PROLOGO [E ARGOMENTO]
[ISTRIONE DEL PROLOGO]
1Io avevo imparato un certo proemio, diceria, sermone, filostoccola, intemerata o prologo che se sia, et vel volevo recitare per amor de un mio amico, ma ognum mi vuole in pasticci. Ma se voi siate savii, plaudite et valete.
[ISTRIONE DELL’ARGOMENTO]
2Come «Plaudite et valete»? Donque io ho durato tanta fatica a co[mp]orre questo argumento, servitiale, cristiero o quel che diavol si chiami, e ora vuoi ch’io lo getti via? Per mia fe’, che tu hai magior torto che ‘l campanile de Pisa e che la superchiaria.
[ISTRIONE DEL PROLOGO]
3Sta molto ben, posch’io ho ‘l torto. O corpo di me, p’art’egli onesto ch’a peticione d’una comedia io abbi ad essere crucifixo?
[ISTRIONE DELL’ARGOMENTO]
4Messernò, che non mi pare né giusto né onesto, né si cricifigono cosí per poco le persone.
[ISTRIONE DEL PROLOGO]
5Anzi, per niente. E che ‘l sia el vero, un messer Mario romanesco or ora m’è venuto a trovare e dice ch’io gl’ho detto che gli dà il portante ale puttane, e che per questo mi vuol fare e dire.
[ISTRIONE DELL’ARGOMENTO]
6Ah, ah, ah!
[ISTRIONE DEL PROLOGO]
7Tu hai un bel ridere, e io forse ne piangerò, perché non fu sí tosto partito il prefatto messer Mario, che mi asaltò Ceccotto genovesse, già sarto e ora astrologo, e dice ch’io ho detto che li Spagnuoli [non] sono da pié che ‘ Francesi, questa peccora! Messer lorenzo Luti ancora quasi cacciò mano a un coltello per darmi, con dire ch’io ho sparlato di lui, e detto che gli è un pazzo, sendo Sanese. Et una certa monna Maggiorina che racconcia l’ossa per Roma manda i gridi al cielo per esserli stato solo ripportato ch’io l’ho per una strega, e mille altre novelle. E non voglio che ‘l padrone habbia quista impressione di me, ché importano le impressioni assai, maxime nelle orrechi de’ gran maestri.
[ISTRIONE DELL’ARGOMENTO]
8Tu sei presso ala morte poiché stimi se le impressioni buone o cattive neli orrechi de’ signori possono o non, come e tu facessi un gran conto di dispiacerli. Tu aprezzassi già tanto la gratia loro, quanto ha aprezzato Girolamo Beltramo il Giubeleo! E ora stai sul severo, recita questo beato prologo e io farò l’argumento a questi òmini da bene. E poi, chi ha a fare la comedia la faccia, ch’io per me non so’ per fare altro che l’officio mio, e ecco la calza.
[ISTRIONE DEL PROLOGO]
9Io ti vo’ contentare, e chi l’ha per male, grattisi il culo.
