son stato garzone d'oste, frate, gabellieri, messo, spia, sbirro, boia, malandrino, vetturale, mugnaio, ceretano, in galea e FURFANTE. La mia parte dela cathena, e poi concludi a posta tua.

ALOIGIA.
77Io non l’ho detto a malitia, ma quello ch’io vo’ dire, in mio linguagio, è questo: che de quante ne feci, mai non ebbi cosa che me mettessi a maggiore penssiero che questa, et ho pur qualche anno al culo. E che sia vero, di signora io son tornata a tenere camare locande, a lavare panni e ala cucina e a vendere le candele.

ROSSO.
78Sappi, Aloigia, che ti debbe essere caro ch’io t’abbi messo cotal partito ale mani, perché sarà forse l’ultimo, ché le donne si cominciono a usare poco in Corte. Bench’io credo che lo faccino perché, [non] potendo toglier moglie, togliano marito, e cavansi le vogli assai meglio e non dà contro ale leggi.

ALOIGIA.
79Ala croce de Dio, che ci son di male bestie in la Corte. E vo’le tu vedere? Insino a’ vescovi, che portano la mitiria e non se ne vergognono!

ROSSO.
80Savia sentenzia, per Dio, che ‘l tuo confessore deoveria porti in la predica!

ALOIGIA.
81Tu di’ ben. Ma io non cerco mondanità, et ho imparato dala mia maestra, che vuole prima andare su l’asino che nel bel carro, e manco vole la mitria con le belle dipinture perché non se dicessi pe ‘l vicinato ch’ella el facessi per vanagloria. Ma io, parlando, ho trovato la via di contentare Parabolano e salvare noi che lo crucifigiamo.

ROSSO.
82O dimmi come.

ALOIGIA.
83La moglie d’Erculano fornaro è una bonissima robba, e tuttavia ordinarò ch’ella si trovi col signore stanotte in casa mia. I signori han quel gusto ch’una febbre e sempre se piglianno al peggio, come noi femine. E’ non è per accorgersi mai de cosí fatta burla.

ROSSO.
84Un bacio! Sta salda, corona dele corone dele reine. Oimè, ch’io mi videvo a mal partito se tu non ci provedevi! Or sono io arcichiaro che ‘l mio padrone goffo andrà nel bel di Roma, e noi a salvum me fac. Or noi ci siamo intesi. A rivederci!

SCENA VII

FLAMINIO e VALERIO

VALERIO.
85Tu sei entrato in gran farnetico da mez’ora in uqa; ma se tu me crederai, attenderai a servire.

FLAMINIO.
86In effetto io son deliberato mutare padrone, perché disse lo spagnolo che gli è meglio perdere che masperdere. Oimè, quando io penso che XV anni l’ho servito né mai mangiò né cavalcò ch’io mancasi in servirlo, e non ho niente, il mi vien voglia d’anegarmi. E’ non son però tanto ignorante che fossi getato via il farmi qualche bene.

VALERIO.
87Questo lo causa la Fortuna, la qual s’ha piacere non solamente di fare ch’un signore indusi a fare bene a un servitore, ma di fare un grandissimo re di Francia prigion senza proposito nisuno.

FLAMINIO.
88Per certo che, se i signori volessero, romperebbono questa mala sorte di chi li serve, come fece a questi giorni il nepote d’Ancona, arcivescovo di Ravena, che, per non esser reuscito un benefitio ch[e] al virtuosso messer Ubaldino aveva dato, tolse mille scudi a interesse e donòg[n]ene; e cosí restò guasta la Fortuna.

VALERIO.
89Non se en trovva, degli arcevescovi di Ravena, si non uno, sai?

FLAMINIO.
90E però voglio irmi con Dio, ch’almeno averò un padrone che mi gaurderà in volto una volta el mese e che forse, quand¡io gli parlerò, mi risponderà, non ch’io sia pazzo e di mia testa, e non m’impegnerò la cappa [e] il saio per cavarme la fame. Odi questa, VALERIO. Ieri vacò un beneficio che valeva cinquanta scudi. Gli diedi el primo aviso e non volse dirne per me una parola, ma l’ha fatto dare al figliolo dela Sibilla ruffiana.

VALERIO.
91I signori vogliono fare a modo loro, exaltare chi li piace e roinare chi li piace. Qui bisogna votarsi ala buona fortuna e pigliare el meglio che l’omo può, ch’insomma un che sempre serve non ha mai nulla, e [un che] un dí serve il primo giorno è ricco. Né bisogna però disperarse, perché ‘l guadagno dela mercantia cortigiana sta in un punto non aspettato.

FLAMINIO.
92Sí, ma questo puntto non si forma mai per un disgratiato. E forse che, quando andai a stare seco, le promese non gur larghe? Per certo, che, chi aventa e lancia le parole, bisogna por ch’ei faccia volare i fatti. Ma io muterò padrone.

VALERIO.
93Dove vòi tu ire, adesso, ch’è in disordine tutto il mondo? Se vai a Milano, el duca sta come Dio vole. A Ferrara, quel principe attende ad altro ch’a fare bella corte. A Napolli non ci son piú li re. A Urbino el signor è anche fastidiosso, in disagio per i passatti danni. E crede a me, che quando pate la corte di roma, patono gli altri ancora.

FLAMINIO.
94Anderò a Mantoa, dove la Excellentia del marchexe Federico non nega el panne a niuno et ivi mi tratterò tanto che Nostro Signore acconci le cose del mondo, non sol d’Italia; e poi ritornerò, ch’io son certissimo che Sua Santità ravelarà la virtú come fece Leon suo fratello.

VALERIO.
95Riparlimi di qui a poco e farai a modo mio, che te ne trovarai bene. Loda il padrone, e quando e’ gli è in camera con donna o ragazzo, di’ che dice l’ufficio, ch’insomma loro vogliono che s’adorino le bone e le triste opere che loro fanno. Tu sei sciolto dela lingua e vivi ala libera. E in questa maniera non [s]piace né incresce se non il vero.

FLAMINIO.
96Chi fa mal ha bene, Valerio! Pur ti ritroverò e farò quello che meglio mi potrà succedere, benché l’Invidia che è sempre visibile per le sale, camere e scale dela Corte, da me non è mai stata veduta. Or pensa s’io son misero! Ma l’ho caro, perché non sarò mai causa dela damnatione del’anima de niuno cortigiano.

VALERIO.
97E gli altri hannola vista in te, l’Invidia, che pur dici che ‘l padrone fa bene a chi no ‘l merita.

FLAMINIO.
98Io non dico questo per invidia, ma per offendere il poco iuditio suo.

VALERIO.
99Adio!

SCENA VIII

PARABOLANO e ROSSO

PARABOLANO.
100È pur dolce cosa amare et essere amato!

ROSSO.
101Dolce cosa è il mangiare e ‘l bere.

PARABOLANO.
102Dolce sarà la mia Laura!

ROSSO.
103Per chi la vuole! Io per me fo piú stima d’un boccale di greco che non faria d’Angela greca, e vorrei prima una pernice che Beatrice. E se per essere ghiotto se gissi in paradiso, io sarei a quest’ora in capo di tavola.

PARABOLANO.
104Si tu assaggiasti l’ambrosia che stillanno l’amorose bocche, ti parria altra dolcezza trovare che nel greco e nele starne.

ROSSO.
105N’ho gustato un migliaro, e de Lorenzina, Màdrama-non-vuole, e del’altre favorite, e non ci trovai mai altro altro che farfalloni che fariano stomacare un brigantino.

PARABOLANO.
106Tu smigli le grue ale phenice. Abbia rispetto ale gentildonne.

ROSSO.
107Perché? non pisciano come le villane?

PARABOLANO.
108È pazia, la mia, a parlar teco.

ROSSO.
109Pazzia è la mia a respondervi. E diteme un poco, padrone. Non è piú dolce, che l’ambrogie che voi dite, quel mèle che sgocciola dale lingue che sanno dire bene e male? Qui te colgo!

PARABOLANO.
110Ah, ah, ah!

ROSSO.
111Oh, quei sonetini di Mastro Pasquino mi amàzo[n]o. E´ meritariano, disse el Barbiera[c]io, ch’ogni matina se ne leggessi un fran la Pístola e ‘l Vangelo; e al cul di mio, che farianno arrosire la vergogna!

PARABOLANO.
112Tu sei molto pratico con i poeti.

ROSSO.
113Io fui servitore di messer Antonio Lelio, e so mille galenterie a mente.

PARABOLANO.
114Deh, ragionamo d’ALOIGIA. Andian dentro.

SCENA IX

MESSER MACO e MAESTRO ANDREA

MESSER MACO.
115Maestro Andrea, di dove si viene al mondo?

MAESTRO ANDREA.
116Per una fenestra larga larga.

MESSER MACO.
117E che ci si vien a fare in questo mondo?

MAESTRO ANDREA.
118Per vivere.

MESSER MACO.
119Come se vive, poi?

MAESTRO ANDREA.
120Per mangiare e per bere.

MESSER MACO.
121Io viverò sempre, perch’io mangio come un lupo e bevo come un cavallo. Ma come l’omo ha visso, che s’ha da fare?

MAESTRO ANDREA.
122A morire sul buco, come i ragnateli. Ma torniamo a Gian Manenti.

