Giambattista Giraldi Cinzio

Orbecche: Tragedia





Texto utilizado para esta edición digital:
Cinzio, Giraldi. Orbecche. A cura di Renzo Cremante. En Teatro del Cinquecento. Milano: Riccardo Ricciardim, 1988, Tomo 1: La tragedia.
Marcación digital para Artelope:
  • Romeu Guallart, Luis María (Artelope)
  • Burgos Segarra, Gemma (Artelope)

Dedicatoria

ALL’ILLUSTRISSIMO ET ECCELLENTISSIMO SIGNORE IL SIGNORE DUCA ERCOLE DA ESTI II DUCA IIII FERRARA

Dura cosa è, Illustrissimo Signore, a scrittori di qualunque sorte fuggire a questi tempi i morsi della invidia, la quale, come nemico armato, sta sempre co’ denti fuori per mordere e lacerare chi scrive. E posto che ciò sia difficile in ogni sorte di composizione, egli è sommamente difficile quando altri si dà a scrivere in quella maniera de poemi che sono stati per tanti secoli tralasciati ch’appena di loro vi resta una lieve ombra. Di qui è ch’io istimo che sia quasi impossibile che coloro i morsi d’essa invidia fuggano i quali si danno a comporre nuove Tragedie a questi tempi, l’uso delle quali, solo maestro di tutte le cose, per la gran lascivia del mondo, com’io credo, è in tutto mancato, et appresso e Greci, che la Tragedia trovaro, et appresso e Latini che, togliendola de essi, senza alcun dubbio assai più grave la fecero. Et ancora ch’Aristotile ci dia il modo di comporle, egli, oltre la sua natia oscuritade, la quale (come sapete) è somma, riman tanto oscuro e pieno di tante tenebre, per non vi essere gli auttori de’ quali egli adduce l’auttoritadi e gli essempi per confirmazione de gli ordini e delle leggi ch’egli impone a gli scrittori d’esse, ch’affatica è intesa, non dirò l’arte ch’egli insegna, ma la diffinizione ch’egli dà della Tragedia. Ciascuna di queste cose dunque da sé, non che tutte insieme, mi devea fare restare di por mano in cosa di tanta fatica e si facile a dare materia ad altrui di biasimarmi. Ma tanto hanno potuto in me i preghi di molti amici, e spezialmente del magnifico M. Girolamo Maria Contugo, gentiliss. giovane et ornato di molte virtù, ch’ancora ch’io mi conoscessi di deboli forze a così grande impresa e vedessi a che rischio i’ mi poneva, preposi ‘l volere degli amici ad ogni mio pregiudicio. Composta adunque ch’io ebbi questa Tragedia, che fu in meno di due mesi, avendole già parata in casa mia il detto M. Girolamo sontuosa et onorevole scena, fu rappresentata da M. Sebastiano Clarignano da Montefalco, il quale si puote sicuramente dire il Roscio e l’Esopo de’ nostro tempo, a voi Illustrissimo Signore e padron mio. E posto ch’ella e da V. Ecc. e da tutti quelli divini ingegni che seco la videro e l’udiro fosse meravigliosamente lodata, pure considerando io di ch’importanza fosse lasciare uscire nel cospetto del mondo cose tali, e quanto più agevol cosa è riprenderle che comporle, voleva che, standosi ella celata appresso di me, fosse contenta di quelle lodi ch’allora ebbe e tenesse meglio tra i confini della mia casa essere stata una volta lodata che, tratta da vana speranza, si ponesse a rischio di dispiacere e di essere a membro a membro lacerata da’ morsi de gli invidi nel publico. Ma poi che piacque all’Illustrissimo e Reverendissimo Cardinali Raavenna ch’ella facesse nuova mostra di sé innanzi S[ua] R[reverendissima] S[ignoria] e dell’Illustrissimo e Reverendissimo Cardinale Salviati, molti chiari Signori e pellegrini ingegni molte volte con somma instanza la mi hanno chiesta, tratti dalle lodi che e voi, Signor mio, tra tutti gli altri giudicioso et ornato di tutte quelle lodi et alte virtuti ch’ad eccellentissimo Signore e nobilissimo spirito si convengono, allora le deste e dopo insieme con voi le diero amendue que' Reverendissimi Signori, celebri e chiari ne gli studii di tutte le oneste discipline che nelle Greche e nelle Latine carte si contengono. Là onde non potendo io più far loro di ciò disdetto senza incorrere nel nome di villano, come i preghi de gli amici mi constrinsero a comporla, così anco le costoro continove dimande m'hanno sforzato a lasciarla uscire.
Devendo ella adunque pur uscir fuori, ho voluto, Illustrissimo Signor mio, ch'ella a voi, prima ch'a nessuno altro, reverentemente s'offra: sì perché facendosi schermo, contra chiunque assalir la volesse, dell'auttorità dell'illustre nome vostro, quasi da fortissimo scudo diffesa, più sicura si stia contra gli assalti loro; sì anco perché sia appresso voi, da quanto ella è, certissimo pegno della riverenza ch'io vi porto e chiaro testimonio della mente mia, a voi sempre divota. E s'ella fia da voi con quello animo accolta con cui la vostra rara virtude e molta cortesia mi promette che serà, io non dubito ch'ella non rimanga da ogn'invidia sicura, e mostrandomi, se non in tutto, almeno in parte verso di voi grato, non vi faccia ampia fede della sincera mia affezione e volontaria servitude, ond'io vi sono con somma osservanza astretto. Il che se fia, si darà ardire all'altre sue sorelle, Altile, Cleopatra e Didone, ch'ora timide appresso di me stano nascose, di lasciarsi vedere. Intanto, basciando a V. Ill. S. l'onorata mano, umilemente le mi raccomando. Alli dì XX di Maggio M. D. XLI.

D.V. ILL. S. Ser[vitore] Giovanbat. CInthio Giraldi.


[Noticia sulle rappresentazione]

FU RAPPRESENTATA IN FERRARA IN CASA DELL’AUTTORE L’ANNO M.D.XLI. PRIMA ALL’ILLUSTRISS. SIGNORE IL SIGNORE ERCOLE II. DA ESTI DUCA IIII. DI FERRARA. DOPO A GL’ILLUSTRISS. E REVERENDISS. SIGNORI. IL SIGNORE CARDINALE DI RAVENNA, ET IL SIGNORE CARDINALE SALVIATI. LA RAPPRESENTÒ M. SEBASTIANO CLARIGNANO DA MONTEFALCO. FECE LA MUSICA M. ALFONSO DALLA VIVUOLA. FU L’ARCHITETTO ET IL DIPINTORE DELLA SCENA M. GIROLAMO CARPI DA FERRARA.


L’ARGOMENTO

Orbecche figliuola di Sulmone Re di Persia, essendo fanciulla, fanciullescamente diede indizio al padre che Selina sua mogliera e madre di lei si giacea col suo primogenito. Sulmone, trovatigli 'nsieme, gli uccise. Dopo alcuni anni Orbecche, senza che 'l padre ne sapesse nulla, prese per marito un giovane d'Armenia, detto Oronte. Intanto volendola maritare Sulmone a un Re de' Parti, si scuopre l'occulto maritaggio e che sono nati d'essi due figli. Sulmone finge essere di ciò contento e dopo uccide Oronte et i figliuoli. Poi colla testa e colle mani del marito ne fa dono alla figliuola la quale, vinta dallo sdegno e dal dolore, uccide il padre e dopo sé stessa.


LE PERSONE CHE PARLANO

NEMESI, Dea
FURIE, infernali
OMBRA di Selina
ORBECCHE, figlia del Re
NODRICE d’Orbecche
ORONTE, consiglieri
MALECCHE, consiglieri
SULMONE, Re
MESSO del Re
CORO
TAMULE
ALLOCCHE
MESSO
SEMICORO
DONNE DI CORTE d’Orbecche
Il Coro è di Donne di Susa.

Atto

IL PROLOGO
Essere non vi dee di maraviglia,
Spettatori, che qui venut'i' sia
Prima d'ognun, col prologo diviso
Da le parti che son ne la Tragedia,
5
A ragionar con voi, fuor del costume
De le Tragedie e de' Poeti antichi:
Perché non altro che pietà di voi
Mi ha fatto, fuor del consueto stile,
Qui comparir, di maraviglia pieno.
10
Né senza gran cagion mi maraviglio
Che tanti alti Signor, tant'alte donne
Nobil in sommo e tanti spirti illustri,
Fuor d'ogni oppenion nostra, sì ratti
Oggi qui sian venuti, ove non s'hanno
15
A recitar di Davo o ver di Siro
L'astute insidie verso i vecchi avari,
O pronti motti che vi movan riso,
O amorosi piaceri, o abbracciamenti
Di cari amanti o di leggiadre donne,
20
Onde possiate aver gioia e diletto;
Ma lagrime, sospiri, angoscie, affanni
E crude morti: onde voi che qui sete
Venuti per solazzo e per piacere
Avrete acerba e intolerabil doglia.
25
Onde, perché di lui non vi dogliate
(Senza riguardo avere a l'uso antico)
Il poeta m'ha fatto or comparire
A dar di ciò c'ha ad avenire indizio.
Però, se di voi stessi oggi vi cale,
30
Partitevi, di grazia, e qui lasciate
Noi altri col poeta in queste angoscie
Convenienti a la nostra aspra sorte
Et al misero stato in che noi semo.
Deh piacciavi non esser spettatori
35
Di tante aversità, di tante morti,
Quant'hanno ad avenir in questo giorno.
Oimè, come potran le menti vostre
Di pietà piene e d'amorosi affetti,
E sovra tutti di voi, donne, avezze
40
Ne' giochi, ne' diletti e ne' solazzi
E di natura dolci e dilicate,
Non sentir aspra angoscia, a udir sì strani
Infortunii, sì gravi e sì crudeli,
Quai sono quei che deono avenire oggi?
45
Come potranno i vostri occhi, lucenti
Più che raggi del sol, veder tai casi
E così miserabili e sì tristi
L'un sovra l'altro, e rattenere il pianto?
Deh gitevi, di grazia, che non turbi
50
Le vostre gioie e l'allegrezza vostra
E 'l dolce che tenete in voi, l'amaro
Empio dolore. Appresso, ognun di voi
Pensi quanto si deve allontanare
Da le sue case. Forse penserete
55
In Ferrara trovarvi, città piena
D'ogni virtù, città felice quanto
Ogn'altra che il sol scaldi o che 'l mar bagni,
Mercé de la giustizia e del valore,
Del consiglio matur, de la prudenza
60
Del suo Signor, al par d'ogn'altro saggio:
E fuor del creder vostro, tutti insieme
(Per opra occulta del Poeta nostro)
Vi troverete in uno instante in Susa,
Città nobil di Persia, antica stanza
65
Già di felici Re, com'or d'affanno
E di calamitadi è crudo albergo.
Forse vi par, perché non v'accorgete
Velocissimamente caminare,
Che siate al vostro loco, e sete in via
70
E già vicini a la città ch'io dico.
Ecco, quest'è l'ampia città reale,
Questo è 'l real palazzo, anzi 'l ricetto
Di morti e di nefandi e sozzi effetti
E d'ogni sceleragine, ove l'ombre
75
E l'orribili Furie acerbo strazio
Porranno in brieve e lagrimevol morte.
Ma che restate, oimè, perché nessuno
Di voi si parte? Forse vi pensate
Che menzogna si sia ciò ch'io vi dico?
80
Egli è pur vero, e già ne sete in Susa;
E nel tornar v'accorgerete bene
Quanti mar, quanti monti e quanti fiumi
Averete a varcar, prima che giunti
Ne siate tutti a la cittade vostra:
85
Che non vi farà agevole la via
Il Poeta al tornar, com'ora ha fatto.
E che qui non si trovi altro che pianto,
Tosto ne vederete espressi segni:
Ch'io veggio già quella possente Dea
90
Che Nemesi chiamata è da gli antichi,
Orrida in vista e tutta accesa d'ira,
Chiamare or qui da le tartaree rive
L'acerbe Furie co le faci ardenti,
Il cui crudele e dispietato aspetto
95
Temo così veder che più non oso
Qui far dimora, a ragionar con voi.


Atto I

SCENA I

NEMESI Dea, FURIE infernali

[NEM.]
L’infinita bontà del sommo Giove
Tempra così la sua giustizia immensa
Ch'ancor ch'un reo sia di gran vizii pieno
100
Né ad altro mai ch'a mal oprare intenda
E perciò merti agro e crudel castigo,
Pur aspettando Dio ch'ei si corregga,
Rattien la ferza e non gli dà la pena
Degna de le sue triste et inique opre.
105
Anzi (o bontà del Creatore eterno!)
Per più allettarlo al bene e mostrar lui
Più espressa la sua eterna, alta bontade,
Fin che in tutto non è fuor di speranza
Di deversi correggere, gli aumenta
110
Il bene e tutti i suoi disiri adempie
Con felice successo: ove 'l contrario
Spesso si vede di color che sono
Con ogni studio intenti a l'opre sante.
Perché chi a bene oprar l'animo intende,
115
Più perfetto si fa ne' casi aversi,
E ne ricorre per soccorso a Dio
Che fonte è d'ogni ben, d'ogni salute,
Sprezzando ciò che par felice in terra;
E vede che ciò lascia Dio avenire
120
A quei che giusti sono in questa vita
Perché ciascun che tra' mortali vive
(Per giusto ch'egli sia) commette errore
Contra l'alta bontà del Fattor suo:
Ond'egli vuol che questa breve pena
125
In questo stato purgi loro e poi
Godano eternamente il ben del cielo.
Ov' a color che son nel mal immersi,
Quando i peccati lor son giunti al sommo
E conoscer non han voluto quanto
130
Cerco abbia Dio di ricchiamarli a lui,
Dà spesso in questa vita acerba morte
E ne l'altra infiniti, aspri tormenti
Per que' brevi piaceri avuti un tempo,
Che stati forse son piena mercede
135
Di qualche picciol ben fatto da loro:
Che come 'l mal non è senza la pena,
Così non è senza mercede il bene;
E avien sovente che gli altrui peccati
Passano insino a' figli et a' nipoti
140
E del paterno error portan la pena.
Ciro ne può far fede, insino al quale
Passò il fallo di Gige et allor ebbe
Castigo de l'error che più felice
Esser credeva; e insino a Roboamo
145
Passò di Salomon l'aspra vendetta.
E perché non conosce questa gente
Sciocca, mortale e d'ogn'ingegno priva,
Ciò che la providenzia eterna face,
Se talor vede ch'un mal'uom gioisca
150
E sia in felice stato e un uom gentile,
Pieno d'ogni virtù, sostenga affanno,
Biasima la divina alta giustizia
E pensa che quell'alta providenzia,
A cui tutto è palese et in un punto
155
Vede il presente et il passato e quello
Ch'avenir dee, sia cieca e nulla curi
Queste cose che son qui sotto il cielo.
O gente sciocca, voi che non vedete
A pena quel ch'avete innanzi a gli occhi,
160
Volete far del sommo Dio giudicio!
O pazza presunzion! Nulla procede
Senza ordine infinito; et io che sono
Qui tra' mortali indagatrice certa
De' fatti loro e con acuta vista
165
E le cose celate e le palesi
Giudico e veggio con giudicio intiero,
Annunzio per certissimo che mai
Non fu buon fatto alcun senza mercede
Né mai un reo fuggì l'aspra mia ferza.
170
E se pur ad alcun talor la pena
S'è differita, è sovraggiunta poi
Tant'aspra e così grave che contenta
Rimasa n'è la mia vindice destra:
Tal che veder si può che que' felici
175
Si posson dire a' qual de' falli loro
Subito viene il debito castigo.
Et or ne darà a ognun sì chiaro essempio
Questo fiero Tiran che si pensava
Esser al par de la divina altezza,
180
E da l'età sua prima Dio sprezzando,
Insino ad or ha sempre oprato male:
Ch'ognun potrà vedere agevolmente
Che quanto egli insin or di bene ha avuto,
Stato è a suo danno e de la sua famiglia.
185
Che per altro non sono or qui venuta
Che per dare a lui oggi e a la sua gente,
A cui passato è 'l suo ostinato errore,
Il giusto guiderdon de le mal'opre;
E perciò trar fuor de l'oscuro abisso
190
L' irate Furie co le faci ardenti,
Che pongan or tra la sua gente e lui
Non pur tanto furor quanto fu mai
In Tantalo, in Tieste, in Atamante,
Ma quanto mai non fu veduto in terra.
195
Uscite adunque co le faci accese,
Figliuole de la Notte e d'Acheronte,
Ad essequir quello che 'l sommo Giove
A strazio di Sulmon per me ve impone.