PROLOGO
Chi cercassi tutta la Marema, nonché Italia, non saria mai possibile a ragunare tanta turba di spaccendati, e ognuno è corso al romore, e non è niuno che sappia a che proposito. Almen, quando quel medica da Verzelli e i compagni si squartorno, e`si sapeva per dua giorni inanzi per che e per come. Sarà qualche satrappo che dirà essere venuto per avere qualche piacere dalla comedia, come se la comedia non avesse altra facenda che farlo ridere. Ma voi non volete stare queti! Orsú, ch’io vi chiarisco ch’io vi vitupererò tutti. Per Dio, per Dio, che, se non fate scilentio, ch’io sciorrò el cane, e dirò: el tal è agens, el tal è patiens. E se non ch’io ho rispetto a monna comedia che rimarebbe sola, io publicarei tutti i deffetti vostri che gli ho meglio in mente che la Marca, la buona e santta memoria del’Armelino (con reverentia parlando).O quanti ce ne sono che fariano il meglio a procacciare la pigione dela casa ala signora? E altri, a fare che ‘l suo famiglio abbia el suo salario, provedere doveria. Et chi è in disgratia al maestro di casa, riaverlo per amico sería buono di tentare. E vadi a cena chi no ha cenato, nanzi che le campanelle imbasatrici dela fame suonino. E chi non ha ditto l’offitio, si non andassi a dirlo, non peccarebbe però in Spirito Sancto.Per certo che si può ralegrare quel padre et fratello che ha il figliolo e fratello in corte, e con tutti i dessagii del mondo lo mantiene perché doventa mesere e reverendo, perché arà le some de’ beneficii, per andare dietro ale favole. Ma io getto via le parole e vego che a ogni modo volete impregnarvi di questa comedia. Orsú, ale mani. Assettaretivi mai piú, perdi-giornate? A fe’, che c’è tale che sta a un sinitro strano, e per che cosa? Per vedere una favola. Se gli fusse in San Piero e avesse a vedere il Volto Santo stando a sí gran disconcio, diria a messer Domenedio che ‘l verebbe a vedere una altra volta. Ma avete ventura che ci sono donne oneste e poche, ché vi so dire che bagnaresti e piedi d’altro che d’acqua lampha. Ma torniamo al proposito.Vostre Signorie mi son patrone e, ancora ch’io abbia bravato un poco, non c’è periculo niuno, e mi burlo con voi che sete nobilissimi, costumati e virtuossi. E non credete che questa ciancia che vi sarà racconta vi facessi dispiacere, perché ella è nata a contemplatione vostra, e mi vien da ridere perch’io penso che, inanzi che questa tela si levassi dal volto di questa città, vi credevate che ci fussi sotto la torre de Babilonia, e sotto ci era Roma. Vedette Palazzo, san Piero, la Piazza, la Guardia, l’osteria dela Lepre, la Luna, la Fonte, Santa Catherina e ogni cosa. Ma adesso che ricognoscete che l’è Roma al Coliseo, ala Ritonda e altre cose e che siate certissimi che dentro vi si farà una comedia, come credete vou che detta comedia abbia nome? Ha nome la Cortigiana et è per padre toscana e per madre da Bergamo. Però non vi maravigliate s’ella non va su per sonetti lascivi, unti, liquidi cristali, unquanco, quinci e quindi, e simili coglionerie, cagion che madonne Muse non si pascono si non d’insalatucce fiorentine. E per mi fe’ ch’io son schiavo a un certo cavaliero Cassio de’ Medici bolognese poeta que pars est, che un una sua opera de la Vita de’ Santi dice questo memorabile e divino verso:
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Per noi fe’ Cristo in su la croce el thomo.