MESSER MACO.
123Che fu questo Gian Manenti?

MAESTRO ANDREA.
124Gran cortigiano e gran musico, e si rifece nelle proprie forme che vi rifarete voi.

MESSER MACO.
125O come?

MAESTRO ANDREA.
126Stiate in molle nel’acqua tepida.

MESSER MACO.
127Faròmi io male a starci in molle?

MAESTRO ANDREA.
128Fansi male le bombarde, le campanne e le torri quando le si fanno?

MESSER MACO.
129Non cred’io; ma io mi stimavo che le bombarde, le campane e le torri nascessero come li abeti.

MAESTRO ANDREA.
130Voi erravate in grosso!

MESSER MACO.
131Faròmi io bene?

MAESTRO ANDREA.
132Arcib[e]nissimo, perché è men fatica a fare un uomo che una bombarda.

MESSER MACO.
133Sí, eh?

MAESTRO ANDREA.
134Messersí. E’ bisogna ordinare el medico, le forme e le medicine.

SCENA X

GRILLO famiglio, MESSER MACO, MAESTRO ANDREA

GRILLO.
135Sinonché ‘l signor Parabolano ci mandò a dire che Vostra Signoria s’era ritrovata, staviamo come siperati e la signora v’ha fatto cercare per tutto.

MESSER MACO.
136La sta mal di me, la poveretta, nevero?

MAESTRO ANDREA.
137(Grillo, fammi bon ciò ch’io dico.) Grillo, io voglio che qui el nostro messere si rifacci come gli altri cortigiani.

GRILLO.
138Voi avete preso un buon capo, e lo farete di veluto, ma, per lo amore de Dio, fatelo prima intendere ale signore accioché si proveghino di materassi, perché, gittandossi per vostro amore dale fenestre quando sarete cortigiano, non si facciano male.

MESSER MACO.
139Gli farò portare delle còltrici, perché sería un peccato!

GRILLO.
140Che discretione!

MAESTRO ANDREA.
141Orsú, a dare expeditione a quel che d’ha da fare. Andiam, presto!

SCENA XI

ALOIGIA e ROSSO

ALOIGIA.
142Mefè io ho piú facende che un mercato, piú lettere a portare che ‘l procaccio e a fare piú ambasciate che l’ambascerie. Chi vol untioni per el mal francioso, chi polvere da fare bianchi i denti e chi per el mal che Dio gli dia! El Rosso me debbe cercare. Non vel diss’io?

ROSSO.
143Lascia andare l’altre novelle e stròlaga come questa notte il mio padrone giochi di verga.

ALOIGIA.
144Come io ho detto vinte parole al mio confessore, vengo a trovarti.

ROSSO.
145Spàcciati, perché ‘l padrone è ito sino a Palazzo e tosto tornerà, e io sarò intorno a casa.

SCENA XII

FLAMINIO solo

FLAMINIO.
146Io ragiono voluntieri con Valerio, perché è discretissimo giovene e servente e vuolmi bene; benché è a molto meglior mercato el conscilio che l’aiuto, del quale ho piú bisogno che la giustitia non aveva di papa Clemente. E sinonch’io mi trapasso la mia pessima sorte con quella dei maggiori òmini di me, me disperarei. E’ fu pur disonesto il tradimento usato a Cesare, il quale sempre piú cara avea la gloria del uso signore che la propria vita.

SCENA XIII

VALERIO e FLAMINIO

VALERIO.
147Con chi favelli tu, Flaminio?

FLAMINIO.
148Con le noie d’altri, per alegerir le mie.

VALERIO.
149Con qual noie?

FLAMINIO.
150Con quelle de Cesare, del qual ragiona tutta Roma.

VALERIO.
151Deh, entriamo in cose piú piacevoli, perché gli è di troppa importanza il succeso suo, e vòlsi avere rispetto a’ grandi, come testè ti dissi, perché gli è il diavolo a offenderli.

FLAMINIO.
152El gran diavolo! E a dire el vero, a dire la verità ne va la vita, e basta.

VALERIO.
153Pensiamo a te e vien meco insino in Banchi, ch’io t’ho a dire cosa che te consolarà. Ma entriamo in casa, ch’io mi dimenticato una lettera di cambio.

FLAMINIO.
154Entriamo, e usciremo per l’uscio del giardino.

SCENA XIV

GRILLO solo

GRILLO.
155Mi bisogna trovare maestro Mercurio, ch’è ‘l magiore baione e ‘l migliore sotio del mondo, perché maestro Andrea gli ha detto ch’e’ gli è el medico ch’aiuta a fare’ cortigiani. Ma eccolo, per Dio vero! El ben trovato, maestro Mercurio!

SCENA XV

MAESTRO MERCURIO, medico, e GRILLO, famiglio di messer Maco

MAESTRO MERCURIO.
156Che ti manca Grillo?

GRILLO.
157Maestro Andrea ha per le mani la piú bella burla che s’udissi mai. E’ gli è un gintiluomo sanese, ch’è venuto a Roma per acconciarsi per cardinale col Papa et ha tolto maestro Andrea per pedagogo. E’ gli ha dato ad intendere che bisogna che prima si facci cortigiano nelle forme, onde lo volemo menare ala stupha che, a chi non c’è mai stato, dà un grande affanno, non altrimenti che quel del mare. E ‘l raderemo e vestiremo di sorte che compiremo di farlo pazzo publico, e tu serai el medico.

MAESTRO MERCURIO.
158Ah, ah, ah! Io ho trovato meglio. Sai tu quelle caldaie che tengon l’acqua calda?

GRILLO.
159Sí.

MAESTRO MERCURIO.
160Ivi lo metteremo in mole e dirèmoli che sono forme da cortigiani. E prima li daremo una presa de pillole.

GRILLO.
161Tu l’hai. Andiamo con maestro Andrea, e messer Priapo ci aspetta.

SCENA XVI

ALOIGIA e ‘l GUARDIANO D’ARACELI

ALOIGIA.
162Padre, io venivo per trovarvi in Araceli, ma voi m’avete tolto la via.

GUARDIANO.
163Io vengo a San Pietro ogni dí, per mia devotione.

ALOIGIA.
164Dio vel perdoni; volsi dire: vel meriti. Ma voi state sempre in oratione e sète piú bel che mai e piú grasso.

GUARDIANO.
165E io non facio però troppo guasto in le discipline, perché, s’io non anderò cosí oggi in apradisco, ci anderò domani.

ALOIGIA.
166Molto ben. Ch[e] bisogna avere tanta fretta? E’ gli è pur tanto grande che ci capiremo tutti, Dio grazia!

GUARDIANO.
167Sí, sí, e ci avanzerà luogo, perché l’anime nostre son come le bugie, che se ne può dire i milioni, come il Tinca Martelli fiorentino,e non occupanno luogo. Ma che miracolo è questo che ti sè lasciata vedere?

ALOIGIA.
168Per chiarirme de doe cose grande. E questa è la prima.

GUARDIANO.
169Or di’.

ALOIGIA.
170Vorei sapere se l’anima dela mia maestra anderà nel purgatorio o no.

GUARDIANO.
171In purgatorio, per un mese o circa.

ALOIGIA.
172Egli si è ditto che no.

GUARDIANO.
173O nol sapre’ io?

ALOIGIA.
174O triste me, che ho creduto ale male lingue! Donque, e’ la v’anderà?

GUARDIANO.
175Sí, corpo di me! Ma qual è l’altra?

ALOIGIA.
176Oh, smemorata! Io ho date le cervella a rimp[e]dulare; spettate, oimè, che m’è scordato! Anzi, me ne ricordo pure: il Turco dove se truova?

GUARDIANO.
177In Galigut, cioè in Turchia.

ALOIGIA.
178E’ si dice pur, in piazza, che li serà fra otto giorni a Roma.

GUARDIANO.
179Che importa? Quando ben venissi fra quattro, de giorni, e che saria?

ALOIGIA.
180Assai importaria.

GUARDIANO.
181Che sarai mai, dico?

ALOIGIA.
182Una mala cosa, saria, e una gran ribalderia, ch’enfin quello impallare non mi va per la fantasia in niun modo. Impalare, ah? Ma verrà egli, padre?

GUARDIANO.
183Non, balorda.

ALOIGIA.
184Voi m’avete tutta tutta riconsolata. Impalare le povere donnicciuole! Dio e gli orationi [v]ostr[i] me ne guardino perché ‘l pane mi piace in palato, e non essere impallata dal Turco!

GUARDIANO.
185Or vatti con Dio, perch’io non posso stare piú tecco, ch’ò da cavalvare, perché, a dirti el vero, ho saputo per via de confessione che quelli di Verucchio volevonno amazare il loro conte Giovan Maria giudeo, e vado a fargli pigliare, e sarà mozzo la testa a XX de’ primi, e d’ogni cosa son cagion io.

ALOIGIA.
186Voi fate molto bene; e voi frati sapete ogni cosa.

GUARDIANO.
187Questo è certo, che non se fa mai tradimento senza nostra saputa. E anche noi ci sapemo di vettella e de capretto cavare la voglia, dico i ministri. E per gli altri fraticelli sono fatti i matutini e le messe, el compiete e ‘ vesp[er]i, e loro magiono con le gatte quando in sogno gli molesta le carne.