FURIE.
Eccone: siam, possente Dea, per fare
200
Tutto quel che da te ne sarà imposto.
Né tanto fuoco mai fulmine ardente
Portò seco dal ciel, né Borea od Euro
Il mar tranquillo sottosopra volse
Con tanta forza, quanto in questa corte
205
Porrem furore e come muteremo
Quanto in lei è di lieto in doglia e 'n pianto.
Imponi pur ciò che noi far devemo,
Che in un momento fia ispedito il tutto.

NEMESI.
Empiete adunque di furor sì grave
210
Quest'empia corte ove Sulmon soggiorna
Ch'altro non vi si veggia che dolore
E strazi e pianto e morti; e da ogni canto
La scelerata corte a sangue piova.
Fate che miser venga chi è felice
215
E felice s'istimi il più dolente,
E che 'l padre e la figlia, d'ira accesi,
Non cerchino altro che dolore e morte.

FURIE.
Ecco ch'a pieno ora compimo il tutto.

NEMESI.
Assai fatt'è; veloci omai tornate
220
A le case di Dite, a i regni oscuri,
E accelerate il passo, che l'aspetto
Vostro non può soffrir terra né cielo.
Ecco che 'l sol s'oscura, e da ogni parte
Fuggono da la terra erbette e fiori,
225
E lasciano le frondi e i frutti i rami,
E tutto 'l mondo vien pallido e nero.

SCENA II

OMBRA di Selina, moglie di Sulmone

OMBRA
Uscita i' son da le tartaree rive
Onde si son partite or le tre Dee
Che de' dannati ne gli oscuri regni
230
Prendono grave et immortal supplicio;
E (come insin là giù la fama suona)
Venute sono a la diurna luce
Per por furor estremo ne la corte
Del Re Sulmon, già mio crudel marito.
235
E benché strazio tal esser di lui
Debba e del sangue suo, che più bramare
Non ne devrei, pur ho voluto anch'io,
Con licenzia di Pluto, or qui venire.
Non che poter accrescer io mi pensi
240
Mal a Sulmon, che 'l suo fia 'n sommo grande;
Ma perché questo giorno non si fugga
Et io non faccia a mio poter almeno
De l'aspra morte mia crudel vendetta.
Ma dimmi, ch'uopo t'era da l'inferno,
245
Nemesi, trar le scelerate Furie
Per accender furor in questa casa?
Che Furia più potente aver potevi
Di me? Ma poi ch'esse hanno avuto quello
Ufficio ch'a ragion mi si devea,
250
Perché non resti per me nulla a farsi,
Portat'ho anch'io questa letal facella
Accesa di mia mano in Flegetonte
Per dar degno splendore a queste nozze
Che già foron secrete, or fian palesi,
255
Tra Oronte e Orbecche, mia figlia proterva:
Orbecche, dico, che cagion fu sola
Che Sulmon mi trovasse col mio figlio
E desse ad ambo noi morte crudele.
Così dunque dopo ch'a l'aspro padre,
260
Al padre traditore, al padre iniquo
Avrà data spietata e orribil morte,
Vinta dal duolo e da l'ambascia estrema
Che soffrirà poi che veduti uccisi
Avrà il caro marito e ambe due i figli,
265
Sotto spezie di fé, da l'avo ingiusto,
Ella con quella man che diede indizio
A Sulmon del mio mal, sé stessa uccida.
Sian l'altre morti de le Furie, questa
Sarà la mia. Così verranno insieme
270
L'avo, la madre et i figliuoli e 'l padre
A l'ombre oscure, a la infernal regione
Ove da Radamante e da Minosse
Saranno condennati a tai supplicii
Ch'avranno invidia a la spietata sete
275
Di Tantalo; e parrà lor pena lieve
Che dia a l'avido augel di sé dur'esca
Tizio infelice; e l'essere aggirato
Sempr'Ission da la volubil ruota
Et il portar del sasso sovra 'l monte
280
Di Sisifo e cader da l'alta cima
E qualunque altra pena fia maggiore
Nel cieco carcer de l'oscuro abisso,
Parrà loro un piacere et un trastullo
Appo il tormento ch'essi avran tra noi.
285
Così del mal lor sazii rimaremo
Io et il figliuol ch'or ne le stigie parti
Segue, dovunque vada, l'ombra mia
E mi minaccia e mi percuote e sferza,
Solo imputando a me l'aspra sua morte.
290
Sulmon, Sulmon, non ti varranno i tetti
D'oro, né le munite e forti torri,
Né l'aver sotto te gente infinita,
Né a tua custodia aver uomini eletti,
Perché non t'abbia la tua figlia propria
295
Con mano scelerata a tòr dal busto
La testa indegna di corona e quelle
Man da le braccia che sì pronte foro
A bruttarsi nel sangue mio e nel sangue
Del tuo primo figliuol sì indegnamente.
300
Ma perché non poss'io tanto di spazio
Aver da le mie pene che presente
Esser possa a veder questa ruina?
A che mi ricchiamate, ombre, tra voi
Al fuoco eterno et a l'eterno danno?
305
Forz'è ch'io torni a i tenebrosi orrori,
A sostener le consuete pene,
Che più non vuol Pluton che qui dimori:
Però voglio ispedir quanto far debbo.
Altro non resta più per farmi sazia
310
Se non poter al tutto esser presente;
Ma poi che 'l mio destin questo mi vieta,
Ne porto almen questo contento meco,
Che pria ch'oggi s'attuffi il sol ne l'onde,
Verranno anch'essi a le tartaree rive
315
A sostener con me tormenti eterni.

[CORO][N]
X
Nota del editor digital

"[CORO]"

Introducimos esta anotación de referencia estructural ya que tiene una valor “de escena” y se distingue, de este modo, del “CORO” entendido como personaje colectivo

CORO
Venere, il cui poter la terra e 'l mare
E 'l cielo e 'l cieco inferno
Sente e quant'è nascosto e quanto appare;
O Dea, dal cui superno,
320
Almo valor ogni cosa mortale
Prende ristoro e pace,
Da cui sol quanto piace,
O sia fragil diletto od immortale,
Viene, com'arbor vien da sua radice,
325
Né puote in terra o 'n cielo alcun verace
Contento esser giamai, senza il felice
Tuo vivo lume, cui onora e cole
Quanto sostiene il cielo e vede il sole:
Tu sola, quando era ogni cosa oscura
330
E senza onor giacea,
Come mastra miglior de la natura,
La lite ingiusta e rea
Che 'n tenebroso orror teneva involto
Tutto il seme del mondo,
335
Col tuo lume fecondo
Levasti sì che quant'era ivi occolto
Apristi e 'nsieme le contrarie cose
Legasti ad un, con nodo sì secondo
Che, piene di concordi e d'amorose
340
Voglie, rubelle unqua non furon poi
Che sentìr quanto vali e quanto puoi.
Onde divisi for l'acqua e la terra
E 'l lieve aere e 'l fuoco,
La cui concorde e discordevol guerra
345
Fece ch'a poco a poco
S'empié di pesci il mar, l'aer d'augelli,
Di varii armenti il suolo;
E non di questo solo,
Ma di frondi e di fior soavi e belli,
350
D'arbori e d'erbe e di quantunque vive
Qui sotto il ciel, da l'uno a l'altro polo;
E per le fiamme tue cocenti e vive
Incominciò, pien d'amorosa speme,
A propagarsi in terra il mortal seme.
355
Né questo pur, ma il sole anco e la luna
E quante nel ciel sono
Stelle fisse od erranti, ad una ad una
Del tuo poter for dono,
Che sarian, senza te, ne l'ombra ancora
360
Co l'altre cose oppresse;
E quelle menti istesse
Che movono i celesti cerchi ogn'ora,
Nulla sarrebbon senza il tuo valore.
Tu principio, tu fin di quanto elesse
365
Di generar tra sé l'alto Motore,
Tu sola fai ch'ei con perpetua legge
E providenza eterna il mondo regge.
Onde poi che di tante opre leggiadre
Cagion sei stata e sei,
370
Non sostener che morti acerbe et adre
E tanti casi rei
Sostengan questi due miseri amanti
Che tutti a dramma a dramma
Ardon de la tua fiamma.
375
Quant'aspre morti e quanti amari pianti
Stan sovra il capo lor, se la tua forza,
Ch'ogni cosa creata accende e 'nfiamma,
A lo influsso del ciel non face forza!
Sì che si volga in allegrezza e 'n canto
380
Sì doloroso e miserabil pianto.
Dunque, Dea sacra et alma,
Movanti e giusti prieghi
E fa' che 'l fier destin si muti o pieghi.

FINE DEL PRIMO ATTO

Atto II

SCENA I

ORBECCHE figliuola del Re Sulmone, NODRICE

ORBECCHE.
Ai, quanto brevi sono i piacer nostri!
385
Quanto vicin al riso è sempre il pianto!

NODRICE.
Oh che dolente voce è questa ch'odo!
Parmi che sia la mia Reina: i' voglio
Veder s'è dessa e che dolor l'afflige.

ORBECCHE.
Credo che fa come si dice a punto
390
La fallace fortuna a me nemica,
Che quanto più piacer ci arreca o gioia,
Tanto maggior dolor n'apporta poi;
E ch'i fugaci suoi beni non sono
Se non ombra di bene, ma l'angoscie
395
Son più che 'l ver veraci: et io in me il provo.

NODRICE.
E che cosa è che sì v'afflige e preme,
Essendo vivo il vostro Oronte e i figli?

ORBECCHE.
Oimè, che la cagion del mio dolore
È troppo più crudel ch'altri non crede!
400
M'avesse tolto il mio marito e i figli,
Nodrice mia, se la spietata morte
Forse i' sarei la più felice donna
Che mai nascesse al mondo. Non ch'io brami
O mai bramassi d'alcun d'essi il fine
405
(Ch'Oronte et essi la mia vita sono),
Ma perch'io veggio ch'assai peggio è ch'ora
Si trovin vivi. È ben morire a tempo
Un don dato dal cielo.

NODRICE.
Oimè, ch'è questo?
Mi trafigete il cor, Reina mia,
410
Co le vostre querele. Oh che principio
Al vostro ragionare avete fatto!
Che strano augurio, oimè misera, è questo!

ORBECCHE.
Egli è, Nodrice mia, pur troppo strano
E infelice son io più d'ogni donna.

NODRICE.
415
Oimè, tremar mi fate insino a l'ossa,
Veggendovi sì trista! Oimè, Reina,
Ditemi la cagion di sì gran doglia,
Che forse al vostro mal sarà rimedio.

ORBECCHE.
Non perch'io speri al mio languir rimedio,
420
Ma perché il core pur respira alquanto
Ne l'isfogar le gravi angoscie interne,
Dirotti la cagion del mio gran male.
Quattro anni ha già, come tu sai, ch'io presi
Per mio marito il mio fedele Oronte,
425
Senza dirne parola al padre mio.
Et ancor che di noi siano già nati
Due figli, stat'è ciò così secreto
(Mercé de la prudenza tua) ch'alcuno,
Eccetto te che per mia madre tengo,
430
Non n'ha sentito pure una parola.
E perché il padre mio si ritrovava
Debole alquanto e di molt'anni carco,
I' mi pensai ch'ei si dovesse, prima
Che la cosa sapesse, uscir di vita.
435
Ma il mio destin m'ha ben mostrato quanto
Sia stato il mio sperar fallace e vano
E quanto folli siano i pensier nostri.
Che ragionando eri il mio padre meco,
Mi disse, dopo molte altre parole:
440
Orbecche, poi che piacque al Re del cielo
In te sola serbare il seme nostro,
Or che tu sei già pervenuta a gli anni
Di devere pigliar marito, e essendo
Vago d'averti il Re Selin per moglie,
445
Che 'l regno tien de' Parti a noi vicino,
Giovane tale, e di stato e d'ingegno,
Che sol tuo deve e non d'altri esser sposo;
E avendomiti chiesta da sua parte
Lamocche nostro, et io promessa a lui,
450
I' vo', per quell'amor che mi mostrasti
Sempre portare e che mai sempre fece
Che 'l tuo volere e 'l mio fosse uno istesso,
Che di quanto fatt'ho resti contenta,
Acciò che 'n questa mia vecchiezza estrema
455
Vegga la succession de' miei nepoti.

NODRICE.
Ben fu troppo improviso questo assalto
E da devervi tòrre ogni consiglio.