E se ‘l Petrarca non disse thomo, l’h detto egli ch’è da Bologna et altro omo che ‘l Petrarcha per essere eques inorpellato. Cosí Cinotto, pur patricio bologneses, che scrivendo contro il Utrco disse cosí:
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Fa che tu sippa, Padre Santto, in mare
el Turco deroccando e tartusando,
ché Dio si vuol con tecco scorucciare
Sippa è vocabulo antiquo, deroccare e tartussare modern[i]; e Cinotto, poeta coronato per man di papa Leon, l’usa: e sta molto bene. Siché, questi comentatori di vocabuli del Petrarca, gli fanno dire cose che non l[e] faria dire al Nocca da Fiorenza VIII altri tratti di corda, come ebbe già benemerito in persona propria dala patria sua.E’ non è niuno che sappia meglio di Pasquino quello si può usare o no. E’ gli ha un libro il qual tratta dela sua genologia e c’è de belle cose, come intenderete; e perché gli è nato di poeta, però qui lo faccio autore. Parnaso è un monte alto, aspero, indiavolato, che non ci andarebbe san Francesco per le stímate; e questo loco era d’un povero gintilomo che si chiamò ser Apollo il qual, o fosse per voro o per disperatione, fatoci un romitorio, si viveva ivi. Avenne che non so chi toccò il core a nove donne da bene, e dette donne, accettate dal sopradetto Apollo, entroron seco nel monasterio e dandosi ala virtú steteron non molto insieme che si piglioron grande amore. E come accade che ‘l demonio è sutile, [fra] ser Apollo bello e madonne Muse bellissime si consumò el matrimonio, onde nacquero figlioli e figliole. Et perché Apollo fu ceretano, come per la lira si può cognoscere, e molti anni cantò in banca, tutti e figlioli e figlie che gli ebbe fur poeti e poetesse.Ora, cominciandosi a sapere che suso quel monte, a peticione d’un solo, stavono nove cosí belle donne, ce furon molti che epr industria saliron in cima al monte e assai, credendosi salire, rupporo il collo; e come le buone Muse videro di potere scemare la fatica a Apollo si domesticorono sí con soloro che erono con tanto ingegno saliti al’indiavolato monte che posseno le invisibile corna a quela gintil creatura de Apollo. E con tale archimia fu aquistato Pasquino, né si sa di qual musa o di qual poeta. Bastardo è egli, questo è certo. E chi dice che dette Muse fussero sorelle, ha il tortno, et ha quel giudicio in le croniche ch’ha il Mainoldo mantuano in anticaglie o in gioie. E lo prova, non essere pur aprenti, la differentia dele lingue che si leggono, e lo conferma Pasquino, che cicala d’ogni tempo greco, còrso, francese, todesco, bergamasco, genovese, venetiano e da Napoli; e questo è perch’una musa nacque in Bergamo, l’latra in Francia, questa in Romagna e quella in Chiasso, e Caliope in Toscana. O vedete se di tanta pescolanza nascono le sorelle! E la ragion che piace piú la lingua toscana che l’altre, è perché ser Petrarca in Avignon s’inamorò di monna Laura, la qual fu fantesca di Caliope e aveva tutto il parlare suo. E a ser Francesco piacendoli la dolce lingua di monna Laura, cominciò a comporre in sua laude. E perché a lui non è ancora agiunto stile se non quello del’abatte di Gaeta, bisogna andare dietro ale autorità sua. Ma circa al parlare non c’è pena niuna salvo se non se dicessi el vero. E il Milanese può dire micca per ‘pane’ il Bolognese sippa pro ‘sia’.
[ISTRIONE DELL’ARGOMENTO]
10Oh, tu legeresti bene il processo, o la condemnatione a un podestà; o che cicalare è stato il tuo! Che domin t’importa egli il volere disputare del parlare? Tu non dovevi finire mai piú, ad ciò ch’io avessi a stare con questa calza tutt’oggi in mano e che ‘l servitiale si fredassi, e che costoro non ricevessino la mità de l’argomento.
[ISTRIONE DEL PROLOGO]
11Tu hai ragione, tamen io voglio sapere quanto ad un certum quid che erbe sono in cotesto cristero, perché se tu vi avessi messo snelle, frondi, ostro, sereno, campeggianti rubini, morbide perle e terse parole e melliflui sguardi, e’ sono sí stitichi che non gli smaltirebbono gli struzzi che padiscono e chiodi.
[ISTRIONE DELL’ARGOMENTO]
12Io gli ho messo la merda.
[ISTRIONE DEL PROLOGO]
13Sta queto e vedi farmi cotale argomento e poi mi parla. Or comincia.