ALOIGIA.
188Io mi credeva che voi fusse tutti santi, a’ pie’ logri da’ zoccoli. Or fàtivi con Dio e domani, o quando sarete tornato, vorò che me diciate le messe de San Gregorio per l’anima del mio marito, ch’ancorach’ei fosse un omacio, sempre la notte el manegiavo a mio modo.

GUARDIANO.
189Vien, che serai servita.

SCENA XVII

ALOIGIA sola

ALOIGIA.
190Si vuole avere delle virtú, chi vuol salvarsi come la mia maestra, e qualche amicitia con frati, ch[i] vuol sapere delle cose. Ma per tornare a proposito, io, quando ci penso, sono la piú contenta donna del mondo per la morte della mia madonna Maggiorina, perch’ella, sendo in paradiso, mi sarà buona mezana lasú come ella m’è stata sempre quagiú, per sua gratia e mercè. Or lasciamo andare, che ‘l Rosso non mi spettassi tutto oggi.


ATTO QUARTO

SCENA I

MAESTRO ANDREA, MESSER MACO, MAESTRO MERCURIO e GRILLO

MAESTRO ANDREA.
1Noi siamo d’accordo del prezzo e messer Maco s’arischierà a pigliare le medicine.

MESSER MACO.
2Le pillole mi mettono un gran pensiero, tamen...

MAESTRO MERCURIO.
3Pillolarum romane curie sunt dulciora!

MESSER MACO.
4Nego istud, nego, nego, magister mi!

MAESTRO MERCURIO.
5Lyppograssus affirmat hoc, dico vobis.

MESSER MACO.
6Negro preposi[t]io hanc!

MAESTRO MERCURIO.
7Domine, usque quo vos non inteligitis glosam de verborum obligatione, che sic inquit: «Totiens quotiens vult diventare cortigianos novísima dies pillole et aque syropus accipere bisognat»?

MESSER MACO.
8Voi mi fate una rima falsa, ché bisognat non è toscano; et ecco qui in la manica el Petrarca che lo conferma.

MAESTRO ANDREA.
9Or cosí! Favèllami al’usanza e non per in busse e ‘n basse!

MESSER MACO.
10Trant fabrilia fabri!

MAESTRO MERCURIO.
11Mesere, cognoscete voi le nespole?

MESSER MACO.
12Signorsí.

MAESTRO MERCURIO.
13Le nespole si chiamano pillole a Roma, e voi ne pigliarete quanto vi basta l’animo mangiarne.

MAESTRO ANDREA.
14Avete inteso maestro Mercurio da bene?

MESSER MACO.
15Sí, ho, et è molto dotto, e io mangierò mille nespole per amore suo.

MAESTRO ANDREA.
16O che animo! Voi sareste stato il malatestissimo soldato al tempo de Bartolomeo Coglione!

GRILLO.
17Padrone, serà meglio ch’io me avii dove le forme vi aspettanno.

MESSER MACO.
18Va’ e tolli le piú belle forme e le piú agiate che vi siano.

GRILLO.
19Cosí farò. Altro?

MESSER MACO.
20Fa’ che ‘l capo c’entri tutto, e guarda che niuno si [v]olessi ussare inanzi a me.

MAESTRO ANDREA.
21Spàcciate Grillo, e fa’ che i si’ la stadera, ché bisogna pesarlo, ché s’ha a pagare un baioco per libra, come è riffatto. Ma, messer mio, voglio che voi giurate, inanzi che diventat[e] uno altro, di farmi carrezze, perché gl’intervien el piú dele volte che coloro tolti d’aconciare un asino, por che salgono in cielo al’acursiesca e serapichesca, non si degnon poi né con amici né con parenti.

MESSER MACO.
22Al corpo di Giuda, ch’io vi tocherò sotto ‘l mento!

MAESTRO ANDREA.
23Giuro da putini.

MESSER MACO.
24Ale vangele!

MAESTRO ANDREA.
25Sacramento da contadini!

MESSER MACO.
26Ala fe’ de Dio!

MAESTRO ANDREA.
27Cosí dicono li fachini.

MESSER MACO.
28Ala croce benedetta!

MAESTRO ANDREA.
29Parole da donna.

MESSER MACO.
30Potta..., sangue..., al corpo di...

MAESTRO ANDREA.
31Al corpo di che?

MESSER MACO.
32Ch’io biastemo?

MAESTRO ANDREA.
33Che no?

MESSER MACO.
34Si Cristo, di Cristo! Oh, pur l’ho detto!

MAESTRO ANDREA.
35Ah, messer Maco, io mottegio e voi biastemate come un traditore. E’ son vostro servitor, alma serena.

MAESTRO MERCURIO.
36Orsú, non perdiamo tempo, ché le forme si ferderano e a Roma le legne vagliono un thesoro.

MESSER MACO.
37Spettate, ch’io manderò per una soma a Siena.

MAESTRO ANDREA.
38Ah, ah, ah! Ecco là Grillo, su la porta dela bottega che fa i cortigiani plusquamperfetti. Che si fa, Grillo?

GRILLO.
39Le forme, la stadera, le nespole, i maestri e ogni cosa è in ordine, e vederete cose piú fantastiche che l’umor malenconico.

MESSER MACO.
40Maestro, la lune dove si trova ora?

MAESTRO MERCURIO.
41Eh? Oh, discosto de qui un gran pezzo.

MESSER MACO.
42Io dico se l’è in quintadecima o no.

MAESTRO MERCURIO.
43Messernò.

MESSER MACO.
44Basta, io aveva oaura de sí, perché vien poi in fluxo ventris, ma sola fides sufficit. Andiamo, in nomine Domini.

SCENA II

ALOIGIA e ROSSO

ALOIGIA.
45Il ben trovato, ROSSO. Io ho parlato al mio confessore per sapere quando vien la Madonna di mezzo augosto, perché ho in voto di digiunare la vigilia. Poi fecci la via dela Piemontese e hammi date queste maniche. Di poi mi sono risciacquati i denti con un mezzo di còrso, et eccomi qui.

ROSSO.
46Aloigia, a dirtelo in una, Valerio mi vuole male e io a lui; e quando, per tua industria, el ponessimo in disgrazia al padrone, che so io?, non perderesti niente perché toccarrebbe a me essere el ministro.

ALOIGIA.
47Dammi la tua parte dela cathena e farollo rompere il collo in un fil di paglia.

ROSSO.
48Si la tua, ma dimmi il modo.

ALOIGIA.
49Adesso il penso.

ROSSO.
50Pensalo ben, ch’importa.

ALOIGIA.
51Io l’ho, sta saldo!

ROSSO.
52Idio il volessi.

ALOIGIA.
53Eccotelo.

ROSSO.
54Come?

ALOIGIA.
55Dirò che Valerio ha sentitoci ragionare di Laura e che n’ha avertito il fratello di lei e che detto suo fratello, che si domanda Rienzo di Iacovello, ha giurato di farci capitare tutti male. Ma ecco el signor. Taci!

SCENA III

PARABOLANO, ROSSO e ALOIGIA

PARABOLANO.
56Che fa l’anima mia?

ALOIGIA.
57More per Vostra Signoria, ma...

PARABOLANO.
58Dio m’aiuti: che vuole dire questo ma?

ROSSO.
59E’ gli è stato un atto da trsito!

PARABOLANO.
60Chi ha fatto questo atto?

ALOIGIA.
61Non se voria mai fare apiacere a persona.

ROSSO.
62El nostro Valerio...

PARABOLANO.
63Qual Valerio? Che ha fatto Valerio?

ALOIGIA.
64...è ito a dire al fratello di Laura che rosso e io gli roffianamo la sorella; ma fate che non siano mie parole!

PARABOLANO.
65Può essere?

ROSSO.
66Io scoppio e non posso stare quetto. Il piú mal uomo di Roma: ha morto una docina de bargelli e porta l’arme al dispetto del governatore; e Dio voglia che voi ne andiate netto.

PARABOLANO.
67O traditore! Adesso gli caccio nel petto questo pugnale, linguacia frascida!

ALOIGIA.
68Signor, no ci mentoati in questa cosa, per l’amor de Dio, che ci rovinaresti!

PARABOLANO.
69Furfante! Egli mi sta molto bene, che l’ho tratto del fango al dispetto suo, e hollo fatto uomo de mille ducati d’entratta.

ROSSO.
70E’ gli è quel ch’io dico. Io m’accorsi ch’egli cercava d’assasinarvi e sòmmi stato cheto perché Vostra Signoria non dicessi ch’io fossi riportatore di frasche!

PARABOLANO.
71Venite un poco in casa, ch’io crepo di doglia.

SCENA IV

ROSSO solo

ROSSO.
72Chi la fa, l’aspetti, dice l’avverbio; e chi asino è, e cervio essere si crede, perde l’amico e dinari non ha mai. So ch’io t’ho reso pan per focaccia, e andarai a fare el duca a Tigoli se tu scopiassi, asino revestito! Io son bugiardo, infingardo, soiardo, frappatore, adulatore e traditore, furo e spergiuro e tabachino, che piú importa che essere messer Angelo de Cesis, e ogni dí col favore de Aloigia menarò robbe nove dena[n]zi e de dreto ala porta al padrone, e regerò favorito ala barbaccia tua, Valerio.