ORBECCHE.
Poco mancò ch'io non rimasi morta,
Cara Nodrice, al suon di queste voci.
460
Pur raccogliendo gli smarriti spirti
E dal volto chiamando al cor la doglia,
Così risposi: Padre, quell'amore
Che fatto ha insino ad or che il voler vostro
Sia stato il mio, mi face ora negarvi
465
Quanto voi mi chiedete. Oimè meschina
(E a questa voce i' mandai fuora il pianto
Ch'altro su gli occhi che pietà del padre
V'avea condutto), come potrei senza
Voi stare un'ora al mondo? Ai padre, ai padre,
470
É ogni contento mio solo in voi posto:
Però per la pietà vi prego ch'io
Vi porto e per l'amor che mi mostrate,
A non volermi allontanare ancora
Da voi, che sol sete il mio sommo bene.
475
E qui dal pianto vinta i' tacqui. Et egli,
Non sapendo qual duolo a lagrimare
Mi conducesse, mi basciò la fronte
E molto ne lodò la mia pietade,
E a pensarvi mi diè termine un giorno
480
E ritornossi a le sue usate stanze.
Non restò mai di tanto affanno piena
Madre ch'i figli suoi sbranar vist'abbia
Al lupo fier, quant'io rimasi allora
Colma di doglia e d'angosciosa pena.
485
Et allargando a le querele il seno
Qui venuta io sono oggi per tempo
Ad aspettare il mio fedele Oronte
(Che occupato dal Re ne' suoi negozii,
Per mia doglia maggior, non ha potuto
490
Venir insino ad ora a le mie stanze),
Per potermi pigliar con lui consiglio
E provedere al periglioso caso.
Ma poi che tu di lui prima sei giunta,
Dammi soccorso a l'ultimo bisogno.

NODRICE.
495
Vorrei così or poter farvi contenta,
Reina mia, com'io sono sicura
Ch'al vostro aspro dolor sarà rimedio:
Però ch'i Dei, la cui bontade mai
Non venne meno a chi si fida in loro
500
E, come fate voi, gli onora e cole
Con tutto 'l cor, non vi saranno meno
Che benigni e pietosi. Ma vorrei
Che sì non v'affligeste da voi stessa,
Né vi teneste d'ogni speme priva,
505
Se dato ben v'ha ria fortuna assalto.
Perché, come sapete, è proprio questa
Nostra vita mortale
Quasi nave che in mar sia a i venti e a l'onda.
Ch'or da crudel tempesta,
510
Che d'improviso con furor l'assale,
Combattut'è sì ch'or da l'una sponda,
Ora da l'altra oppressa,
Si vede a canto aver la morte espressa;
E talor con eguale
515
Corso, senz'alternar di poggia od orza,
Co la soave forza
De l'aurette seconde,
Solca del salso mar le tranquill'onde:
Ond'è piena talor d'ogni conforto,
520
E d'affanno talor lungi dal porto.
Però non voglio che voi date 'n preda
A la doglia la mente,
Che d'ogni mal vi può levare in tutto.
Or fate ch'io vi veda
525
Contra il fiero destin così possente
Che del vostro valore abbiate il frutto,
E non crediate mai
Che sian perpetui più del bene i guai.
Anzi, l'esser dolente,
530
Ov'eravate dianzi così lieta,
Vi può mostrar che queta
Col vostro alto consorte
Viverete e felice innanzi morte;
E che così succiede al male 'l bene,
535
Come dopo 'l piacer l'angoscia viene.
Ma mi par buon che vi torniate in casa,
Et io vedrò di ritrovare Oronte
E di condurlo a voi: ch'io tengo certo
Ch'egli, col suo consiglio, immantinente
540
Ritroverà rimedio a questo caso
E vi farà col suo senno palese
Ch'o la Fortuna è nulla, o ch'è mortale,
Non Dea (come s'istima), e 'l suo potere
Forza non ha, s'altri v'oppon lo 'ngegno.

ORBECCHE.
545
Vanne, cara Nodrice, e là ridutti
Ove sai che ridur si suol Oronte,
E tanto aspetta, s'ei non v'è, che venga;
E senza darli del mio affanno indizio,
Di' che con gran desio l'aspetto in casa.

NODRICE.
550
I' vo, Signora, e pregovi ch'almeno
Facciate col dolore intanto tregua.

SCENA II

NODRICE, ORONTE

NODRICE.
Quando meco medesma i' vo pensando
A la incostanzia de l'umane cose,
I' veggio che non pur il mondo è nulla,
555
Ma chi pon speme in lui molto se 'nganna
E che non è qui cosa ove posare
Possa un fermo giudicio il suo pensiero.
Et io, per gli anni molti e per le molte
Occorrenzie c'ho viste in questa corte
560
E udit'ho raccontar da varie genti
E da molti prudenti uomini ho inteso,
Ne posso far ver testimonio a ognuno.
Guardinsi pria l'etadi e poi gli stati
Umani e vederassi apertamente
565
Ch'altrimenti non è. Prima l'infanzia
(Chi bene istima) è più d'ogn'età trista,
Come quella ch'è priva di giudicio
E distinguer non sa tra 'l bene e 'l male,
Cosa infelice e di miseria piena.
570
La gioventù poi, da follia sospinta,
Non sa per sé medesma ove si volga:
Quel ch'eri le fu grato, oggi le spiace
E seguendo or quello piacer, or questo,
Consuma in vanità tutto 'l suo tempo.
575
E quando la vecchiezza il crine imbianca
E fa severo il ciglio e 'l senno accresce,
Et altri il conto fa de' mal messi anni,
Conosce chiaramente ch'ogni cosa
Che gli fu grata ne l'età novella
580
Fu un sogno, una lieve ombra, un fumo, un vento.
Né la vecchiezza ha in sé cosa tranquilla,
Anzi 'l vigor perduto et il vedersi
Andare a gran camin verso 'l suo fine,
L'aggiunge grave affanno; oltre ch'i mali,
585
Le gravi infirmità ch'ella patisce
E l'essere ella infirmità a sé stessa,
Le disturba ogni gioia, ogni contento.
È vero ben che se l'accresce senno
E prudenzia e consiglio, ma le giova
590
Poco 'l molto saper per aver requie:
Perch'uopo non l'è sol ch'ella abbia cura
Di saper proveder a sé medesma,
Ma che provegga a le pazzie de gli altri,
A gli accidenti varii, a la fortuna,
595
E così sia nemica al suo riposo.
Or voltiamo a gli stati umani gli occhi
E gli vedremo tutti a un modo tristi.
Se povero l'uom nasce, ha sempre a canto
Gl'incommodi, il disagio e da ciascuno
600
È disprezzato; e se bene il più saggio
Egli è del mondo, è giudicato sciocco,
Perché lo stuolo umano oggi si crede
Ch'ove robba non è, non sia prudenzia.
E se 'n mezzano stato altri si trova,
605
Sempre aspirando a le grandezze eccelse,
A i favori, a gli onori, a gli alti ufficii,
Al crescere l'aver, mai non ritrova
Cosa che lo contenti o che lo sazii:
Anzi, spento un disio, ne sorge un altro,
610
E quell'altro è principio a un altro novo.
Ma che dirò di quei che le corone
Portano in capo et han gli scettri in mano,
Che paion sì felici e sì contenti?
Pare forse ad alcun ch'essi sian fori
615
De le condizion mortai. Ma tanti
Tormenti, tante angoscie sotto quelle
Purpuree vesti son, tanti pensieri
Spiacevoli, oimè lassa, e tante cure
Premon quelle soperbe, alte corone,
620
Che chi passa più dentro e 'l vero scorge,
Vede che è un mar di cure avere impero.
Oltre ch'i Re maggiori han sempre tanti
Sospetti di velen, sospetti d'arme,
Di tradimenti a torno, che sovente
625
Invidian le capanne e i vili stati.
Ma questo saria un giuoco, se 'l lor meglio
Scieglier sapesser pur le menti umane:
Ma credono sovente il meglio avere
Entro le braccia, e trovansivi il peggio.
630
Onde si può ben dir quel c'ho già udito
A molti saggi dir, che sol felice
È chiunque nel mondo mai non nasce
O che subito nato se ne more:
E così fugge, come da l'incendio
635
Levato fosse, l'incostante sorte.
Che chi vive tra l'aspre e oribil onde
Del mar di questa vita, è sempre un segno
Al fato, al fier destino, a la fortuna;
E ne può dar la mia Reina essempio
640
A gli altri, che ben serva 'l mondo in lei
Le sue condizioni a ognun comuni.
Né voglio dir che sia di ciò cagione
L'aver da sé preso marito Oronte;
Perché, volgiti pur da tutti e canti,
645
Vedrai che sta la penitenza ogn'ora
Appresso a qualunque uom, faccia egli pure
Ciò che si voglia e stia co gli occhi aperti.
Ver è ben che mi duole insin al core
Vederla così afflitta e così trista.
650
E s'io potessi in me coglier gli affanni
Che la trafigon così fieramente,
Ella scarca saria già d'ogni doglia.
Ma non potend'io più di quel ch'io possa
E non essendo ancor venuto Oronte
655
Qui dove egli suol pur ridursi spesso,
Voglio veder di ritrovarlo altrove
E di condurlo a lei: ch'è gran piacere
Poter comunicar gli affanni suoi
Con persona che s'ami e da la quale
660
Si speri aiuto o almen fedel consiglio.
Ma veggiolo, ch'a tempo esce di casa.
È gran pezza, Signor, che la Reina
Brama vedervi e ragionar con voi.

ORONTE.
Tornate in casa e ditele ch'io vengo.

SCENA III

ORONTE, ORBECCHE

ORONTE.
665
Difficil è ne l'onde acerbe e crude,
Quando l'irato mar poggia e rinforza,
Tener dritto il temone. Ma non deve
Però esperto nocchier perder sì l'arte
Che da l'ira del mar rimanga vinto
670
Senza opporsi al furor: che spesse volte
Vince l'altrui valor l'aspra tempesta.

ORBECCHE.
Non è meno di me misero Oronte,
Se da gli atti si può vedere il core.

ORONTE.
E s'avien pur ch'ei si sommerga in mare,
675
Gran parte di contento è non avere
Lasciato cosa a far per sua salvezza.
Però prima ch'io ceda a la rea sorte
Che dato m'ha così improviso assalto,
Usar vo' ogni mia forza, ogni mio ingegno.
680
E (se non mi s'oppone ascoso inganno)
Spero nel Re che 'l tutto ordina e regge
Vincere al fine la fortuna iniqua.

ORBECCHE.
Oimè, che sarà questo? sarà forse
Giunto novo dolore al nostro affanno?

ORONTE.
685
Ma vedi come van le cose al mondo:
Che maritar volendo la sua figlia
Il Re, mi manda me, ch'a lei marito
Sono, ha molt'anni, perch'io la disponga
Che pigli per marito il Re Selino.

ORBECCHE.
690
Lo veggio molto tristo: ir gli vo' incontro
E insieme si dorremo ambo del male.

ORONTE.
Ma di là veggio a me venire Orbecche
Tutta maninconiosa lagrimando
E penso che ne sia la cagion questo:
695
Però buon fia ch'io le mi vada incontro
Con viso lieto, ancor ch'acerba doglia
I' serri dentro al core, ancor che grave
Sia non manifestar il duol nel volto.
Dio vi dia, anima mia, pace e contento:
700
Qual van pensiero a lagrimar vi mena?

ORBECCHE.
Oimè, che mi chiedete, Oronte? Unquanco
Non ebbi tal cagion di lamentarmi,
Né voi, se il mio dolor vi fosse noto.
Giunt'è quell'ora, oimè, giunt'è quel giorno
705
Del quale esser non puote il più infelice
Per ambo noi. Perché il mio padre vuolmi
Maritare a Selin, gran Re de' Parti,
Onde bisogno fia ch'ora si scuopra
Quel che ne farà sempre esser dolenti.

ORONTE.
710
Dite, Reina, ov'è gito quel core
Che mi mostraste allor ch'a voi marito
Divenni? ov'è quell'animo reale
Che vi fe' por da canto ogni sospetto
Allora ch'istimaste più del regno
715
L'avermi? forse non pensaste allora
Che il tempo, ch'ogni cosa al fin discuopre,
Non devesse mostrare anco palese
Quel che fatto avevam tra noi occulto?
Non me 'l lascia pensar l'antivedere
720
Che so ch'è in voi, né la prudenza vostra.
E se l'animo allor di tal temenza
Maggior aveste, a che vi bisogna ora
Tanto dolere? Indarno quel soldato,
Vita mia dolce, prende in mano l'armi,
725
Che, poi che vede il suo nemico, trema.
Non vi smarrite: la rea sorte vince
Chi teme, ma s'altrui con core invitto
A lei s'oppone, ella riman perdente:
Che non nuocono a quei gli strali suoi
730
Che de la lor virtù si fanno scudo.
Il vostro padre a me il medesmo ha detto
E a voi mi manda perch'ogni arte adopri
A disporvi a voler prender marito:
E pur non son di tant'affanno pieno
735
Di quant'or sete voi. Pigliate omai,
Vita mia cara, il vostr'animo invitto
E mostratevi tal ne' casi aversi
Qual conosciuta v'ho ne la seconda
Fortuna; e insieme a questo novo caso
740
Provediamo con altro che col pianto:
Che se noi stessi a desperar si demo,
Chi ne porgerà aiuto o chi consiglio?

ORBECCHE.
Par che voi non sapiate quant'è crudo
L'empio mio padre e quant'ei poco istimi
745
Stato, imper od onor, figli e sé stesso,
Quando disposto s'è di far vendetta.
Pensate voi ch'ei fia più mite a noi
Ch'al mio fratel sia stato e a la mia madre,
Quai lo spietato insieme a un colpo uccise?

ORONTE.
750
Altra cosa fu quella; e chi ben pensa,
Altra mercé non si deveva ad ambo
Che cruda e acerba morte. Oimè, che grave
Error fu che violasse ella la fede
Data al marito e la pietà, ch'al padre
755
Deveva il figlio, sì poco prezzasse
Ch'ei con la propria madre si giacesse.

ORBECCHE.
Ben creder si potria che 'l grave oltraggio
L'avesse indutto a sì crudel vendetta,
Se stato fosse sol contra lor crudo;
760
Ma non sapete voi quanti e quanti altri,
Senza colpa nessuna, egli ha già morti?
Per qual error uccise il suo fratello,
Ch'avanzava in bontade ogni mortale?