ARGOMENTO
[ISTRIONE DELL’ARGOMENTO]
14In questa calza vi porto un argomento molto ristorativo, e in questa sua compositione, ch’è buona a fare ridere il pianto, c’è messer Maco di Choe da Siena sutdiante in libris, venuto a Roma per acconciarsi per cardinal con qualque papa; che, essendo in casi di morte per il mal di mazzucco, suo padre fe’ voto che, guarendo il tetto messer Maco, lo aconceria per cardinale con un papa. Sendo exaudito, sano e piú bello che mai il figliolo, l’ha mandato in Roma per adempire il voto fatto per la salute sua. E preso maestro Andrea per pedagogo, gli fa credere che non è possibile e mettersi per cardinale con il papa, se prima non si diventa cortigiano e facilmente gli fa credere ch’un Gioan Manente da Reggio si fece cortigiano nele forme, e con questa solenne sciochezza mena questo ineffabile castrone ala stupha dove gli dice esser le forme che fanno i piú bei cortiginani del mondo. E cosí, di peccora diventando un bue, pone il sigillo a tutte le savie et salate parole di quel pazzo di maestro Andrea; e sinonch’in corte si vegono tutto il dí miracoli assai maggiori, non crede[res]te mai ch’un omo si conducessi a tanta castroneria. E’ mi pare molto maggior cosa il testamento che fece lo elephante, et era sí gran bestiaccia. Cosí, a sentire ragionare maestro Pasquino, ch’e di marmo. Et fammi anco fare le stímate avere visto un Accursio e un Serapica comandare al mondo, ch’uno era stato fattore di Caradoso orefice, e l’altro canatiero. Or lasciamo ire le philosophie morale.Homero fu litigato da sette cittade e ignuna per suo l’ha sempre voluto. A messer Maco interviene peggio, che da piú di trenta paesi è refiutato, né ‘l vole niuno per amico né per parente. Milano lo renuntia per minchione, Mantoa per babione, Venetia per coglione, e sin a Mathelica. Ma per tagliare la lite, la causa è messa in ruota, e per gratia de li auditori arà fin presto, come le altre cose. Siché per oggi il faremo da Siena; domani chi ‘l vuol sel pigli.Et anche piaceravi, credo, veder inamorato Parabolano da Napoli, uno altro Accursio, in Corte piú per i caprici della fortuna che per sua meriti. Il qual, tormentandosi per Laura moglie di messer Litio romano, e non volendo questo amor scoprire, un suo famiglio ribaldo sentí che ‘l padrone di lei si lamentava sognando, e avendo per tal mezzo questo secretto, gli fa credere che Laura di lui sia inamorata, e per via de una ruffiana conclude el parentado; e il magnifico, goffo al possibile, si ritrova con una fornaia piú sucida che la manigoldaria. E mentre che saranno in essere queste cose e che vederete rapresentare qualque particella dei costumi cortigiani di donne et òmini et che vederete doe comedie in una medesina scena nascere e morire, non vi spaventate; perché mona comedia Cortigiana, per essere ella piú constrafatta che la chimera, piú spicevole che ‘l fastidio, piú costumata che l’onestà, piú suave che l’armonia, piú gioconda che la leticia, piú iraconda che la colera, piú faceta che la buffonaria, è, nel dir il vero, molto piú temeraria che la prosomptione.E se piú di sei volte messer Maco o altri uscissi in scena, non vi corucciate, perché Roma è libera e le cathene che tengono i molini sul fiume non terebbono questi pazzi stregoni, volsi dire istrioni. Cosí, abbiate patientia, si alcun parla fuore di comedia, perché se vive a una altra foggia qui, che [‘n] Athene non si faceva; di poi colui che ha fatto la novella è omo di suo capo, né lo riformaria il Vescovo di Chieti.
[ISTRIONE DEL PROLOGO]
15E ‘nfine tu sei omo che ti governi con le bigonce, disse messer Zanozzo Pandolfini, e per mia fe’ che sei un buon maestro da fare argomenti et è stato molto solutivo. Or tiriamoci da parte e ascoltiamo come messer Maco si porta a diventare cortigiano. Eccolo! Ah, ah, ah! Oh che pecora! Ah, ah, eh, oh!