SCENA V

ALOIGIA e ROSSO

ALOIGIA.
73L’ho espedito in doe parole. Gli ho promisso che a cinque ore venga, che in casa mia si troverà con Laura, ma in loco scuro e solo, perché l’è tanto vergognossa che non sería possibile a condurvela altrimenti; e questa comodità ci dà la partita del suo marito, che va per otto dí a Veletri. Ma prima che abbia conchiuso questo, ser Valerio ha avuta licentia, e con male parole. Va’ via, ch’io non [ho] tempo da perdere!

ROSSO.
74(O che strega! O pensa quel che debbe fare la sua maestra, quando la discipula trova sí gran cose improviso.) Ma che dite, signore?

SCENA VI

PARABOLANO e ROSSO

PARABOLANO.
75Siché, Valerio m’ha usati cotal termini?

ROSSO.
76Sinoch’io non mi dilletto di riportare, vi direi del’altri...

PARABOLANO.
77In galea lo mando!

ROSSO.
78Farete el debito vostro, perché non avete il maggiore inimico! Di non so che veleno che li comprò... Basta, che...

PARABOLANO.
79Certo?

ROSSO.
80Io non parlo senza quali. E anco, tra ragazzi e le puttane e ‘l gioco, non li puzano.

PARABOLANO.
81Domattina lo dò in mano dela Corte.

ROSSO.
82Di vostra madre, sorelle e casato parla come gli piace, e se non fussi perché le questioni non mi piaciono, dua dí sono gl’insegnavo a parlare dele cose vostre.

PARABOLANO.
83Va’ fidati poi d’un servitore, va’! Oh, oh, oh, oh! Rosso, piglia le chiavi d’ogni cosa e portale vertuosamente!

ROSSO.
84Io non son sufficiente, niente di manco fidel sarò io. Del’altre cose non ho invidia a farle a niuno, e non fo per avantarmi. Or lasciamo andare le cose coleriche, e punitelo si ha errato. Aloigia questa notte farà el debito, e io starò a denti secchi. Ma che glie direte voi in prima giunta.

PARABOLANO.
85E tu che li diresti?

ROSSO.
86Parlarei con le mani! Ma gli è un peccato che la non v’abbi a vedere in viso, perché non è donna in Roma che, quando passate, non si consumi di vedervi, e non faccio per adularvi, ma dico la verità. E s’io fussi donna, vorrei ch’adesso adesso mo mo mi facessi quella cosa. Ma se volete irvene a spaso sino a sera, la muletta è in ordine.

PARABOLANO.
87Voglio ire a piede, e faciamo la via de qua, che non ho altro piacere che di paralre teco.

ROSSO.
88Voi parlate con uno che v’è schiavo, signore, e fidel piú che la morte. Ma quando io penso ala vostra signora Laura, io stupisco dele sue bellezze. Ella è gratiosa, da ben, savia, virtuosa. Oh Cristo, l’è da voi certamente!

SCENA VII

VALERIO e FLAMINIO

VALERIO.
89L’amor del mio padrone è tutto tornato in mio danno. Egli m’ha dato licentia non altrimenti che s’io gl’avessi ucciso suo padre. È posibile che i signori diano cosí facile credenza ala pessime persone? Per Dio, che son inciampato in quello che sempre ho avuto paura. E’ gli è vero ch’i’ ho da vivere da commodo gintilomo e non mi saria discaro senz’altra servitú de ripossarmi. Pur, el mio duole partirme con disgratia del padrone, perché se crederà che sia causato per i mei trsiti portamenti. Siché, Flaminio, ci son guai per tutti.

FLAMINIO.
90Il mal mi preme e mi spaventa il peggio, disse el Petrarca. Io speravo qualche bene per el mezzo tuo, e ora mi cadi nele mani in pegiore sorte di me. Egli si sòl dire che in compagnia el mal si fa minore; ma ti giuro, Valerio, che per tuo amore a me è cresciuto.

VALERIO.
91Io voglio stare a vedere se questa fosse fernesia d’amore, ché son certo che l’è inamorato e dubito che questo non sia tutto invento di quel ribaldo del Rosso, che da poco in qua è sempre in secretto seco. Ma cosí gira el mondo!

FLAMINIO.
92Non correre a furia e usa là quel senno ch’hai sempre dimonstro, perché adesso ne va l’avanzo de tutto l’onore e l’utile del servigio tuo di cotanti anni.

VALERIO.
93Vate con Dio, che tosto ti saperò dire dove nasce la cosa.

SCENA VIII

TOGNA, moglie de Hercolano fornaro, e ALOIGIA

ALOIGIA.
94Tic, toc, toc, tic.

TOGNA.
95Chi è?

ALOIGIA.
96È Aloigia, figlia.

TOGNA.
97Io scendo. Aspettare!

ALOIGIA.
98Ben trovata, figlia cara.

TOGNA.
99Che volete voi, nonna?

ALOIGIA.
100Stanotte, a quatro ore, verai a casa mia, ch’io voglio pigliare un poco di sicurtà di te, con tuo utile.

TOGNA.
101Ahimè cativella, che ‘l mio amrito è intrato in cosí fatta gelosia ch’io non so dove mi sia. Pure...

ALOIGIA.
102Che pure? [che o] mei? Fa’ a mio senno e lascia ire le fanciullerie.

TOGNA.
103In capo dela fin, non posso mancarvi, e ci verò se io dovessi morire, ché merita ogni male el briacone.

ALOIGIA.
104Te ringratio; ma vien vestita da uomo, perché se fanno de matti scherzi la notte per Roma, e potresti dare in un trentuno, verbigratia. Oh, pensa ch’io ti metto in favore a mezza gamba!

TOGNA.
105Gran mercè. Basta, ch’io verrò; e Hercolano mio... anima sua, manica sua!

SCENA IX

HERCOLANO FORNARO, TOGNA sua moglie e ALOIGIA

HERCULANO.
106Che chiacchiere son le vostre?

ALOIGIA.
107Del’anima.

HERCULANO.
108Che conscientia!

TOGNA.
109Tu ‘l dovresti avere di gratia!

HERCULANO.
110Taci, troia!

TOGNA.
111Non se può favellare con le bonne donne?

HERCULANO.
112S’io piglio una pala...

ALOIGIA.
113Bon omo, l’Antonia mi domandava quando era la stazon a San Lorenzo extra muros.

HERCULANO.
114Coteste pratiche non m’hanno adare; siché andàtive con Dio e fati ch’io non vi truovi piú qui. E tu va’ su in casa, ch’al corpo ch’io non dico...

TOGNA.
115In tua malora!

SCENA X

HERCULANO solo

HERCULANO.
116Chi ha capre ha corna! Questa manigolda dela mia donna non è di peso. Io mi sono accorto che la va la notte alle sue consolatione, e non mi acieca tanto il vino ch’io non vega ch’io son da Corneto; e questa Aloigia m’ha cavato di dubio. Io voglio fare el briaco al naturale come torno a casa, e chiariròmi s’io son pur da Cervia!

SCENA XI

HERCULANNO e TOGNA

HERCULANO.
117Vien giú, sfacendata! A chi dico io? Togna!

TOGNA.
118Che te piace?

HERCULANO.
119Non m’aspettare a cena.

TOGNA.
120Non fu mai piú!

HERCULANO.
121Tu odi no?

TOGNA.
122Meglio faresti a stare a casa, ch’andare dietro ale zambracche e ale taverne.

HERCULANO.
123Non mi rompere el capi. Fa’ che’ ‘l letto si facci adeso, che possa ripossarmi com’io vengo.

TOGNA.
124Sempre mi tocca a mangiare con la gatta! Il diavol non volse che tu t’imbattesse a una che t’avessi fatto quel che tu meriti; ma io so’ troppo bona.

HERCULANO.
125Non mi stare a civittare su per le fenestre.

TOGNA.
126Il lupi mi mangierano.

HERCULANO.
127Basta. Tu [l’]hai intesa, io vado.

TOGNA.
128(Col malanno! Ma a fare, a fare vaglia! Chi done bocche baccia, una conven che li puta. Tu col vino io con l’amore. E le porterai se crepassi, geloso imbriaco!)

SCENA XII

PARABOLANO e ROSSO

PARABOLANO.
129Chi sa che la luna e che ‘l sole non siano inamorati di lei?

ROSSO.
130Poria molto ben essere, perché la luna e il sole hanno la luxuria in sommo.

PARABOLANO.
131Io temo che la casa che l’alberga, [i] vestimenti che l’ornano e il letto che la aloggia e l’acqua che la lava e i fiori che la odora non possedono l’amor suo.

ROSSO.
132Voi sète molto pauroso (o domin fallo...) che Cupido pigli per capegli l’aria e la terra!

PARABOLANO.
133Dio voglia ch’io menta. Or torniamo in casa nostra.