ORONTE.
Fu cagione di ciò desio del regno,
765
Che spesso puote più d'ogni pietade.
Ma lasciando il parlar di ciò da canto,
Novo non m'è che via più d'ognun crudo
Sia stato insino ad ora il vostro padre;
Ma novo anco non m'è che non è cosa
770
Ferma così che non la cangi il tempo
E che non è cor sì ostinato e duro
Ch'a lung'andar non s'ammollisca alquanto.
Il Re Sulmone è vecchio e la vecchiezza
Scemar in parte suol l'ira e l'orgoglio
775
E 'l sangue acceso intepidire in parte,
Sì che 'l furore a la ragion dia luoco.
Però vo' che sia grave il nostro errore
E ch'ambo degni siam di cruda pena:
La grave etade in cui egli si trova,
780
Ne la qual suol poter senno e pietade,
Farà al Re più che 'l sol chiaro vedere
Che maggior il suo error del nostro fora
S'egli, per molta età maturo e saggio,
A cosa che tornar non puote a dietro
785
Penserà proveder co l'esser crudo.
Che saria poi, dopo ch'egli ambo noi
Uccisi avesse e i figli ? saria forse
Ch'io non vi fossi, come son, marito?
Voi non mi foste, come sete, moglie?
790
Però son certo che se l'ira al male
Lo spignerà, la ragione anco in parte
Gli mostrerà quel che fia il meglio; e pure
Ch'ei dia alquanto di spazio a l'ira, i' penso
Ch'ei non sarà crudel come pensate:
795
Che viene e fugge in poco tempo l'ira,
E se subito l'impeto non face,
Ella riman come ne resta l'ape
Dopo che perdut'ha l'aco onde pugne.
E quando pure incrudelire ei voglia,
800
Moglie mia cara, contra noi, il nostro
Dolersi o lamentar poco rileva;
E meglio tengo che n'affliga e strazii
La crudeltade altrui, che 'l timor nostro.
Però, volgendo ad altro omai la mente
805
Ch'a i sospiri e pensando al nostro meglio,
A me par buon (quando a voi paia) ch'io
Malecche trovi, a cui molto il Re nostro
Crede e noi di cor ama; et io lo preghi
Che col modo miglior che parrà a lui
810
Faccia noto al Re questo. E ne' Dei spero
Che di Malecche fia tanto lo ingegno
Che queterà questa tempesta orrenda
Che, nata nel tranquil del nostro stato,
Sì ne minaccia.

ORB.
Oronte, i' son confusa
815
Né so dove piegar la mente i' debba.
Cosa alcuna non ho che mi dia speme,
Come molte mi danno aspro timore:
È cresciuto co gli anni nel mio padre
L'animo fiero e s'ha cangiato il pelo
820
Non ha però cangiato ancora il vezzo.
Ma perché ne gli estremi e crudi casi
Pigliar si dee quel più saggio consiglio
Che s'offre, fate quanto a voi par buono;
E di ciò che da voi fia fatto, anch'io
825
Mi rimarò con voi paga e contenta.

ORONTE.
Io dunque me n'andrò a trovar Malecche:
Datevi intanto voi pace e sperate
Che ne saranno i Dei anco benigni.

ORBECCHE.
Dio voglia che così la cosa stia,
830
Ma temo che 'l contrario non avenga.
Pur senza voi non mi lasciate molto,
O buona che ne sia la nova o rea.

ORONTE.
Cosi farò: restate in pace.

ORBECCHE.
A Dio.

SCENA IV

ORBECCHE sola

[ORBECCHE]
Par che chi miser è poco dia fede
835
A speme alcuna e sempre il peggio tema;
Poi pare ancor che quel ch'egli più brama
Aver pur debba il disiato fine.
Così da questi due contrari anch'io
Mi trovo combattuta. E da una parte,
840
L'essere unica figlia al Re Sulmone,
E l'esser tanto caro a lui Oronte
Quanto figliuol gli fosse, e la pietade
Ch'egli m'ha sempre mostro, ancor ch'ei sia
Via più d'ognun crudele, e l'alte lodi
845
Ch'egli ha palesemente a Oronte date,
Mi dan qualche speranza. Ma da l'altra,
L'essere Oronte di vil sangue nato
(Seguendo l'oppenion del vulgo sciocco
Che gentil crede sol chi ha copia d'oro)
850
E potendomi dar a un Re per moglie
Il Re mio padre, a tal timor me induce
Ch'io tremo come l'anitra che vede
Sovra sé il fier astor per divorarla.
È vero ben che s'ei volesse a pieno
855
Co lo intiero giudicio a parte a parte
Considerare 'l giusto e non volesse
Che più potesse in lui l'oro e la sete
Del regno e de l'aver che la virtute,
Io son sicura che non pur errore
860
Non giudicheria il mio, ma di gran loda
Mi terria degna, che più tosto avessi
Voluto un uom il qual non cieco errore
O desio folle, ma giudicio certo,
Scieglier m'ha fatto tra mill'altri illustri,
865
Quantunque pover sia, ch'un Re possente
Atto più tosto ad ogni vil ufficio
Che lo scettro real tenere in mano.
Ancor che paia questi al padre mio,
Cui ha velato gli occhi il costui stato,
870
Il primo Re che mai corona avesse:
Quasi ch'egli non sappia ch'assai meglio
È a donna avere un uom cui sia mestieri
D'oro, che l'or cui sia mestier d'un uomo.
Ma la fame d'aver tant'è cresciuta
875
Che non s'istima al mondo altro che l'oro.
Povera e nuda va la virtù istessa.
Ai sciocca oppenion del volgo errante,
Ai grave error ch'i mortali occhi appanna,
Quant'altri in ciò se 'nganna! Ma lasciando
880
Questo da parte e a me tornando, io veggio
Ch'altro esser non mi fa trista e infelice
Che l'esser donna. O sesso al mondo in ira,
Sesso pien di miserie e pien d'affanni
Et a te stesso, non ch'ad altri, in odio!
885
Non credo (se lo stato miser guardo
Di noi donne) ch'al mondo si ritrovi
Sorte sì trista tra l'umane cose
Che la nostra infelice non l'avanzi.
Noi spesso insin nel ventre de la madre
890
(Pel primo don ch'a noi dà la natura,
Madre a ogn'altro animale, a noi madrigna)
Semo dal padre istesso avute in odio.
Et ove nasce ogn'animale in terra,
Per vil ch'egli si sia, libero e sciolto
895
(Don che prezzar si dee più che la vita),
Noi, lassa, noi a le catene, a i ceppi,
Oimè, nascemo e a servitù continova.
Perché sì tosto che conoscer nulla
Possiamo, benché tenere fanciulle,
900
Com'a perpetuo carcere dannate,
Sotto l'arbitrio altrui sempre viviamo
Con continovo timor, né pur ne lece
Volger un occhio in parte ove non voglia
Chi di noi cura tiene. E dopo quando
905
Pur dovremmo spirar alquanto e avere
Almen marito a nostra scielta (ancora
Che non mutiam per ciò sorte né stato
Ma sopponiamo il collo a novo giogo),
La madre, il padre od il fratello od altri,
910
Al cui severo arbitrio semo date,
Legano il voler nostro e ne conviene
Prender marito a lor volere e ch'essi
Contenti siano. E noi, che con la dote
Comperiamo i mariti e abbiam con loro
915
Viver fin a la morte, a tal siam date
Che più che 'l dispiacer sempre ne spiace.
E se forse da noi prendiam marito
E vogliam far nostro desir contento,
Stiamo a sentenza dura e proviam bene,
920
Con sommo nostro mal, che cosa importi
Uscir de l'altrui voglie. E chi nol crede
In me si specchi e la mia sorte attenda.
A me regno non giova o real sangue,
Né porpora, né scettro, né corona
925
Esser mi fa di questa sorte fuori.
Anzi, quanto maggior veggio il mio stato,
Tanto più grave la sentenza aspetto.
Deh non foss'io nel cieco mondo nata,
O morta fossi in un momento in fasce,
930
Più tosto ch'a sì reo stato esser giunta!
Ma a che vo pur giungendo pianto a pianto,
E querele a i lamenti? In van sospiro,
E quanto più penso isfogare il core,
Tanto più da dolere anco m'avanza.
935
Però chiudendo il mio dolor nel petto
Attenderò quel ch'i contrari fati
Disporranno di me misera e trista.

[CORO]

CORO
Come corrente rio sempre discorre
E non è mai una medesma l'onda,
940
Ma fuggendo la prima, la seconda
Succiede e un'altra a questa;
Così il viver mortal nostro trascorre
E non siamo oggi quelli
Ch'eri eravamo e presta
945
Più che saetta da nascosto viene
La debole vecchiezza e i bianchi velli
Accompagnati da dolenti pene.
Misero chi pon spene
Ne le cose mortai! Quanto se inganna
950
Chi pensa esser poter felice in terra,
Ove in continova guerra
Sono le cose sempre!
E s'avien pur ch'alcuna volta tempre
Qualche piacere il mal, tosto n'afferra
955
Doglia maggiore e a pena il bene appare
Ch'egli, qual neve al sol, tosto dispare.
Dunque perché nostro veder s'appanna?
Perché la nostra mente
Si dispone a sperare
960
In quel che prezza più la sciocca gente?
Non sente ella, non sente
Che quanto piace al mondo è fumo et ombra
Ch'i cor mortali ingombra?
Felice chi inalzare
965
Puote il pensiero ardente
Là dove nulla il ver piacer adombra,
E sì del cor si sgombra
I van desiri e le speranze false
Che di quanto gli calse
970
Tra noi mai per l'adietro
Diviene così schivo
Che non solo si duole
Essere stato del ver bene privo,
Ma vede assai più chiar che non è 'l sole
975
Che son tutti di vetro
I mondani contenti
Et assai men ch'i lievi venti fermi.
E chi nol crede, fermi
(Lasciando il vanneggiar mortal a dietro)
980
Gli occhi ne' dolorosi aspri tormenti
Di questi amanti a cui pensar m'impetro,
Che si tenean tra più felici i primi.
Chi fia che giusto istimi
E non giudichi infermi
985
I piacer nostri e più ch'ombra fugace
Tutto quel che tra noi diletta e piace?

FINE DEL SECONDO ATTO

Atto III

SCENA I

MALECCHE solo, consiglieri del Re

[MAL.]
Io veggio a la giornata avenir cose
Che mi fan giudicar senza alcun dubbio
Che poco veggia la prudenza umana.
990
E s'altro non vi fosse, questo solo
Ch'or ora in casa m'ha narrato Oronte,
Più chiaro assai che non è il sol me 'l mostra.
Più volte e più pregato ho il Re Sulmone
Che desse per marito Oronte a Orbecche,
995
E adducend'egli a me certi rispetti,
Deboli certo, ha recusato sempre
Voler far questo; e quasi ch'ei pensasse
Che fosse la sua figlia men de l'altre
Pronta ad amare o non sapesse ei quanto
1000
Possa uno sguardo, una parola, un riso
A destare in altrui fiamma amorosa,
Lasciat'ha conversar tanto allo stretto
Questi due insieme, che la cosa ha avuto
L'effetto che deveva aver, né mai
1005
Pensai che ne potesse altro avenire
Che quello ch'avenut'esser si vede.
Che giovane amorose e dilicate
E nodrite ne gli ozii e ne' diletti
Conversino con giovani gentili
1010
E non s'accenda fiamma ardente in essi,
Stolt'è chi il pensa. Amor ha sempre l'arco
E le saette in man, pronto a ferire;
Onde s'alcuno aver dee di ciò biasmo,
Non si puote già dir che ne sia senza
1015
Il Re Sulmon: perdonimi sua altezza.
Non sapeva egli ch'a fatica il freno
Altri pone al desio, quando l'etade,
Il commodo, l'amor, la beltà altrui
Gli sprona il cor a l'amorosa impresa?
1020
Ma ritornando onde ci dispartimmo,
Ancora che mi piaccia che sia omai
Marito Oronte a la Reina mia,
Parendomi che proprio la natura
Avesse questi due fatt'a tal fine,
1025
Pur m'è di grave affanno che 'l Re nostro
Non vi sia intervenuto et ho per certo
Che com'ei questa cosa intende, a l'ira,
A l'impeto, al furor si darà tutto.
E già mi par veder arderli il volto,
1030
Et a placarlo fia difficil cosa:
Sì perch'egli avea già promessa Orbecche
Al Re Selin, sì perché i Re, i Signori
Han, pel più, questo vizio in loro impresso,
Che com'han recusato una sol volta
1035
Alcuna cosa, ancor che buona sia
E d'utile e d'onore a l'esser loro,
Se bene andar poi vi devesse il regno,
Per non parere avere errato prima,
Non vogliono più mai ridursi a farla.
1040
Io so che 'l Re ben conosceva Oronte
Degno de la sua figlia e ch'egli istesso
Non le sapea trovar miglior marito;
Ma l'ostinazion tanto ha potuto
Che n'è rimasa vinta la ragione
1045
Et ha sprezzato ogni fedel consiglio.
Così temo ch'ancor l'ira e lo sdegno
Non faccia in ciò avenir sinistro effetto.
Ma poi ch'astretto m'ha co' preghi Oronte
Che ciò palesi al mio Signore e veggia
1050
Con quel modo miglior ch'a me fia offerto
Ch'ei di quanto fatt'è resti contento
E col voler divino si conformi,
Ancor che dura impresa assunta i' m'abbia
E mi paia impossibil questa cosa,
1055
Pur non voglio restar ch'ogni mio ingegno
Non usi e tenti ogni possibil opra
Perché nasca tra lor pace e contento:
Sì per utilità di tutto il regno,
Sì per bene comun d'ambe le parti.
1060
Ma non voglio ire al Re, com'andar soglio
Quando per l'occorrenzie e per l'imprese
De la corona ragioniamo insieme.
Aspetterò ch'egli a diporto venga
Qui dove suol, d'ogni altra cura scarco:
1065
Che l'opportunità fa aver sovente
Quel che senz'essa non si avrebbe mai;
E con l'occasion ch'allor migliore
Mi s'offrirà, farò l'ufficio a pieno.
Ma veggio ch'egli vien: voglio ritrarmi
1070
Quivi in disparte e finger non vederlo
Et aspettar che chiedere mi faccia
Per qualche messo, prima ch'io mi mova,
Perché non paia che qui atteso i' l'abbia
Per volerli di ciò mover parola.

SCENA II

SULMON Re, MESSO, MALECCHE

SUL.
1075
È quel ch'io veggio là Malecche?

MES.
È desso.

SUL.
Vanne a lui e li di' ch'a me ne venga
Con esso teco di presente.

MAL.
Parmi
Che fieramente sia turbato in vista
Il Re, cosa che 'n lui esser non suole
1080
Quando qui si riduce, né pensare
Mi posso la cagion ch'a ciò lo spinga,
Che le cose del regno han pur quiete;
S'oggi non è forse risorta cosa
Ch'ancor venuta non mi sia a l'orecchie.
1085
Il poter ragionare oggi d'Oronte
Mi sarà tolto.

MES.
Il Re nostro vi chiede,
Signor Malecche.

MAL.
I' vengo, ma di grazia
Dimmi, se forse il sai, che vuol dir ch'egli
Si mostra sì turbato ne l'aspetto?

MES.
1090
Nol so, Signor, ma gran dolore il preme
E istimo che sia in corte la cagione
Del suo dolore e che non sia da giuoco:
Che non suol un gran Re per cosa lieve
Lasciar che 'n esso possa ira né sdegno
1095
O mostrar fuor così palese il core.

MAL.
Che quel da me la vostra altezza?

SUL.
Andate
Voi altri in casa. Il saperai ben tosto
E vedrai ch'oggi non si trova fede
Né pietà al mondo; e quanto un Re può male
1100
Conoscer fede in famigliare alcuno,
Quand'i medesmi figli lor fan froda.

MAL.
Sarà palese al Re per altra via
Il tutto: ogni secreto alfin si scuopre.