SCENA XIII

GRILLO solo

GRILLO.
134Ah, ah, ah!... Risa, di gratia, lasciatemi favellare! Ah ah, ah!... Io ve ne prego! Messer Maco, ah, ah!..., Messer Maco è stato in le forme et ha vomitato l’anima. E l’han raso, vestito di novo, profumato e fatte mille ciance; e ce dice cose, cose, che faria ralegrare la maninconia, e vuol tutta Roma per sé e le signore e le signorie. E quella bestiaccia di maestro Andrea li fa credere cose che fariano bugiardo il Vangelio; e mesere parla per mi e per si come un bergamasco e usa vocaboli che non l’intenderebbe l’interpetre. Ma s’io vi volessi contare di punto quel che dice, bisognaria avere la memoria d’un ricordo! Basta, ch’e’ mi manda per marzapanni, e vuol di quelli di Siena; ma io voglio andare a fare cosa che piú m’importa e aspettarà el corbo! Mi era scordato: maestro Andrea ha uno specchio concavo che monstra li òmini al contrario, e com’e’ esc[e] dela stupha vogliono che si specchi dentro, che lo farà disperare. Ma stati voi a vedere, ch’io per me l’ho dietro!

SCENA XIV

ROSSO solo

ROSSO.
135Maledetto sia..., presso ch’io non l’ho detto! O può far Cristo ch’apena possa bere un tratto, che mi bisogna trottare per Aloigia e son fatto solicitatore in la causa di quello amorbato di Cupido? Basta che mi prometta il magistrato di casa..., che vorrei inanzi essere nihil che magistro di casa. Forse che son ben voluti? Ne cognosco uno che presta denari a usura al suo padrone e son di quei medesimi ch’al padrone ha robbati. E sappiate che la robba che loro danno ale puttane sono i bocconi che furano ale nostre fami. E si non fosse per amore del magiordomo di Clemente, che fa fallir la regola, al cul de Dio ch’io cantarei di soprano! Ma dove sarà ita questa fantasma d’Aloigia?

SCENA XV

ROMANELLO GIUDEO e ROSSO

ROMANELLO.
136Ferri vecchi, ferri vecchi!

ROSSO.
137Sarà meglio ch’io ne facci una a questo giudeo, come al pescatore.

ROMANELLO.
138Ferri vecchi, ferri vecchi!

ROSSO.
139Vien qua, giudeo! Che vòi tu di questo saio?

ROMANELLO.
140Pròvetelo, e se ti starà bene, sarem d’acordo.

ROSSO.
141Metti su, ch’io voglio una bolta uscire di cenci.

ROMANELLO.
142Depinto! E’ pare fatto a tuo dosso.

ROSSO.
143Al prezzo?

ROMANELLO.
144Dieci ducati.

ROSSO.
145Cava giú.

ROMANELLO.
146Che vòi darmi tu?

ROSSO.
147Otto scudi, e toglierò questa cappa per un mio frate Araceli.

ROMANELLO.
148Io son contento, se tu comperi la cappa per tuo fratello; e perché tu vega se l’ha del panno assai, me la voglio provare.

ROSSO.
149Non mi dispiace vedere come la torna bene indosso.

ROMANELLO.
150Aiutami: da’ qua el cordone e lo scapulare. Che te ne pare?

ROSSO.
151La mi piace: l’è di panno fine e quasi nuova.

ROMANELLO.
152Novissima, e fu del cardinale Araceli in minoribus.

ROSSO.
153Volta indietro per vedere come la fa dele crespe a iosa.

ROMANELLO.
154Eccomi!

SCENA XVI

ROSSO che fuge col saio e il GIUDEO dietrogli, da frate

ROMANELLO.
155Al ladro! Al ladro! Tenetelo! Pigliatello! Al ladro! Al ladro!

SCENA XVII

SBIRRI, ROSSO, ROMANELLO

SBIRRO.
156State saldo, ala Corte! Che cosa è?

ROSSO.
157Questo frate è uscito d’una taverna e corremi dietro come un pazzo, e io, per non fare questione con sacerdoti, piú tosto ho voluto fugire.

ROMANELLO.
158Signor capitano, costui m’ha giuntato! Io son Romanello giudeo che...

SBIRRO.
159Ah, sacrilegio ribaldo! Tu vai con le cappe sagrate per dellegiare cristianni? Mettetelo nella segretta, compagni!

ROMANELLO.
160Questa è la ragion che se fa?

ROSSO.
161Capitano, se Vostra Signoria non fa dimonstratione, io sto con tale che ve ne pentirete, ché non s’ha però a fare tal vilanie a chi va per i fati soi.

SBIRRO.
162Non dubitare che pagherà lo scotto e li faremo uscire el vin del capi con quatro tratti de corda.

SCENA XVIII

ROSSO solo

ROSSO.
163L’Armelino, che dà questo ufficio, ha il torto a non darli la referma per dieci anni a costui, perché conosce uno mariuolo benissimo. Oh, oh, che cose ladre se fanno in questa Roma porca! Dio è pur paciente a non gli mandare un dí qual[che] gran flagello. Me, che merito le forche per antipasto, costui ha lassato andare; e il povero Romanello ha perdutto el saio et è in prigione, e paguerà altro che ciance! Ma bisogna avere buona sorte al mondo. Ora a ritrovare la vecchia, alegramente!

SCENA XIX

MAESTRO MERCURIO, MAESTRO ANDREA, MESSER MACO

MAESTRO ANDREA.
164Gli è cento anni, o meno, che mai non fo visto el piú bello di Vostra Signoria.

MAESTRO MERCURIO.
165Per Dio, che avete un grande obligo con la natura: de’ maestri e dele forme.

MESSER MACO.
166Ah, ah! Mostratemi lo specchio, ch’io mi sento diventato un altro! O che pena ho io patito! Ma io sono cortigiano e guarito. Date qua lo specchio... Ohimè, o Dio! Io sono guasto, io son disconcio, io son morto! O che bocca, o che naso! Misericordia, vita, dulcedo... et verbum caro factum est!

MAESTRO MERCURIO.
167Che accidente è questo? Duolvi il corpo?

MESSER MACO.
168Io disfatto! Io non sono io! Regnum tuum... panem nostrum... Taditori, voi m’avete scambiato nelle forme. Io vi accusarò per ladri! Ladri visibilium et invisibilium!

MAESTRO ANDREA.
169Gli orationi non vi possono se non giovare; ma bisogna gittarsi per terra? State su e specchiativi bene!

MESSER MACO.
170Malandrini, rendetemi el mio viso e toglietevi il vostro, che, s’io guarisco, fo voto de dire un mese li salmi pestilentiali.

MAESTRO ANDREA.
171Molto bene; ma guardatevi nel specchio un’altra volta.

MESSER MACO.
172Non farò!

MAESTRO ANDREA.
173Sí, farete!

MESSER MACO.
174Laudate pueri Dominum! Io sono in fatto raconcio el piú bel che mai.
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O stellutia d’amore, o angel d’orto,
viso di legno e faccia d’oriente...

MAESTRO MERCURIO.
175V’alegrate con le musiche? O che voce!

MESSER MACO.
176Io voglio tutte le signore adesso ora! E voglio farmi papa e inchiavellare la Camilla ora ora! Spacciatemi, ch’io ho fretta.

MAESTRO ANDREA.
177Maestro Mercurio, andatevi a spasso e domani andate al capsieri de’ Chisi, che vi saranno contati i denari per comissione de messer Maco.

MAESTRO MERCURIO.
178Cosí farò, e a Vostra Signoria baso le mani.

SCENA XX

MAESTRO ANDREA e MESSER MACO

MESSER MACO.
179Io dico che voglio richiavare la signora in casa, dico!

MAESTRO ANDREA.
180O non volete tòrre panni piú dextri?

MESSER MACO.
181Che dextri, o cacatori? Io dico: «la signora»!

MAESTRO ANDREA.
182Non tanta furia! Andiamo in casa e pigliaremo la spada e la cappa, e poi andaremo ala signora, ché di notte in Roma non se usano queste toniche.

MESSER MACO.
183Andiamo, ché m’è intrato il diavolo adosso.

SCENA XXI

ALOIGIA e ROSSO

ROSSO.
184Toc, tic, toc. Aloigia?

ALOIGIA.
185Adesso io t’avevo fra’ denti, ma, per dirti la cosa...

ROSSO.
186Che? Non c’è ordine?

ALOIGIA.
187...la Togna d’Erculano...

ROSSO.
188Che? Non vuol venire?

ALOIGIA.
189...parlandoli un’ora fa, el suo marito ce trovò...

ROSSO.
190S’è donche accorto che...?

ALOIGIA.
191Non dubitare. Di’ pure al signor che si metta in punto, che ale cinque ore ha da rompere doe lanze. Siché va’, e fagli intendere la trama; e a Sua Excellentia mi reccomando. A Dio!

ROSSO.
192Va’ in ora buona. E io anderò di qua, per non rincontrare il padrone. Ma eccolo, a mio dispetto.

SCENA XXII

PARABOLANO e ROSSO

PARABOLANO.
193Ben, che dice?

ROSSO.
194Per non vi tenere su la corda, a cinque ore ven l’amica, siché piglia[te] cose confortative.

PARABOLANO.
195L’è pur da ben, la Aloigia!

ROSSO.
196La piú amorevole donna che sia al mondo.

PARABOLANO.
197Ma io sarò consumato ale cinque. Ma pàrte che le suonano? Odi Rosso: una..., dua...

ROSSO.
198Apunto! Sono le campanelle!

PARABOLANO.
199Vero, ma che faremo in questo mezzo?

ROSSO.
200Un poco di colazione?

PARABOLANO.
201Che voglia!

ROSSO.
202Ben sapete ch’io non voglio essere frate del piombo.

PARABOLANO.
203Deh, ragionamo di Laura!

ROSSO.
204Deh, mangiamo un poco e beviamo doi tratti a cavallo a cavallo.

PARABOLANO.
205Io mi pasco de rimembrare la mia donna, né con altro cibo bramo assolvere il digiuno mio. Ma son per contentarti. Andiamo!

ROSSO.
206Grates vobis! Se voi avessi fame, le rimembranze ve si scordarebbono.


ATTO QUINTO

SCENA I

VALERIO solo

VALERIO.
1Or mi sono io chiarito d’un gran forse. Se ‘l padrone è meco in collera l’ho visto nela fronte a tutta la sua famiglia. Oh, oh, oh, oh! È possibile che in Corte non si veggia volto se non finto? Io adesso adesso era tenuto quasi padrone e ognuno mi laudava per savio, da bene, liberale e adorato da tutti; e ora non mi conosce nissuno e ogni omo dice la sua di me, e quelli ho sempre sempre favoriti e del mio aiutati sono i primi a offendermi. E ‘nsomma le mura di queste stanze mi hanno vòlte le spalle. O felice fortuna, tu hai pure deli amici, e tu, trsita sorte, de inimici! Ma che farò io? Chi mi consiglierà? Nisuno. So ben che, s’io volessi affogarmi, che trovaria chi mi ligarebbe un sasso al collo. Orsú, che Dio è di sopra, e la ragion e la inocentia può assai. E’ delibero conferire questo caso con mosnignor di Ravena, che pochi pari soi sono in Corte, e son certissimo che mi darà aiuto e consciglio fedelmente.

SCENA II

HERCULANNO, imbriaco, e TOGNA

TOGNA.
2Io sto qui in su l’uscio per vedere se ‘l mio marito bufalo ritornassi. E che gli rompa la coscia! Gli è già notte e non comparisce! Me debbe essere questo.

HERCULANO.
3Mo… mo… mostrami la po… po… porta da ca… ca… casa. Oh, la fi… fi… finestr[a] balla, ah, ah, ah! To… Togna tien… tienmi, che io non ca… caschi nel Te… Te… Tevere; ah, ah, ah!

TOGNA.
4Dio il volessi, che inacquaresti el vino ch’hai tracannato, gaglioffone!

HERCULANO.
5Io non so… so… sono imbriaco, no. Io dor… dormo; il cu… cu… culiseo è… è sul mio letto; mènemi su pre… presto, che dormirò da nol destare le bombarde dal dí iudicio!

TOGNA.
6Va’ su, porco, che tu sia tagliato a pezzi!

SCENA III

MESSER MACO e MAESTRO ANDREA

MESSER MACO.
7Sono io esso, maestro?

MAESTRO ANDREA.
8Cosí non fussi!

MESSER MACO.
9Chiachiere! Io dico inchiavestellare la signora, dico!

MAESTRO ANDREA.
10Adagio!

MESSER MACO.
11Voi mi farete con la spada. Potta, che sí, ch’io chiàvola.

MAESTRO ANDREA.
12Temprate la collera. Ecco la porta. Tic, toc, tic, toc.

MESSER MACO.
13Bussate forte. Apri, ch’al corpo de…

SCENA IV

BIASINA FANTESCA, MAESTRO ANDREA e MESSER MACO

BIASINA.
14Chi è?

MESSER MACO.
15Sono io, sono, hce voglio entrare su e dormire con la signora!

BIASINA.
16L’è accompagnata.

MESSER MACO.
17Cacciàtelo fora, altramente, porca vaca!

BIASINA.
18Voi dovete essere qualche vilanno, ché coteste parole non son da gintilomo.

MAESTRO ANDREA.
19Apri, Biasina, che messere non se corruccia.

BIASINA.
20(Dele tue, becconaccio!) Io tiro la corda. Entrate!

MESSER MACO.
21Ve’ ch’apristi ancora, Marfisaccia di merda!

SCENA V

HERCULANNO, con i panni dela moglie indosso

HERCULANO.
22La putana, la putana! A’ fratelli la vo’ rendere! Ve’ che ci l’ho colta, la ribalda! Povero a me, forse ch’io li lascio mancare niente dela mia povertà? S’io dovessi agirare tutta la notte, so’ per torvarla e segarli le vene della gola. Oh, oh, oh! M’ha lasciati i soi panni a pie’ del letto e non ho potutto accorgermene a ora. Che la non sia uscira da casa con i miei vestimenti indosso? Ma tu fugirai come omo e io te seguiterò come donna; e voglio ire de qua, anzi de qui. Sarà meglio a fare la via per Borgo Vecchio, anco da Santo Spirito. Credo che da Campo Santo mi darà in le mani. Ma sarà meglio di qua giú, perch’ella è uscita per la porta dietro.

SCENA VI

PARABOLANO e ROSSO

PARABOLANO.
23È pur cosa strania l’aspettare.

ROSSO.
24Maxime quando ci solciita la fame.

PARABOLANO.
25Sta queto. Una…, dua…

ROSSO.
26Io credo ch’ogni campanna che suona vi paia oriolo. E’ sona a morto per madonna Onesta e voi noverate l’ore. Ma odite… una…, dua…, tre… e quatro… e un quarto. (Ma tu te sfamarai pur, e questo ser Cupido ribaldo!)

PARABOLANO.
27C’è anche un anno!

ROSSO.
28Siano doi, ch’io per me non son per stare piú a questo sereno, perché tira un vento che me amazza, e l’amalarmi non mi va a proposito niente. Donne poltrone, che non ve contentariano i denari, che si cavano la voglia d’ogni cosa!

PARABOLANO.
29A[n]diamo dentro, ch’io ti voglio sanno, il mio Rosso!

SCENA VII

VALERIO solo

VALERIO.
30Veramente messer Gabriel Cesano e messer Joan Thomaso Manfredi ha rason di lodare questo vescovo di Cremona, perché molto piú che non si conta per ognuno è la sua cortesia. Io li ho comunicato le mie nove, e la minore proferta è stata i denari. E’ gli è peccato ch’e’ gli sia prete e stia in questa Corte infernale, dove che, dele migliara che se ne vede, el ce ne sono poi un paro buoni: il reverendissimo datario e Ravena. Gli altri, guarda e passa! O Corpunisce li vitii e tu li adori e reverisci… Ma questo non mi giova! Io voglio trovare el mio padrone e lo troverò solo per Roma, perché io so le pratiche sue e li parlerò inanti ch’io dorma, e saperò dove nasce il mal mio.

SCENA VIII

MAESTRO ANDREA e ZOPINO

MAESTRO ANDREA.
31Zopino, questa comedia m’è venuta a noia, perché costui è la sciochezza in carne e in ossa, e non ne piglio piú piacere. Però assaltiamolo e scambiamo prima le cappe.

ZOPPINO.
32Da’ qua la tua, e togli la mia.

MAESTRO ANDREA.
33E caciàt[o]lo di casa, dormiremo con la Camilla. Tic, toc. Aprite qua giú. Ah, traditore, tu sei morto, vigliacco, poltro! Sta pur saldo!

SCENA IX

MESSER MACO, che si getta da un[a] fenestra in camisa

MESSER MACO.
34Misericordia, io son ferrito dietro! Io ho un buco dietro! Ala strada, corrite, ch’io son morto! Dove fug’io? Ov’è la casa? Ohimè, ohimè!

SCENA X

PARABOLANO e ROSSO

PARABOLANO.
35Che romore è stato quello?

ROSSO.
36Gente che va cianciando.

PARABOLANO.
37Son anche le cinque?

ROSSO.
38Ch’avete voi, che sète cosí palido?

PARABOLANO.
39El foco di dentro causa questa palidezza di fuora.

[ROSSO.]
40(Tu lo spegnerai pur questo foco, traditore!)

PARABOLANO.
41Io temo che ala sua presenza non potrò dire parola.

ROSSO.
42Anzi, doverete cicalare come un mercato!

PARABOLANO.
43Amor a una gintil cosa toglie l’ardire.

ROSSO.
44Amor caca! E’ gli è ben poltron un uomo ch’ha paura a parlare a una femina. Ecco Aloigia che trotta come una ladra.

PARABOLANO.
45Ohimè!

ROSSO.
46Che diavol sarà?

PARABOLANO.
47Dubito che la…

SCENA XI

ALOIGIA, PARABOLANO e ROSSO.

ALOIGIA.
48Signore, Laura, per mia gratia, è in casa di Aloigia, e v’aspetta tutta paurosa. Vostra Signoria observi la fede, e non si curi cosí per la prima volta vederla contra sua voglia, perché l’è tanto vergognosa che si mori[i]a. E fati l’opera presto, perché suo marito è andato a un suo casale stasera e qualche volta torna la notte, e sería ruinata.

PARABOLANO.
49Prima trarrei gli occhi a questa fronte ch’io gli dispiacessi!

ALOIGIA.
50Spasseggiatevi un poco e poi entrate in casa mia.