SUL.
La mia figliuola, in cui sola avea posto
1105
Tutta la speme mia, tutto il mio bene,
Per cui sola i' sperava questo poco
Di viver che m'avanza esser contento,
Mostrato m'ha quanto sia stato folle
Il mio pensiero e quanto infide e ingrate
1110
Siano le donne tutte e ch'al lor peggio
S'appiglian sempre. Costei che poteva
Aver Selino, un de' gran Re del mondo,
Per suo marito, ha preso un che di vile
Sangue creato insin da' suoi primi anni
1115
Ne la mia corte s'è nodrito.

MAL.
E questi
Chi è egli stato?

SUL.
Il traditor d'Oronte,
Che mi si dimostrava sì fedele;
E due figliuoli già d'essi son nati.

MAL.
Et ond'avete voi saputo questo?
1120
Da essi forse?

SUL.
No, da la Giglietta
Sua cameriera, che dolersi insieme
Oggi sentito gli ha dopo ch'io dissi
Di dare a lei Selino e mandai lui
A pregarla a disporsi al voler mio.
1125
Oh, se veduto avesti con che viso
Dissimulò la dislealtade Oronte
Quand'io questo l'imposi e come pronto
Si mostrò a farlo, avresti detto certo
Che più fedel di lui non avea in corte.
1130
E se sentito avesti le parole
De la mia scelerata e iniqua figlia
E udite le querele e visti i pianti
Che da gli occhi versò, fingendo amore
Verso di me, certo creduto avresti
1135
Che figlia non amasse padre mai
Tanto, quanto costei mostrava amarmi.
Ma stiano ambo sicuri che n'avranno
Guiderdone da me degno del fallo.
Ma pria ch'io mi disponga a la vendetta,
1140
Voluto ho che tu intenda quanto i' m'abbia
Di tal figlia lodare e di tal servo
E pigliar teco il modo con ch'io possa
Di tal oltraggio far piena vendetta:
Che gran vendetta grave ingiuria amorza.
1145
Sì che bramo d'udir ciò che ti paia
Ch'io debba far in così acerba offesa.

MAL.
Duolmi, Signore, ch'avenuta cosa
Vi sia che sì vi spiaccia e s'io potessi
Far che 'l fatto non fosse, i' farei certo
1150
Quel ch'a servo fedel far si conviene.
Ma essendomi ciò tolto e voi chiedendo
Che 'l parer mio sovra di ciò vi dica,
I' dico, Sir, poi ch'altro non si puote,
Ch'assai meglio sarà de la vendetta
1155
Accommodarsi al tempo, a la fortuna,
Che la prudenzia altrui qui si conosce.
Alcun non è che la seconda sorte
Non sappia lietamente sostenere,
Ma pochi son che la fortuna aversa
1160
Sappiano tolerar prudentemente.
E come si conosce un buon nocchiero
Quando il mar freme e la tempesta cresce,
Via più che quando il mar senza onda giace,
Così, Signor, l'altrui valore e 'l senno
1165
Ne le cose contrarie a pien si mostra.
Però assai meglio fia che vostra altezza
Perdoni loro il lor fallir e tenga
L'un per gener fedel, l'altra per figlia:
Sì perché basta che menoma pena
1170
Imponga per gran fallo a i figli il padre,
Sì perché 'l far vendetta è d'ognun proprio,
Ma il perdonare è da Signor gentile.
E quanto d'un uomo è maggior lo stato,
Tant'esser dee di più placabil ira,
1175
E quanto men quest'è osservato al mondo,
Tant'esser dee da più tenuto quello
Ch'ad atto sì cortese il core inchina.

SUL.
Avrò per figlia una che me da padre
Non tiene? e per fedele un che me 'nganna?
1180
Semplice ben sarei più d'ogni sciocco
S'io mi lasciassi por questa su gli occhi
E non mostrassi a l'uno e a l'altro quanto
Aver poco rispetto a un Re sia grave.
Vedrà quel traditor, vedrà la figlia
1185
(Se figlia si dee dir femina tale)
Ciò che possan gli scettri e le corone
E s'io saprò mostrare ad ambo loro
(Com'a molti ho mostrato) esser Re vero.

MAL.
Signor, gli scettri e le corone mai
1190
O 'l far vendetta de gli oltraggi avuti
Non mostraro alcun Re.

SUL.
Ma che 'l dimostra?
Ch'ei s'offra a ognun per manifesto segno
Ove si drizzi ogni nefanda ingiuria?

MAL.
Questo non dico io, Sir, che un uom Re mostri,
1195
Ma un animo gentile, un core invitto,
Una ferma prudenzia, un pensier saldo
Di dominar, più di ciascun, sé stesso;
E questo è posseder maggiore impero
Che se servisse a un Re l'orto e l'occaso.
1200
Com'esser può ch'altri mai regga altrui
E regger sé non sappia? Il maggior segno
Che mostrar possa un uom degno d'impero,
È non lasciar sé vincere al furore,
Che spesso l'uom conduce ov'ir non deve.
1205
E s'è così, come cert'è palese,
Qual mai più certa prova, alto Signore,
Potrete voi mostrar d'esser Re vero,
Di questa che vi s'offre ora dinanzi?

SUL.
Dar mi vuoi a veder che 'l bianco è nero
1210
E che l'espresso mal mi torna in bene,
Malecche? quasi ch'un fanciullo i' fossi
E scerner non sapessi il ver dal falso?
Tu sei ben fuor di te.

MAL.
Dite, Signore,
Di me ciò che vi piace, ch'ogni cosa
1215
Che mi viene da voi m'è onore e pregio.
Ma ben vi prego che vi piaccia udire
(Poi che chiesto l'avete) il parer mio:
Che per ciò non si toglie a voi l'arbitrio
Che non facciate ciò che vi fia a grado.
1220
E vi prego anco che per certo abbiate
Che non sono per dirvi altro che 'l vero
E che m'è via più a core il vostro meglio
Che 'l proprio mio, non che quel d'alcun altro.

SUL.
Or segui.

MAL.
Invitto Sire, i' tengo certo
1225
Che quanto l'uomo più l'animo piega
A la virtute, ch'è sol propria a l'uomo,
Tanto più sovra ogn'uomo uomo si scuopra.
Però quant'altri più umanità mostra,
Tanto più giustamente uom si può dire.
1230
Appresso i' credo che quanto più onore
A gli alti pregi suoi aggiunge altrui,
Tanto più la sua gloria e 'l pregio accresca.
E per queste ragioni or i' conchiudo
Che se volete che da ognun si dica
1235
Che quanto voi di gran potenzia e stato
Di gran lunga avanzate ogni mortale,
Così anco molto e molto il sovrastate
In mostrarv'uom, devete dar perdono
A la figliuola e a Oronte; e che la gloria
1240
Ch'acquisterete in perdonar tal fallo
Farà maggior qualunque vostr'onore.
Ch'ancora che vi sia di somma loda
L'aver tante battaglie e tante vinte
E soperati i popoli nemici
1245
Et estesi i confini de l'impero
Tanto quant'altro Re mai fosse in Persia,
Pur non istimo ch'ugguagliar si possa
A questa quella loda. Perch'al mondo
Forza non è sì grande o sì gran copia
1250
Di genti armate o sì munite torri
Ch'esser non possan superate in tutto
Dal ferro, dal valor, da la potenzia.
Ma vincer sé medesmo e temprar l'ira
E dar perdono a chi merita pena
1255
E ne l'ira medesma, ch'è nemica
A la prudenzia et al consiglio altrui,
Mostrar senno, valor, pietà, clemenzia,
Non pur opera istimo di Re invitto,
Ma d'uom ch'assimigliar si possa a Dio.
1260
Questa sol è, sol questa è la vittoria
Vera nel mondo, e sol di questa deve
Sovra ogn'altro trionfo un Re lodarsi:
Perché 'n vittoria tal non riman parte
Ch'appartenga a' soldati o a la fortuna,
1265
Ma tutta del Re solo è questa gloria.
Però i' vo', Sir, che voi pensiate certo
Che perdonando questo fallo, come
Devete perdonar, non pur voi stesso,
Ma la vittoria istessa avrete vinto;
1270
E che non sarà gente o lingua alcuna
Che per così onorata e sì bell'opra
Non alzi il vostro nome insino al cielo.

SUL.
Facile è dar ne' casi altrui consiglio,
Ma se tu fossi me, ciò non diresti.

MAL.
1275
Signor, per quella fé che vi mi stringe
E vi mi fa leale e fedel servo,
Altro non vi dic'or di quel ch'io sento
E di quel ch'io farei s'io fossi voi.
E quando i' mi pensassi che 'n piacere
1280
Vi fosse che più oltre i' ragionassi
Di questo, forse, oltre le ragion dette,
I' vi farei veder con più efficaci
(Non perch'io istimi esser di voi più saggio,
Ch'avanzate in prudenza ogni mortale,
1285
Ma perch'io so che spesso l'ira toglie
Il veder ad altrui quel che bisogna)
Ch'altro far non si dee di quel ch'io dico,
In cosa tal che voi anco direste
Ch'io dico il ver.

SUL.
Di' pur ciò che ti piace
1290
Senza sospetto alcun, che mi fia a grado
Udirti.

MAL.
Adunque, alto Signore, i' dico
Che non è, come dite, traditore
Oronte, per aver questo comesso.
Ben traditore ei si potrebbe dire
1295
Se l'onor tolto a vostra figlia avesse
Senza averla per moglie, com'a molti
Oggi veggiamo far. Ma poscia ch'ella
Mogliera gli è, non so veder che questo
Altro ch'error d'amor chiamar si possa.
1300
E se volete incrudelire or tanto
Contra costui che con sì ferma fede
La cara vostra figlia ha amato et ama,
Chi prometter si può bene di voi?
Si deono perdonar simili errori
1305
Da un magnanimo core, e lo vi mostra
Pisistrato a cui fu la figlia propria
Basciata da l'amante ne la strada.
Egli non corse a le catene, a i ceppi
O a' martiri o a la morte, come molti
1310
De' suoi volean; ma sapendo ei che male
(Per chiara isperienza e certi essempi)
Resister puote un giovane a le fiamme
D'amore, n'iscusò l'acceso amante
E del comesso error diè lui perdono:
1315
Volendo che più tosto la ragione
Cosa il facesse far degna di lui,
Che fuor del giusto il traportasse l'ira;
Sapendo che ne segue la vendetta
Fatta senza ragion la penitenzia,
1320
La quale, essendo intempestiva e tarda,
Altro non porta a l'uom ch'affanno e doglia.
Forse direte ch'a ragion vi mena
A far vendetta contra Oronte il vile
Stato in ch'egli già nacque, a l'alto vostro
1325
Difforme in tutto. Et io vi dico, Sire,
Che l'esser nato di vil sangue Oronte
(Per quanto insino ad ora abbiamo inteso,
Ch'esser potrebbe forse anco il contrario)
Accender non vi dee contra di lui.
1330
E lasciando or da parte che siam nati
Da un medesmo principio tutti e uguali
N'abbia prodotti qui l'alma natura,
Se la cieca, fallace e ria fortuna,
Ch'a ogni spirto gentil sempre è nemica,
1335
Riguardo avesse avuto a la virtute,
Ch'ecceder sola fa in nobiltà altrui,
Degno era Oronte d'ogni grande impero;
Né testimonio voglio altro che 'l vostro
A provar questo: che quantunque servo
1340
Insino da fanciul l'abbiate avuto,
Conosciuto ch'avete il suo valore,
In questa verde età l'avete dato
Tutto lo stato vostro ne le mani,
Più tosto ch'a nessun de' più maturi
1345
De la progenie vostra. Ond'io ne lodo,
Invitto Sire (se mi lece dire
Quel ch'io sento di questo), in questa parte
Molto il consiglio de la figlia vostra
Che voi così dannate: che più tosto
1350
Abbia voluto un uom di basso stato
Ma d'animo real, ch'un Re ch'avesse
Imperio grande e cor d'un uom del vulgo.
Né perch'Oronte sia povero deve
Esser men caro a voi, perché l'avere,
1355
I ben de la fortuna, ch'oggi sono
D'uno e diman d'un altro, son caduchi
E si vengono e van qual onda al litto:
Onde spesso si vede che quei c'hanno
L'arche gravi d'argento e gravi d'oro
1360
Divengono mendichi e ch'i mendichi
Son alzati a gli scettri, a le corone.
E per questo io non ho istimato mai
Ch'altri per molto aver si possa dire
O nobile o gentil, com'altri crede.
1365
Parmi che sia ne la virtute sola
(Stabil bene de l'uom) nobiltà vera
E ch'ella più d'ogni richezza vaglia.
E più dirò: che povertade onesta,
Da nobili virtuti accompagnata,
1370
Stat'è preposta da' più saggi a i regni
Et a' maggiori imperi; et hanno tanto
Tenuto un uom potente, quanto in lui
Han veduto virtute. Ma se pure
Sol i gran regni appresso di voi ponno,
1375
Può vostra altezza, Sir, porger rimedio
A quest'oltraggio, a questa grave ingiuria
Che fatt'ha a Oronte la fortuna iniqua.

SUL.
Che poss'io forse far d'una colomba
Un'aquila? o d'un toppo un leon fiero?

MAL.
1380
Sì potete, Signor, quando vi piaccia:
Perché non avendo altri voi che questa
Figlia, lasciar potete Oronte et ella
Del regno eredi e a questo modo avrete
Gener ugual al vostro eccelso stato.

SUL.
1385
Io lo farò ben Re per modo tale
Che gli dorrà d'avermi unqua veduto.

MAL.
Egli è ne le man vostre, far potete
Di lui ciò che vi piace. Ma se l'ira
Cederà in parte a la ragione, al giusto,
1390
Muterete consiglio e voi voi stesso
Riprenderete di sì stran pensiero;
E non permetterete che quel core
Che vincer non potero arme nemiche,
A un subito furore or come vile
1395
Si sopponga e di Re divenga servo.
Tanto più quanto mi dà il cor mostrarvi
Che quando avesse ben Oronte errato,
Il gran giudicio della figlia vostra
In aversi più tosto che Selino
1400
Eletto Oronte per marito, merta
Ch'ad ambedue doniate omai perdono.

SUL.
Tu mi vuoi far, Malecche, uscir del giusto
Con queste tue parole.

MAL.
Ah, Sir, di grazia
Non v'adirate e piacciavi ch'io segua
1405
A dirvi questo poco che m'avanza.
Che s'io non vi dimostro ch'assai meglio
Di voi ha eletto in maritarsi Orbecche
E che di maggior utile e più requie
E più contento esser vi deve ch'ella
1410
Più tosto Oronte abbia che 'l Re Selino,
Io voglio che non pur l'ira sfogiate
Sovra ambo lor, ma sovra questo vecchio
Che torria di morir per l'onor vostro.

SUL.
Deh, se questo mi mostri, creder voglio
1415
Che si possan nodrir ne l'aria i cervi.

MAL.
Mostrerolvi, Signor, pur che vi piaccia
Deppor lo sdegno e dar benigna udienza
A quel ch'io vi dirò con vera fede.

SUL.
Or segui.

MAL.
Voi, eccelso Sir, la figlia
1420
Dar volevate per mogliera ad uno
La cui progenie al vostro regno infesta
È stata sempre, ad un che non ha un anno
Che due figliuoli e due fratei v'ha morti
E tanto sangue sparso a la campagna
1425
Del popul vostro che ne grida e geme
Ancor questa città di parte in parte:
Et ella ha tolto un che la morte e 'l fuoco
Col suo invitto valor ben mille volte
Levato ha 'n tutto da l'impero vostro.

SUL.
1430
E questo è quel che più mi pesa e duole,
Che così i' volea por un giorno fine
A tante guerre e fermar ben la pace
Al popul mio, né via miglior di questa
Si potea ritrovar.

MAL.
Dunque, Signore,
1435
Pensate voi che quella man ch'ancora
Stilla del sangue de' parenti vostri
Et ha da far di tant'altri vendetta
Che morti son da la sua parte, mai
Debba portare al popul vostro pace?
1440
Io crederei più tosto che la neve
Esser potesse fuoco e 'l fuoco ghiaccio,
Che ciò mai fosse stato. Ei mi parea
Veder ir sottosopra il vostro regno
E tutta al fin la vostra gente serva.
1445
Oh se sentito aveste, Sir, com'io,
Quanto aborrisce questo il popul tutto,
Giudichereste che l'eterno Giove
Concesso a vostra figlia avesse Oronte
Per levarvi d'impaccio e darvi requie!
1450
E che sapete che non pari insidie,
Sotto questa coperta, il Re Selino
Al vostro capo, al vostro stato tutto,
Per ottenere con inganno quello
Che con valore alcun non ha potuto?
1455
Cosa alcuna sicura in un nemico
Istimar non si deve; anzi, s'ei mostra
Volerti esser amico e cercar pace,
Dèi allor più temer guerra crudele.
Non sapete, Signor, che sotto spezie
1460
Di parentado e di maritai legge
Condusse già d'Egitto i figli a morte
Danao fiero? Forse a questo ancora
Aspira ora Selino. Oh quant'è meglio
Ch'abbiate gener che da voi conosca
1465
L'impero, ch'un che voi d'impero privi
O vi dia almen cagion di lungo affanno!
Già merta questa età canuta e grave
Pace e riposo, non travaglio o guerra.

SUL.
Chi volesse sempr'ir dietro a' sospetti,
1470
Non si conduria a fin mai cosa alcuna.

MAL.
Già non si dè, alto Sir, per ogni cosa
Temer, ma chi non teme anco di quello
Che potrebbe avenir, molto s'inganna,
Massimamente quand'i fatti altrui
1475
Pongono l'avenire innanzi a gli occhi.
Felici quei che da i successi d'altri
Si fanno cauti! Ond'io vi prego, Sire,
Che più tosto vogliate che gli altrui
Casi a voi diano lume, ch'altri pigli
1480
Da la fortuna vostra altiero essempio.
Ma lasciam, se vi par, tutte da canto
Queste ragioni, ancor che siano tali
Che vi devrian piegar se fost'un marmo.
Quanto vi fia di biasimo s'or voi,
1485
Che carco sete di molt'anni e saggio
Sovra ogn'altro Signor che regga il mondo,
Lasciate la ragion sì in preda a l'ira
Che quel che 'n gioventù biasmato avreste
In qualunque uom, vogliate ora far vecchio?
1490
Deh piacciavi, Signor, ch'Oronte e Orbecche
Sian più tosto biasmati del lor fallo,
Al qual condutto gli ha poco vedere
E che puote emendare il vostro senno,
Che con inesorabil impietade
1495
Voi ne macchiate la prudenza vostra
Et il nome real pel fallir loro:
Che ciò giunger sarebbe errore a errore,
Non emendar quel ch'emendar cercate.
E tengo meglio ch'un riceva ingiuria,
1500
Che per vendetta far macchi il suo onore;
Et è assai meglio, Sir, che vi dispiaccia
Questo lor fatto, ch'a buon fin può uscire
Et a contento vostro, che per fare
Vendetta impetuosa, poi col tempo
1505
Ne dispiacciate voi a voi medesmo:
Ch'altro non può avenir di ciò, se voi
Date in preda al furor l'animo vostro.

SUL.
Dura cos'è, Malecche, che da l'ira
Non sia vinto quell'uom che da coloro
1510
Che devriano onorarlo e riverirlo
E mostrarlisi grati de' piaceri,
Nel proprio sangue vede farsi oltraggio.
La ragion non può a l'ira in ciò por freno
E veggonsi ogni dì di questo essempi.

MAL.
1515
Sì, in que', Signor, che son senza ragione
Et entro a sé non han virtù che possa
Mostrarli il ver, quando gli assale l'ira;
Anzi, quanto altri più cerca levarli
Fuor del furor con dimostrarli il vero,
1520
Tanto vi si sommergon maggiormente.
Ma se pur l'ira un uom prudente assale
(Che non è in noi frenar gl'impeti primi),
Sì ch' egli il meglio suo da sé non vegga,
Tosto che gli si fa vedere il giusto,
1525
Apre lo 'ngegno e da sé scaccia l'ira.
E s'io per lunga prova non sapessi
Quanto sia immensa la virtute vostra
E quanto volentieri a la ragione
Vi date in guida, i' non m'avrei giamai
1530
Preso baldanza di mostrarvi quello
Che con lungo parlar vi ho dimostrato.
E così come il saper vostro e 'l vostro
Saggio consiglio e la prudenza vostra
M'han dato ardir di dir quel ch'i' v'ho detto,
1535
Ora anco m'assicuran quelle istesse
Alte virtuti che la vostra altezza
S'appiglierà al miglior e vedrà chiaro
Che non dee questo error tòrvi ch'Oronte
E la figlia da voi perdon non abbia;
1540
E che 'n voi più potrà quel lungo amore
Ch'avete ad ambo lor sempre portato,
Che questo subito odio e questo sdegno.
E quando ciò non vi movesse (cosa
Ch'io non posso pensar che 'n voi mai venga),
1545
Movanvi i figliuolini a voi nepoti:
Che per esser del sangue vostro nati
Potransi assimigliar a voi, lor avo,
Et esser lumi di virtuti al mondo
E vèr di voi sostegno. E se pur questo
1550
Poco in voi può, che devria poter molto,
Muovavi il vostro onor, che (com'ho detto)
Essere non vi può se non disnore
Così fatta vendetta. E s'anco questo
Poco istimate (il che non credo), almeno
1555
(Se nulla puote appo un Signore eccelso
Il servir d'un leale e fedel servo)
Possa la fede mia tanto ora in voi
E 'l mio lungo servir, ch'impetri pace
A la vostra figliuola, al vostro Oronte.

SUL.
1560
Malecche, in me assai puote il lungo amore
Portato a Oronte e la pietate immensa
Con c'ho la figlia mia insino or amata
E molto istimo la tua lunga fede
E tanto ponno in me le tue parole
1565
Che commover mi sento insino a l'alma
Mentre i' t'ascolto. Ma se poi rivolgo
A questa ingiuria il cor, tutto m'inaspro
E spezialmente contra Oronte, ch'abbia
Per nulla avuto farmi ingiuria tale.

MAL.
1570
I' credo, Sir, che glie ne pesi e dolga,
Né che fatto abbia ciò per farvi oltraggio,
Ma che, vinto d'Amor, fuori del giusto
Si sia trascorso e sia lui stato tolto
Da focoso desio vedere il meglio.
1575
Ma posto ancor che questo oltraggio fosse,
Come non è, se fosse anco maggiore,
Il raccordarvi de' gran fatti egregi
Fatti da lui per la corona vostra
Devriano estinguer questo vostro sdegno
1580
Et ammollire ogni durezza. E quando
Cosa altra alcuna a ciò non vi movesse
(Benché molte ve n'ha che devrian farlo),
I' prego che non v'esca de la mente
Quello infelice e lagrimevol tempo
1585
Ch'i Parti, ch'avean già tutto l'impero
Vinto, l'assalto diero a questa terra
Con forza tal, con così estremo assedio
Ch'alcun non v'era che non desperasse
Di poterli resistere e temeva
1590
Ognuno uscir fuor de le mura. Oronte,
Stimando assai più voi che la sua vita
(Sprezzato ogni pericolo), uscì fuori
E ne scacciò Selino che portava
Il fuoco ardente a tutto il vostro impero
1595
E estremo eccidio a la corona vostra:
Scacciollo, dico, sì animosamente
Che parve tra que' Parti un novo Marte
E servò voi al regno e 'l regno a voi.
Veggio, Signor, che queste mura istesse
1600
E le colonne e i pavimenti e i tetti,
Non che quei c'hanno spirto e senso d'uomo,
Vinte da beneficio così raro,
Per dimostrarsi grate del piacere
Ricevuto da lui, vi cheggion meco
1605
Pietade per Oronte; e lagrimando
Pregan che s'egli ha voi servato e loro
Col proprio sangue e co la propria vita
Da servitù, dal fuoco e da la morte,
Non vogliate ora voi distrugger lui
1610
E far che crudeltà sia il guiderdone
Di così illustre et onorata impresa.
Perdonateli, dunque, omai il fallo
E levivi del cor questo ogni sdegno,
Che certo i' son che d'ora in ora tanto
1615
Contento avrete di sì benign'opra,
Per diversi rispetti, che fia vinto
Da la gioia il dolor ch'ora sentite.

SUL.
Grave cosa mi par, Malecche, questa
Che tu mi chiedi e che sia un dar baldanza
1620
Di farmi peggio ancor di quel ch'è fatto.
Ma per le ragion dette e per tuo amore
E per amor di quei nepoti i quali
M'hai col tuo dir così nel cor impressi
Ch'io li bramo veder più che la luce,
1625
E per questa illustre opera ch'adesso
M'hai raccordata, di cui la memoria
Grata ancor mi si serba ne la mente,
Son contento di far quanto m'hai chiesto.
E per segno di ciò, te' questo annello
1630
E dallo a Oronte in succession del regno
E fa' che di presente qui ne venga
La moglie et egli et ambo i figli insieme,
Acciò che tutti io li mi goda a un tratto.

MAL.
Signor, questa bontà ch'ora m'avete
1635
Mostrata, sì vi m'ha obrigato ch'io
Mi doglio quasi che 'n me non sia parte
Che non sia già buon tempo tutta vostra,
Perché or potessi darla almen per segno
Espresso a voi de la mia grata mente.
1640
Ma bastivi, Signor, che 'l vostro servo
Tant'or vi dia quanto donar vi puote,
Cioè questo sincero animo mio,
Tant'or più a voi del consueto astretto,
Quanto questo piacer ogn'altro avanza.
1645
Ora io me n'andrò dentro ad Oronte
E condurolli tutti innanzi a voi,
Acciò ch'abbiate insieme ugual letizia.

SUL.
Et io t'aspetterò qui, ma vien tosto.

MAL.
Io ti lodo, alto Dio, che 'n questo core,
1650
Che sempre è stato dur più d'ogni pietra,
Ho trovato pietade in questo giorno.
È vero certo ch'appo il Re del cielo
Impossibil non è cosa nessuna.

SCENA III

SULMONE solo

[SUL.]
Malecche, in questa età canuta, sciocco,
1655
Si pensa con sue favole e sue cianze
Il cervello intorniato avermi in guisa
Ch'io non debba mostrare al traditore
Di che importanzia questa ingiuria sia!
Egli è ben d'ogni ingegno in tutto privo
1660
E ne sarei ben poco saggio anch'io
S'io mi lasciassi ciò por ne la testa.
Io non conosco al mondo uom così vile
Che potesse soffrir sì grave scorno.
Questi ha macchiato il mio sangue e l'onore
1665
E la real corona: ma stia certo
Che sì nel sangue suo Sulmon le mani
Si bagnerà, che ne sarà lavata
Tutta questa vergogna e questa ingiuria.
N'egli pur sol, ma i figli anco faranno
1670
Del paterno fallir la penitenzia.
E giusto è ciò: perch'egli a me, a la figlia
Ha fatto gran disnor, i figli et egli
Ne debbono portar debita pena.
Che temi, animo mio? che pur paventi?
1675
Accogli ogni tua forza a la vendetta
E cosa fa' sì inusitata e nova
Che questa etade l'aborisca e l'altra
Ch'avenir dee creder noi possa a pena.
Questo giorno ci dà degna materia
1680
Di dimostrare il poter nostro al mondo.
Però cosa non sia che ne ritragga
Da la incominciat'opra et ogni spezie
Di crudeltà da noi oggi si tenti.
Sono innocenti i figli, e siano: sono
1685
Figli d'un traditore e al padre anch'essi
Saranno in tutto simili e se bene
Devesser tralignar dal seme loro
Et essere i meglior del mondo, sono
Del ricevuto oltraggio indizii certi.
1690
Però muoiano anch'essi, perché parte
Nessuna di vendetta a far mi resti.
Non è, non è la ingiuria mia da scherzo,
Né scorno è questo che per poca pena
Si possa cancellar da l'onor mio.
1695
Ma che farò de la malvagia figlia?
Debb'io le mani por nel proprio sangue?
Sì devrei ben, s'al suo fallir guardassi,
Ma s'io ne posso far vendetta intiera
Senza la morte, non fia meglio? Meglio
1700
Fia questo certo. E che pena maggiore
E più atta a la vendetta dar le posso
Che con quello ond'avea sommo diletto
Darle crudele e 'ntolerabil doglia?
Se l'uccido, fia fine al suo dolore:
1705
Che la morte a chi è miser non è pena,
Ma fine de la pena e de l'angoscia.
Però se viva ne riman costei
E co gli occhi ambe due i suoi figli vegga
Morti e 'l marito, tal sarà l'affanno
1710
Che n'avrà invidia a que' che son sotterra:
Che d'ogni morte è via più grave sempre
Una infelice e miserabil vita.
Questo mi piace, a questo omai disponti,
Animo mio, né ti distorni nulla:
1715
Che chi non fa vendetta d'uno oltraggio,
Ad aspettarne un altro s'apparecchia.
Biasmato ne sarò? Che biasmo puote
Avere un Re di cosa ch'egli faccia,
Le cui opere tutte sotto il manto
1720
Real stanno coperte? E come a forza
Soffrir le dee ciascun, così lodarle,
O voglia o no, dal gran timore è astretto.
Quest'è proprio de' Re, che l'opre ree
Ch'essi si fan, siano da ognun lodate.
1725
Abbiansi gli altri pur le lodi vere,
Queste son nostre e deono seguir sempre
Quel ch'è più loro a grado i Re possenti;
E s'altrimenti fanno, essi son servi,
Del real nome indegni e de l'impero.
1730
Ma veggio che ne vengono a me insieme:
Ristringer voglio l'ira e simolare
Esser pien di contento e d'allegrezza
E accompagnar co le parole il viso,
Perché non abbian del pensier mio indizio.