SCENA XII

PARABOLANO e ROSSO

PARABOLANO.
51O notte beatissima, a me piú cara che ale ben ante anime l’aspetto del mirabil Dio! O mia benigna stella, qual mio merito t’inchina a farmi dono di cotanto thesoro? O fidel servo mio, quanto ti son io obligato…

ROSSO.
52(Or cosí, lodami un poco!)

PARABOLANO.
53…O angeliche bellezze dela fronte, del petto e dele mani, io ho de voi sí tosto a essere unico possesore. Bocca soave, dove amore stilla le dolcissime ambrosie, non ti degnerai tu ch’io, che son tutto foco, inmolli le mie indegne labia nelle dolcezze tue? O serene luci dela mia dea, non aluminarete voi la camera, siché vedere possa colei da cui la mia vita e morte depende?

ROSSO.
54Questo è stato un gran proemio.

PARABOLANO.
55Non faccio mio debito a lodare la mia donna e el ciel di cotanto dono?

ROSSO.
56Non, a mio giuditio, perché odio piú le femine che l’acqua el vino.

SCENA XIII

ALOIGIA, PARABOLANO e ROSSO

ALOGIA.
57Signore, piano, venite queto, datemi la mano.

PARABOLANO.
58O Dio, quante quante grazie vi rendo, Aloigia e Rosso.

SCENA XIV

ROSSO solo

ROSSO.
59Va’ pur là, che mangerai di quella vaca che fai mangiare a noi poveri servitori tutto l’anno! E bel sería che qualche assasino fussi là dentro e tagliàssiti in mille pezzi, ladron acciò che tu avessi quel de’ cani!

SCENA XV

ALOIGIA e ROSSO

ALOIGIA.
60E’ gli è seco in camera e fremita come un stallon c’ha visto le cavalle, e sospira e piagne, fa inchini con tante Signoria che non ha tante la Spagna al Seggio Capuano, e gli promette di farla duchesa di Campo Salino o dela Magliana.

ROSSO.
61S’io me delettassi, aría trattato da signore il padrone con farli la credenza! Ma ragionamo in sul saldo; quante limosine fai tu l’anno di questa sorte, che i traditori meritano anche peggio?

ALOIGIA.
62Le migliaia ne faccio. Eh, aría facenda a trovare le romanesche a ogni scempio! E forse ch’ogni vilanno c’ha un poco di ciambellotto intorno, non fa el monsignore, e subito vuol ch’io gli conduca le gintildonne? E io con le fornare gli sfamo e son trapagata come fussino reine, goffi ribaldi! Ma che pensi tu?

ROSSO.
63Penso che domani esco di tinello, se già la cosa non si scopre. E se la si scopre, che sarà? Io ho fatto animo, che son certo che merito le forche, per l’assassinamento ch’io faccio al padrone, e non ci penso!

ALOIGIA.
64Che omo terribile!

ROSSO.
65Non mai conobbi altra paura a’ mei dí, che del tinello.

ALOIGIA.
66Adonque il tinello impaurisce un sí gran braccio?

ROSSO.
67Se tu vedessi una volta apparechiata una tavola in tinello e avessi a mangiare le vivande che vi son suso, tu moriresti di paura.

ALOIGIA.
68Non mai piú li attesi.

ROSSO.
69Come tu entri in tinello, e si’ di chi vuole, ti si apresenta agli occhi una sí obscura tomba, che le sepolture son piú alegre, e di state bollano per el gran caldo e di verno ti fanno aghiacciare le parole in bocca e con continuo fetore e sí fiero, che torrebbe l’odore al zibetto. E non vien da altro la peste, che, come se serassino i tinelli, Roma sarebbe subita sanata dal morbo.

ALOIGIA.
70Misericordia!

ROSSO.
71La tovaglia è de piú colori che un grembiule da dipintori e lavata nel sevo dele candele di porco che avanzanno la sera; ancora che ‘l piú dele volte si mangia al buio; e con panne di smalto, senza potersi mai nettare né bocca né mani, si mangia dela madre di San Luca a tutto pasto.

ALOIGIA.
72Donque si mangia dela carne de’ santi?

ROSSO.
73E de’ crocefixi! Ma io dico dela madre di San Luca, perché se dipinge bue e la madre è una vaca.

ALOIGIA.
74Ah, ah, ah!

ROSSO.
75E quella vacca è più vecchia che l’Imprincipio, cotta sí manigoldamente che faria fuggire la famme al’abstinentia.

ALOIGIA.
76Se doverian vergognare!

ROSSO.
77Matina e sera sempre dela medesima vacca, e fa un brodo che la liscia sarebbe un zucaro.

ALOIGIA.
78Eh, eh!

ROSSO.
79Non vomitare, che c’è peggio: cavoli, navoni e cucuzze sempre in minestra; dico quando si getton via, altrimente non cipensare! È vero che ci ristorono e frutti doi tagliature di provatura, che ci fanno una colla in su lo stomaco che amazaria una statua.

ALOIGIA.
80Iesus!

ROSSO.
81Mi ero scordato la Quaressima. Odi questa: tutta la Quaressima, ci fanno digiunare. Forse che la matina ci tratton bene? Quatro alice o diece sarde marce e vintecinque telline che fa[ria]no disperare la fame, che per stracchezza si satia, e una scodella di fava senza olio e senza sale, poi la sera cinque bocconi de pane che guastarebbono la bocca a’ satiri.

ALOIGIA.
82Oh, oh, oh, oh! che ribaldaria!

ROSSO.
83Vien por la state, che l’omo apetisce i luoghi freschi, e tu entri in tinello dove ti asalta un caldo creato in quelle sporcherie d’ossame coperte di mosche, che spaventaria la rabbia, nonché l’apetito. El vino di pot ti ristora? Per mi’ fe’ che è meno stomachevole una medecina! È adacquato di acqua tepida, stata un giorno in vasi di rame, che penso l’odore del vasi ti conforta tutto.

ALOIGIA.
84Lordi gaglioffi!

ROSSO.
85Accaderà in cento anni fare un bancheto, e ci avanza colli, piedi e capi di polami e altre cose, de quale c’è dato parte; ma sonsi prima da tante mani anoverate, che doventano piú succidi che non è la cappa di Giuliano Leni su da collo. Quanto c’è di buono? La galenteria degli ufficiali, tutti sgranciossati e tignosi; e se ‘l Tevere gli corressi dietro, non sariano per lavarsi le mani. Ma vòi vedere se stiamo male? Le mura sempre piangono, che pare gl’incresca la miseria de chi vi mangia.

ALOIGIA.
86Tu hai mille ragione d’avere paura de’ tinelli.

ROSSO.
87Veneri e sabati sempre ova marce, e con piú miseria che se le fussen[o] nate alora alora. E quel che ci fa piú renegare Idio è la indescretione delo scalco, che, apenna avemo fenito l’ultimo boccone, che ci caccia col despettosso suono dela bacchetta, e non vuol mai che finiamo il pasto con le parole, poiché col cibo non è possibile.

ALOIGIA.
88E forse ch’ognuno non corre a Roma per acconciarsi? O che crudeltà son queste? Ma ascolta! Og sventurati, oh disffatti! Romore è in casa mia! Sempre n’ho avuto paura! Ohimé, ruinati siamo! Lasciam[e] ire a vedere che cosa è.

SCENA XVI

ROSSO solo

ROSSO.
89Io son piú ruinato ch’una anticaglia. Dove anderò io, che non mi gionga? O che romore! Egli l’amaza, e la fornara e la roffiana! A remidiare!

SCENA XVII

PARABOLANO solo

PARABOLANO.
90Io sono el piú vituperato uomo del mondo, e stammi molto bene poich’io mi sono cosí lasciato menare da una roffiana e da un famiglio. E forse che non mi son riso di quella burla di messer Philippo Adimari, che, cavando i fondamenti dela casa che e’ gli fa in Transtevere, gli fu detto che sul vespero vi era stato trovato quatro statue di bronzo: ond’egli in sotana, a piedi e solo, corse a vedere come un pazzo, e non ritrovando nulla restò come ora son rimaso io a questa burla? E quanto noia ancora h[o] dato a messer Marco Bracci fiorentino di quella imagine di cera che trovò sotto el capezalle, messagli da Piero Aretino? Imaginandosi che la fussi una malia, fece mettere ala corda la signora Marticca, credendosi che, essendo la notte dormita seco, gli avessi fatto tal factura per troppo amore. Cosí m’ho preso piacer de’ dieci siroppi che prese messer Francesco Tornabuoni, sendoli dato a intendere che aveva il mal franciosco. Ma chi non riderà? E tu, Valerio, da me a torto cacciato, dove sei? Adeso cognosco io ch’un servitore intende el vero.

SCENA XVIII

VALERIO e PARABOLANNO

VALERIO.
91Signore mio, ecco qui Vlaerio, vostro servitore e, volete o no, da voi ricognosco quel ch’io sono e mi dolgo dele pessime lingue e dela maligna sorte mia, che senza causa mi vi ha messo in disgratia.

PARABOLANO.
92Valerio, la colpa è d’amore che, contro al mio costume, m’ha fatto credere troppo. Non ti dolere di me.

VALERIO.
93Io mi dolgo dela natura di voi signori, che cosí facil credenza date agli asentatori e maligni, e senza odire il biasimato absente, sbandite ogni fedele e giusto omo dela gratia vostra.