SCENA IV

MALECCHE, ORONTE, ORBECCHE, SULMONE, CORO

MAL.
1735
Io non m'avrei giamai pensato, Oronte,
Che ci fosse venuto così a punto
Quanto noi volevamo. Certo i Dei
Ci sono stati assai prosperi. Or meco,
Alta Reina, e tu con lei, Oronte,
1740
Rendete grazie lor di merto tale.

ORON.
Malecche, ancor ch'a me novo non sia
Che senza volontà de' Dei del cielo
Non ha buon fin cosa mortale alcuna,
Pur istimo ch'ancor per opra vostra
1745
Mi sia questo avenuto; e com' i Dei
Tutti ringrazio, così rendo a voi
Grazie immortai del ricevuto bene.
E quantunque ora a pien mostrar non possa
Quant'obrigo abbia a la bontade vostra,
1750
Pur voglio che crediate che se mai
Averrà ch'io vi possa a modo alcuno
Mostrar l'animo mio, compiutamente
Mi troverete grato del piacere
Ricevuto da voi; e più che 'n voce
1755
Ora non faccio, i' vi farò palese
Co' fatti chiari allor l'animo mio.
Prosperin pur i Dei le cose nostre
Com' incominciat'han.

ORB.
Così li prego,
Ma un non so che di tristo il cor mi preme
1760
E non so la cagion del mio timore.
Mi veggio il bene innanzi a gli occhi e tremo
In mezzo a l'allegrezza e temo l'amo
Ascoso sotto l'esca e 'l fel nel dolce.

MAL.
Deh non vogliate voi per voi medesma
1765
Esser nemica a l'allegrezza vostra,
Alta Reina, anzi scacciate fuore
Quanto di tristo il cor vi preme e 'ngombra.
Non vedete del ben gli espressi segni?
Ecco, ha promesso il regno a Oronte e voi
1770
Co' figli insieme così allegramente
Aspetta, che gli par un'ora mille
Che vi raccolga tutti entro le braccia,
E pianger visto i' l'ho de la dolcezza.

ORB.
Deh, voglia Dio ch'ei non piagnesse allora
1775
La calamità nostra e 'l nostro fato:
Che bench'io veggia e senta e a pien conosca
Il mio gioire espresso, il cor non puote
Non sospirare; e non mi par buon segno
In cosa tal, da me bramata tanto,
1780
Non potermi allegrare.

ORON.
E che temete?
Abbiam ciò che vogliam. Gran cosa è questa,
Che sian le donne così pronte sempre
A divinare il mal! Bene sperate
E bene vi averrà.

ORB.
Già non voglio io
1785
Turbare il piacer vostro; e prego i Dei
Che vane sian le mie temenze e ferme
Sian le vostre speranze e i piacer vostri,
E ch'i sospetti miei s'abbino i venti.

ORON.
Deh ditemi, di grazia, per qual cosa
1790
N'avrebbe il Re mostrato tanto amore
E mandatone segno così espresso
De la sua pace, s'ei volesse poi
Mancar di fé?

MAL.
La fé, Reina, è proprio
Ne' Re, come ne' corpi nostri l'alma.
1795
Che come non si può tenere in vita
Questa caduca salma
Dopo che s'è da lei l'alma partita,
Così se restan vuote
Le promesse de' Re di fé, non puote
1800
Esser più cosa in lor che Re gli mostri.
Perché le gemme e gli ostri
O 'l posseder molt'oro
Non fa Re altrui, se de la fede è privo,
Che più val del poter, più del tesoro.
1805
Però vo' che crediate questo vero,
Che ne potria lo impero
Perder pria il nostro Re, che mai smarrita
Volesse ch'apparisse in lui la fede.
Vedete con che lieto
1810
Aspetto egli vi mira.
Questo sol vi dee far l'animo queto
E tòrvi ogni sospetto:
Che quantunque altri l'ira
Cerchi chiuder nel petto
1815
E quantunque usi ogn'arte
Perché l'animo suo nessuno intenda,
Forz'è che si comprenda
(Mal grado suo) l'irata mente in parte:
Che si scuopre di fore
1820
E nel viso dimostra aperto 'l core

ORON.
È come dite, n'esser può altrimenti:
Però andiamosi al Re.

ORB.
Par ch'io non possa
Movere i piedi, e pure andar vorrei,
E par ch'abbia chi a dietro mi ritragga.
1825
Ben ti prego, Signor che reggi 'l mondo,
Che s'avenir mi dee cosa maligna,
Pria ch'io mi vada al padre, io me ne moia.

MAL.
Non più sospiri omai, alta Reina:
Andiamo insieme e a me lasciate il peso
1830
Di fare al Re quelle parole ch'io
Conoscerò opportune in questo caso.

ORON.
Andiàn, Malecche, e voi parlate prima,
Poi ch'avete insin qui condotto il fatto.

MAL.
Invitto Sir, da parte vostra ho esposto
1835
A pieno a Oronte e a la figliuola vostra
Quanto detto m'avete: essi ve n'hanno
Le grazie che per lor si pòn maggiori;
E quanto il loro error veggon più grave,
Tanto conoscon più la bontà vostra.
1840
Eccovi Oronte, ecco la figlia e i cari
Vostri nepoti, a la vecchiezza vostra
Fidi sostegni e successor del regno,
Ne le cui faccie sì scolpito sete
Che vedervi mi par ringiovenire
1845
Felicemente nel bel viso loro.
Accoglieteli Sire, e lor mostrate
Che quanto detto gli ho per nome vostro,
Tant'è per attenerli vostra altezza.

SUL.
Non venne ad alcun men mai la mia fede
1850
Quando ad altrui con fé legata i' l'abbia.

ORON.
Non dubito, alto Sir, che vostra altezza
Non sia per attenermi con fé quello
Che 'l suo fedele consiglier Malecche
Sotto il pegno di fé dianzi m'ha detto
1855
A nome d'essa. Sol vi cheggio, Sire,
Di spezial grazia, che dopo che tanto
Estesa s'è la gran bontade vostra,
Che imputar non vogliate il mio fallire
A dislealtà o ad oltraggio, ma a l'amore
1860
Che puote troppo più che non poss'io,
A l'età giovanile, atta ad errare
Via più d'ogn'altra. E de l'error commesso
Ve ne cheggiàn perdon la figlia et io;
E me con ella et ambo i figli insieme
1865
Commetto a questa man, non men di fede
Che di rara fortezza espresso pegno.
E ben ch'io so che 'n me cosa nessuna
È che possa ugguagliare il dono ch'io
Da vostra maestà ho ricevuto oggi,
1870
Pur v'offro questa vita, sempre pronto
Ad esporla per voi dove bisogni,
E sempre cercherò che questo errore
In tanto sia da le buone opre vinto,
Che conoscer potrete agevolmente
1875
Quanta sia la mia fede.

ORB.
Et anch'io, padre,
Perdono a vostra altezza umile i' cheggio.

SUL.
S'io dessi ad ambo voi del fallir vostro
Debita pena e vi mostrassi quanto
Sia stato avermi offeso iniquo e grave,
1880
Non farei cosa men che giusta e meno
Che dicevole al mal da voi commesso.
Ma il pregar di Malecche, c'ha potuto
Appresso me quel che poter devea,
E l'amor col qual voi amo et i figli
1885
Vostri e nepoti miei, dispor mi fanno
A fare oggi di voi quel che far voglio.
Però con quella fé che dianzi i' diedi
A Malecche per voi e ch'ei vi ha data
A nome mio, perdono a te il tuo errore,
1890
Oronte, e a te il tuo, Orbecche. E te per figlia,
Cara non men di quel ch'esser mi dèi,
Accolgo e te per mio genero e questi
Dolci fanciulli per nepoti miei,
Non men da me che siate voi amati.
1895
Nepoti miei, anzi miei dolci figli,
Quanto cari mi sete! Oh quanto bene
Conosco in voi il mio medesmo aspetto!

CO.
Poi che felice effetto,
Coppia fedele, amica,
1900
Ha dato a' tuoi desiri
Il ciel benigno, in vece de' martiri
Che minacciava a te sorte nemica,
Prego che dolce affetto
Così t'ingombri il petto
1905
Che non t'offendan mai pianti o sospiri,
E così vane sian tutte l'insidie,
Che 'l tuo dolce gioir nulla t'invidie.

SUL.
Così vi veggia lieti sempre, come
V'accetto per ostaggi de la pace
1910
Fatta tra noi; così mi doni il cielo
Grazia che far vi possa aver quel bene
Ch'io bramo che v'abbiate e v'apparecchio
E che dar penso anco a' parenti vostri,
Per voi medesmi, in poco spazio d'ore.
1915
Tu, Oronte, aspetterai Tamule e Allocche,
Poi tuttatre ve ne verrete in casa
Incontanenti, a ritrovarmi insieme.
Noi altri se n'andremo a dar principio
Che 'n allegrezza et in solazzo degno
1920
Di questo giorno, i' possa far la festa
Et uccider le vittime a gli altari,
Parate già per queste nozze a i Dei.

SCENA V

ORONTE, TAMULE, ALLOCCHE

ORON.
Chi con san occhio ben le cose umane
Mira, vedrà che non è tanto polve
1925
Minuta e lieve da' soffianti venti
Menata in giro, quanto la fortuna
Queste cose mortai volve e rivolve.
Indi veder potrà che 'n questo stato
Il miser può sperare e può temere
1930
Chi felice s'istima e che 'l Motore
Eterno de le stelle vuol che 'n terra
Immortal non si trovi il bene o il male,
Ma che s'egli è senza principio e fine,
Non consente che cosa altra nessuna
1935
Questa condizione in sé contenga.
E che vada così ciò che si trova
In terra sotto 'l cerchio de la luna
(Ancora che per molti e molti essempi
Ciò paia più che vero), anch'io ne posso
1940
Forse via più d'ognun fare ampia fede,
Che trastullo son stato un longo tempo
A la fortuna e lungo tempo un giuoco.
Nacqui in Armenia già d'un nobil uomo
E di madre Reina, e fui da lei
1945
Subito dopo il parto in mar gettato
In una cassa, per celare il fallo;
E ne fui (come intesi) da' corsali
Preso e nodrito in trista sorte. E a pena
Passato avea cinque anni, che qui in Persia
1950
Condutto fui, non men da l'aspra sorte
Sempre agitato, insin che 'l Re Sulmone
(Non so per qual mio fato) da le mani
Di chi mi tenea servo mi riscosse.
Ma non mutai destin né mutai stato,
1955
Se ben mutato avea paese e cielo;
Che ben ch'io col Re nostro in corte fossi,
Egli senza pietà mi fe' nodrire
Quattro e quattro anni da servo in sì vile
E miserabil vita, ch'ogni speme
1960
Di poter aver bene avea sbandita,
E non pur invidiava uomini e donne,
Ma i cani istessi e i più vili animali.
Ma non sì tosto giunsi a quindici anni
(Vedi che gran mutazion fu questa)
1965
Che 'n tanto pregio crebbi appresso lui
Che mi propose a quanti egli avea in corte.
E qui da gli odii e da le crude invidie
De' cortegiani, come in mar da l'onde
Smarrita nave, combattuto i' fui.
1970
In tanto la crudel sorte nemica,
Che vincer mi vedea l'aspra procella
E valoroso in così rea tempesta,
Invidiosa del mio bene al fine,
Per farmi perder l'arte et attuffarmi
1975
Tutto ne l'onde, sotto ombra di bene,
Con insidie nascose al mio gioire,
Mostrandosi via più che mai tranquilla
E tutta in tremolar l'onda marina,
Scoglio tra l'onde inevitabil pose;
1980
Che fe' che de la figlia del Re mio
M'accesi, e ella di me, sì fieramente
Che non fu mai così fervente fuoco
In Mongibello o sì vivace in Ischia,
Che tepido non fosse appresso il nostro.
1985
Tal ch'ambo fatti da l'amor già ciechi,
Divenimmo marito e moglie insieme,
Senza che 'l Re ne risapesse nulla.
Da indi in qua doglia crudele e accerba
(Conoscend'io poi quel che non conobbi
1990
In quel primo furor ch'è senza legge)
Mi rose sempre 'l cor, qual roder suole
Tizio il crudo avoltor tra l'ombre oscure.
Tal ch'io non ebbi mai, non dirò lieta,
Ma riposata un'ora; anzi com'io
1995
Mi vedessi esser tra gli scogli ognora,
Sempre aveva la morte innanzi a gli occhi.
Et ecco, or quando men di speme avea
Et eran congiurati tutti i venti
Contra me, a la mia morte, e già perduto
2000
Aveva e remi e vele, ancore e sarte,
Et era il mar co l'onde insino al cielo,
Condutto m'ha così felicemente
Il mio Signor da gli aspri scogli in porto,
Perdonando l'errore a me e a la figlia,
2005
Che non temo più in mar Caribdi o Scilla:
Tal che s'oggi alcun è più di me lieto,
Non è mortale. Or ben prego il Signore
Che con sommo saper governa il tutto,
Che voglia omai, poi che de la tempesta
2010
(Ch'agitato m'ha quinci e quindi tanto)
Mi trovo fuori, ch'io mi viva in porto
Questo poco di viver che m'avanza,
E ch'oltre il suo costume a questa volta
Mi tenga fé la rea fortuna, ancora
2015
Che la costanza sua sia nel mutarsi.
Ma veggio che di qua Tamule e Allocche
Vengono, et io me ne voglio ire a loro
Perché al Re se n'andiamo tutti insieme.
Venite meco, che n'aspetta in casa
2020
Tuttatre il nostro Re.

TAM.
Vengo, Signore.

AL.
Et io: m'andate innanzi, ch'ambo noi
Dietro voi si verrem così pian piano.

TAM.
Vedi come l'uomo erra! Questi pensa
D'andare al suo contento, e va a la morte.

NODRICE, CORO. La Nodrice [que] parla

NOD.
2025
Poscia che gli infelici e oscuri giorni
Amor (la sua mercé) conversi ha in lieti,
Donne mie care, e noi le nostre voci
Mutiamo a ragionar del novo stato.
Ma chi ne darà i versi o chi le rime
2030
Atte a spiegare il ben che 'n se tien l'alma?

CO.
Or, dopo c'hai l'afflitta e miser' alma
Volta a gradite notti e puri giorni,
Perché mostrar possiamo a ognuno in rime
Il ben che chiudiam dentro a' cori lieti
2035
E lodar te, lodando il caro stato,
Danne tu i versi, Amor, danne le voci.

NOD.
Deh perché non portate al ciel le voci,
Aure, che manda or fuor si chiare l'alma,
Perché sappiano i Dei lo nostro stato
2040
E che le notti che verranno e i giorni
Saran così gioiosi e così lieti
Che nol potrà spiegar forza di rime?