PARABOLANO.
94Deh, gratia! Perdona ad uno inganno che m’è stato fatto dal Rosso, il qual m’ha menato a solazarmi con una poltrona in cambio d’una gintildonna de Roma, la qual è regina dela mia vita.

VALERIO.
95Donque per le ciance de un pari del Rosso un sí gintil omo si lascia desviare nele mani d’una ruffiana publica, dove pur adesso t’ho visot uscire, e per le parole del Rosso cacci uno che cotanti anni ti è stato servitore ob[e]dientissimo! L’è pur una gran disgratia de voi signori, che ciechi di giudizio, per un vano apetito, ve date in preda a un tabachino, sigillandoli ogni menzogna per il Vangelio!

PARABOLANO.
96Non piú! Ch’io mi vergogno d’essere vivo e delibero amazare la giovene e la vecchia in questa casa.

VALERIO.
97E questa sería vergogna sopra a vituperio. Anzi, vi prego, l[e] faritti escan fora e ridendo ascoltiamo la burla che v’è stata fatta con nova arte, e che poi siate el primo a contarla, acciò che piú presto si domentichino le tue gioventudini.

PARABOLANO.
98Tu di’ saviamente. Aspetami qui.

SCENA XIX

VALERIO solo

VALERIO.
99Non m’indovinai io che ‘l Rosso era stato? E infin bisogna pregare Cristo, altrimenti uno che mette in preda d’una gran donna è padrone de’ padroni e può fare ciò che vuole, come el proprio signore.

SCENA XX

PARABOLANO, TOGNA, ALOIGIA e VALERIO

PARABOLANO.
100Sich’in sogno m’è stato cavato di bocca ch’io erra inamorato, e il Rosso è stato l’autorre de vituperarmi?

ALOIGIA.
101Signorsí, e mi reccomando a Vostra Signoria perché l’essere troppo compassionevole e bona m’ha fatto errare…, uh, uh, uh!

PARABOLANO.
102Oh, tu piangi! Per Dio, ch’io ho a rifarti!

ALOIGIA.
103Per vedervi stare sí mal d’amore e dubitando che per troppo amore voi non amalasti, presi questo partito.

VALERIO.
104Per Dio, che la merita perdono, poiché l’è sí pietosa e ingeniosa che gli basta l’animo fare cosí ingeniosse opere.

PARABOLANO.
105Ah, ah, ah! Sono io el primo?

ALOIGIA.
106Signornò.

PARABOLANO.
107Ah, ah, per Dio, ch’i’ mi voglio mutare di proposito e ridermi di questa cosí ladra burla e dela mia pazzia! E stammi benissimo ogni male, che non ci dovevo venire; e Aloigia ha fatto el debito suo.

VALERIO.
108Or vi conosco io savio. E voi madonna, state cosí malinconosa e sètevi rigrandita a solazare con sí gran maestro.

TOGNA.
109Ohimè, ch’io son stata tradita e menat[a]ci per forza con questi panni del mio marito.

ALOIGIA.
110Tu non dici el vero!

SCENA XXI

HERCULANO, TOGNA, ALOISIA, VALERIO e PARABOLANO

HERCULANO.
111Ahi, putana, pur ti trovai! Ahi, porca! Non me tenete!

PARABOLANO.
112Ste caldo! Non fare! Tirati indietro! Tu sei vestito da femina. Ah, ah!

HERCULANO.
113La mia moglie, la vo’ castigare!

TOGNA.
114Tu menti!

HERCULANO.
115Ahi, ribalda! A questo modo io ti paio omo da corna, che servo Lorenzo Cibo e tutti i cardinali di Palazzo!

TOGNA.
116Che è, poi, si son ben la tua!

HERCULANO.
117Lassatemi! Non me tenete! Io la voglio scannare! A Herculano si fanno le corna?

VALERIO.
118Gli è el fornaro di Palazzo. Ah, ah! Sta’ indietro, sta’ fermo, remetti l’arme!

PARABOLANO.
119Questa novella scoppia se la non finisce in tragedia. Ma Herculano e Togna, state in pace, ch’anch’io so’ in questo ballo e voglio ch’a mie spese s’acconcino le inemicitie, e io ne vado bene poiché non sète peggio che fornaia!

HERCULANO.
120Pur che la torni, io gli perdono!

TOGNA.
121E io farò quel che piace qui al signor.

SCENA XXII

PARABOLANO, MESSER MACO in camisa, VALERIO, HERCULANO, ALOIGIA

MESSER MACO.
122Gli spagnoli, gli spagnoli!

PARABOLANO.
123Che romore è questo? Che cosa è?

MESSER MACO.
124Gli spagnoli m’hanno ferito! Ladri, bestie, furfanti!

PARABOLANO.
125Che vuol dire questo, messer Maco? Siate voi fuora de’ gangheri?

MESSER MACO.
126I traditori m’hanno fatto un buco dietro con la spada!

VALERIO.
127Ah, ah, ah, ah! Che favole d’Orlando e de Isopo! Vàdasi a riporre el Poggio cole Facetie!

PARABOLANO.
128Dite su, che cosa è? Ancora oggi eravate dietro a queste pratiche!

MESSER MACO.
129Io mi fussi…! Ora io vi voglio dire. Maestro Andea m’aveva fatto cortigiano novo el piú bel de Roma e, come el diavol volse, mi guastai in le forme e, come piacque a Dio, poi ch’io fui guasto, mi refece e raconciòmi benissimo; e, come fui rifatto, volevo fare a mio modo et era onesto, e andai in casa a una signora e, spogliatomi per andare secco a dormire per sguazzare, gli spagnoli mi volloro amazzare e io saltai dala fenestra e m’ho avuto a rompere le gambe, sapete, mesere.

VALERIO.
130Bene è vero che Domenedio aiuta i putti e i pazzi. Donque, essendo guasto, in Roma avete trovato chi v’ha riconcio?

MESSER MACO.
131Al piacere vostro, mesersí!

VALERIO.
132Quanta piú ventura che senno avete avuto! Quanti de piú qualità de voi ne vengono a Roma acconciatamente, che disfatti e fracasati, ritornono a casa loro! Non si pon mente a virtú e qualità niuna, anzi non si attende ad altro che guastare gli aconci òmini e rovinarli per sempre.

PARABOLANO.
133Ah, ah! Valerio, meniamo questo a casa con questa istoria ch’io voglio che ce n’abiamo un altro pezzo di piacere. E’ scoppio del riso che mi viene a sentire le ciance che c’inter[v]engono. E domatina dirai la cosa per ordine a Pattolo, omo dotto e argutto, e pregalo per parte mia che ne componga una comedia.

VALERIO.
134Lo farò. Di gratia, Madonna Aloigia, dentro in casa, ché ‘l signore vole essere nostro a ogni modo.

ALOIGIA.
135Servitrice di Sua Signoria, e lo ristorerò.

VALERIO.
136E voi, moglie de messer Hercolano, entrate con ALOIGIA. E tu, Hercolano, piglia el panno per il verso e tienti in visibilium le corna, perché le s’usano oggidí per magiori maestri. E se tu fussi cronichista, sapresti che le corna vennero dal cielo, e Moises le portò, ch’ognuno le vidde. Dipoi, la luna è cornuta, e stassi pur in cielo. Sono cornuti i buoi, che ci fanno tanto bene per arare. Cornuto piacque quel modesimo el cavallo Bucefalas, et fu tanto caro ad Alexandro per il corno che l’aveva nel fronte. L’alicorno non è pretioso per il corno che tien nella fronte contra veneno? E ‘nsoma, l’arme del Soderino e de Santa Maria in Portico, non son tutte corna? Siché abbiale per onorevole cosa, come i cimieri. Et anche te ricordo che le donne con doe belle corna andavano a marito, perché Domenedio di sua mano ne ornò, come ho detto, il capo a Moises, e fu il maggiore amico ch’egli avessi nel Testamento Vecchio.

HERCULANO.
137Io non so tante cose. Venissino mo dal Limbo, ch’io non mi curo; e cognosco signori che l’hanno piú longhe ch’e’ cervi; ma so ben questo, che cosí povero e disgratiato come me vedete, n’ho posto una dozina altrui. Ma di questa lasciamo vendetta a’ mia figlioli. Ora io entrarò, con vostra licentia!

PARABOLANO.
138E voi messer Maco, sète troppo pericoloso con le donne! E’ le son la roina del mondo e ne sanno piú che li Studii e con esse non averia pacientia un pilastro, che mille anni tiene una colonna adosso. Ma vèneti anche voi in casa mia, e domatina vi farò riavere ‘ vostri panni. Ma siate savio adesso, altrimenti le vi faranno impazire, le male femmine!

MESSER MACO.
139Io starò in cervello con le ribalde e voglio fare un poco di reputacione poich’io son cortigiano.

VALERIO.
140Or andiamo a consumare questa notte in riso, ch’anch’io ho piú leticia ch’io non mi pensavo. Brigate, se la favola è stata longa, io vi ricordo ch’in Roma tutte le cose vanno ala longa; e se la non v’è piacuta, l’ho carissimo, perché io non v’ho pregato che voi ci venessi. Pur, se aspettate cosí sino a questo altro anno, ne sentirete una piú goffa. Quando che voi abbiate fretta, a rivederci a Ponte Sixto!

FINIS