CO.
Apollo, ancor che tu cantassi in rime
E usassi le più scielte e dotte voci,
2045
Non potresti spiegar quant'or sian lieti
I bei pensier di quella nobil alma,
Cui minacciava il ciel sì amari giorni,
Che temea viver sempre in duro stato.

NOD.
Voi che 'l viver dolente e 'l crudo stato
2050
De la Reina mia piangeste in rime,
Quand'avea più che notte oscuri i giorni,
Accompagnate or l'amorose voci
E scacciate sì il duol tutti da l'alma
Che s'odano sol note e canti lieti.

CO.
2055
Ecco ch'i pargoletti Amor già lieti
Gioiscon nosco, e ferma il nostro stato
Chi accende dolce fuoco a altrui ne l'alma.
E Giunon, mossa da l'accese rime
(Per mostrar ch'al ciel van le mortai voci),
2060
Vuol che mai non veggiam men lieti i giorni.

NOD.
Dunque i giorni averai mai sempre lieti,
Coppia fedele, e voci liete e stato,
Fin che rime orneran ben gentil alma.

FINE DEL TERZO ATTO

Atto IV

SCENA I

MESSO, CORO

MESSO.
Oh perché ne' Rifei monti non sono
2065
Più tosto nato, o tra le tigri Ircane
Ne gli ermi boschi e ne' più alpestri campi,
Ove vestigio uman non si vedesse,
Che qui dove i' son nato e son nodrito,
Qui dove più d'ogn'aspra fiera crudi
2070
Gli uomini si ritrovano? Oh, che giova
Viver ne le città più che ne' boschi,
Se crudi più d'i lupi e più de gli orsi
Gli uomini in esse sono? Qual mai fiera
Ne' più solinghi luochi ritrovossi,
2075
Ch'usasse crudeltà nel proprio sangue?
Dunque cosa vist'ho via più crudele
Che 'n parte alcuna unqua veder si possa.

CORO.
Gran cosa è questa, onde sì amaramente
Si duol quest'uomo. O Dea che 'l ciel rischiari
2080
Col tuo sereno lume e i cori infiammi,
Fa' che per noi non sian queste querele.

MESSO.
Oh, perché non mi dà Dedalo l'ali,
Sì che poggiando al ciel fuggissi questa
Terra iniqua? Che terra? Anzi ricetto
2085
Di sozzi, dispietati e orribili atti.
E se ciò non si puote, perch'almeno
Non mi lece passar l'empio Acheronte,
Poi ch'indi qua venuti son gli Atrei,
Gli Atamanti, i Tiesti, anzi i più fieri
2090
Mostri che fosser là ne' laghi stigi?
O secol reo, secol malvaggio e tristo,
Come dar ci può il sol oggi la luce?

CORO.
Che cos'è che ti face uscir del petto
Voci sì crude e versar fuor da gli occhi
2095
Sì amaro pianto? Non tenere ascosa
A noi la doglia tua.

MESSO.
Donne, s'io avessi,
Non dirò tante lingue, quante mani
E braccia e piedi e quante in me son membra,
Ma vi se n'aggiungesser mille e mille,
2100
E avessi voce, non dirò di ferro,
Ma di duro diamante, i' non potrei
Spiegare il duol ch'a lagrimar mi mena.
Ora pensate voi se può bastarmi
Questa sol lingua, omai debile e fioca.

CORO.
2105
Narraci, prego, ciò, sia che si voglia,
Se non a pieno, almeno il me' che puoi:
Che bramiamo d'udir quello onde piagni.

MESSO.
Cosa dirò, se tanto spirto avere
Potrò che non s'agghiacci entro le vene
2110
Pel grave orrore il sangue, che dapoi
Tutte vi pentirete averla udita.
Ma temo che non possano l'orecchie
Vostr'udir quel che miei tristi occhi han visto:
Ch'è così miserabil che devrebbe
2115
Far oscurar nel ciel la luna e 'l sole,
Non che 'n terra stordir gli animi umani.
E se nol mi credete, questo viso
Pallido e tristo e la tremante voce
Lo vi puote mostrar, senza ch'io il dica.

CORO.
2120
Via più d'affanno n'è star sì sospese:
Però da' omai principio a questa istoria.

MESSO.
Giace nel fondo di quest'alta torre
In parte sì solinga e sì riposta
Che non vi giunge mai raggio di sole,
2125
Un luoco dedicato a' sacrificii
Che soglion farsi da' Re nostri a l'ombre,
A Proserpina irata, al fier Plutone;
Ove non pur la tenebrosa notte,
Ma il più orribil orrore ha la sua sede.
2130
Quivi Sulmon fatt'ha condurre Oronte
(Oronte miser, che pensava omai
Che fosser giunti al fin gli affanni suoi)
Da due che d'improviso l'avean preso,
Mentre egli ragionando il tenea a bada.
2135
E venuto il Re poi ne l'alta torre,
Co le sue proprie mani il prese e disse:
Ti voglio far mio successor del regno,
Oronte, in questo luoco. E questo detto,
Pigliar gli fe' le braccia a que' malvagi
2140
Ch'ivi l'avean condotto e ambo le mani
Gli fe' por sovra un ceppo; e da le braccia
Levogliele il crudele in due gran colpi
Con un grave coltello. E dopo, alquanto
Trattosi a dietro, prese in man le mani,
2145
Le porse a Oronte, lui dicendo: Questo
È lo scettro che t'offro. A questo modo
Ti vo' far Re. Come ne sei contento?
Fa' ch'io lo sappia. Oronte allor rivolto
Verso lui disse: Ai, traditore, è questa
2150
La fé ch'astretta m'hai? è questo quello
Che da tua parte mi narrò Malecche?
Ma segui, empio Tiranno, eccoti il collo,
Percotilo, malvaggio; eccoti il petto,
Aprilo col tagliente empio coltello:
2155
Che d'altra mai che d'una real mano
(Se sì spietata dir real si deve)
Morir non devea Oronte. Ma se 'n cielo
Regna pietà, se Dio l'umane cose
Mira con occhio giusto, aspra vendetta
2160
T'aspetta, traditore. A queste voci
Sorrise quel crudel, come chi cosa
Oda che schema o che si prenda a giuoco;
E senza altro più dir, ambe due i figli,
Che fatti avea condur prima d'Oronte
2165
Nel luoco oscuro et in disparte porre,
Prese per mano, i quai semplici a l'avo
Facevan festa, come che far vezzo
Volesse loro il micidiale iniquo.
Ma vider ben, non passò molto tempo,
2170
Il lor error. Perch'egli, preso il primo,
Cui poco giovò aver de l'avo il nome,
Nudolli il petto e, prese lui le mani,
Dietro gliele legò; poi tra le gambe
Postosi il fanciullin, che pur chiedeva,
2175
Come meglio sapea, mercé e pietade,
Quasi agnello innocente, col coltello
Crudelmente svenollo e così morto
Lo gettò a' piè del miserello Oronte.

CORO.
Oimè, in quanto dolor mutata è quella
2180
Allegrezza che dianzi ebbi nel core,
Quando di perdonar l'empio Re finse
A Oronte e a la figliuola! Io non ho in osso
Medolla o sangue in fibra che non tremi.
Ma che fe' Oronte al lagrimevol caso?

MESSO.
2185
Quel cor che non potea il suo mal piegare
Sì che porgesse a sua salute preghi,
Fu vinto da pietà d'ambedue i figli.
Perché, dolente sì com'era, Oronte
Pos'ambo le ginocchia in terra e alzando
2190
(Credendo aver, come solea, le mani)
I tronchi de le braccia già dal sangue,
Ch'a gran copia n'uscia, bruttati e molli,
Incomminciò a pregar dal Re crudele
Pietade almen per l'altro figlio vivo:
2195
Che già mercé chiedendo, a braccia aperte,
Tutto pien di paura al miser padre
Fuggito s'era, aver credendo aiuto.
Oimè, che 'l cor mi scoppia e le parole
Mi mancano e la voce, sol pensando
2200
A l'impeto, al furor di questo iniquo.
Sulmon, poi che 'l fanciullo andò ad Oronte,
Lo seguì, come can ch'acceso d'ira
Segua pel bosco timidetta damma.
Il che veggendo Oronte, lagrimando
2205
Avoltolisi a' pie, più caldi preghi
Porse a questo crudele e così disse:
Per la pietà, Sulmon, de' Dei del cielo,
Perdona a questa età ch'è senza colpa:
Bastiti avermi già svenato il primo,
2210
Perdona a l'altro e me colpevol svenna.
E se non può piegare altro 'l tuo core
A usar pietade in così estremo punto
A un miser uom che dianzi tanto amasti,
Paiati stran ne l'innocente sangue
2215
Bruttar le mani tue; fa' che l'onore
Più possa in te, che la vendetta ingiusta.
E se non temi di potenzia umana,
Temi almeno li Dei ch'a l'opre buone
Donano merto et a le triste pena.

CORO.
2220
Non s'ammollì quel duro core alquanto
A sì calde preghiere, a così giuste?

MESSO.
Oimè, che mi chiedete? A queste voci
Vidi pianger le mura e i duri sassi
E tremar de l'orror tutta la torre.
2225
E non pur lagrimar vidi l'imago
Di Pluton fiero, al quale il sacrificio
De l'anime innocenti il Re facea,
Ma per non mirar cosa così orrenda,
Volger la vidi in altra parte gli occhi.
2230
Sol egli, d'ogni dur sasso più duro,
Immobile rimase, com' a l'onda
Del mar rimaner suol ben fermo scoglio.
Né pur non si mutò dal fiero uffizio,
Ma qual calcata serpe i denti stringe,
2235
Tutta piena di rabbia e di veleno,
Per dar di morso a chi col piè la preme,
Tal il Re crudo a così dolci preghi,
Come pungente stral tocco l'avesse,
Con viso fier rivolto al tristo Oronte:
2240
Ricevi - disse - del tuo grave errore,
Perfido, disleal, il giusto premio;
E se sol de la morte d'un contento
Esser potessi, alcun non avrei morto.
E pochi questi due sono a l'oltraggio
2245
C'hai con la infedeltà tua in me commesso.

CORO.
Oimè, che core esser deveva allora
Quel del misero padre, essendo privo
Già d'ogni speme!

MESSO.
Il poverello Oronte,
Vinto da l'aspra ambascia e dal dolore,
2250
Ne la desperazion pigliando ardire,
Lasciato in tutto il van pregar da parte
E vòlto verso il Re, con viso audace,
Ai fiero cane - disse - e come lupo
A l'insidie notturne, a i tradimenti
2255
Sol atto e forte solo e sol feroce
Nel sangue de' fanciulli, i' spero, i' spero
(E questo in parte il mio dolor rileva)
Che non fia molto che tra l'ombre oscure
De la vendetta mia sentirò nova.
2260
E quindi vòlto lagrimando al figlio,
Gettolli ambo le braccia al collo e disse:
Poi che pur vuole il ciel, figlio mio caro,
Che tu la mia ti veggia, io la tua morte,
Et è per noi pietà sorda com' aspe,
2265
Cogli (l'ultimo don, caro figliuolo,
Del padre tuo) questi singiozzi e 'l pianto
E questi estremi basci; andremo insieme
A le parti di Dite, a i regni oscuri,
Ove forse sarem men che qui tristi.

CORO.
2270
Ma che faceva intanto il Re crudele?

MESSO.
Godeva a queste voci il traditore,
A queste voci ch'averian spezzato
Una selce, un diamante, e fatto molle
Un cor d'acciaio. E quasi che godesse
2275
Ch'Oronte si dolesse lungamente
Del suo tormento e de la morte rea
De' due figliuoli, il micidial si stava
Come ridendo a le parole intento.
Ma poi che tolse il gran dolore a Oronte
2280
La voce, il Re, via più che mai sdegnoso,
A guisa di leon ch'uccider dassi
L'armento altrui, che quanto vede il sangue
Più correr per li campi, tanto avampa
Più d'ira e di disdegno e via più cresce
2285
L'appetito del sangue e de la morte,
Aventatosi irato a l'altro figlio
Che ne le tronche braccia aveva Oronte
Piangendo accolto e del suo sangue asperso,
Sveller il volse dal paterno seno,
2290
Come tigre che vede a la giuvenca
Accostarsi il vitel timido e imbelle,
Che 'l picciolo e la madre irato uccide.
Ma non volendo il suo padre lasciare
Linco (che tal del fanciullo era il nome)
2295
E stringendolsi il padre al petto, il fiero
E spietato tiranno, alzato il braccio,
Percossili ambe due sì acerbamente,
Ch'a' piedi suoi se ne cadderon morti.

CORO.
Chi non diria ch'un cor di tigre o d'orso
2300
Nel petto avesse, sotto finto aspetto
D'uomo, questo crudel? Non fu giamai
Cosa più strana o più malvagia udita.

MESSO.
Ma che pensate voi che qui finisca
La crudeltà di così orribil mostro?
2305
Quel che fine vi par, principio è stato
A maggior male, a più scelerat'opra.

CORO.
Ma ch'esser può dopo la morte peggio?
Non è ella estrema de le cose orrende?
Non è ella fin de tutti e mali al mondo ?

MESSO.
2310
Peggio non puote aver già de la morte
Chi morto giace, ma chi vive puote
Mostrar la crudeltà via più palese
Ne' morti corpi.

CORO.
Ai quanto è sozza cosa
Ne' morti incrudelir! quanto disdice
2315
Servar l'ira e 'l furor dopo la morte!

MESSO.
Sozza cos'è, ma perché nulla resti
Di sozzo a fare a l'empio Re, finito
Ch'ebbe sì miserabile e reo ufficio,
Tutt'asperso di sangue, a Oronte andossi
2320
E li levò la testa e fece il corpo
Gettare a i nibi, a gli avoltori, a i cani.
Poi fattosi portare un nobil vaso
D'argento puro, in esso ambo le mani
E 'l capo pose, e d'un zendado nero
2325
Lo ricoperse e lo si fe' servare.

CORO.
Ai, quanto è somma la giustizia eterna!
Vedi come ben ha questo crudele,
Credendo incrudelir, mostro pietade:
Che quella illustre et onorata testa
2330
E quelle man dignissime di scettro,
Dal micidiale, dal nemico istesso
Ricevuto hanno il meritato onore.
Ma che fatt'ha de' fanciullini morti?

MESSO.
Sì tosto com' a Oronte il capo tolse,
2335
Levolli da le braccia il figlio, il quale
Stretto era ancor dal miserabil tronco;
E veggendolo pur torcersi alquanto,
Due volte e tre nel delicato petto
Il percosse il crudel, tal ch'ei col sangue
2340
Spirò del tutto l'anima innocente.
Dopo spogliollo, et indi a l'altro vòlto
Che già fredd'era e senza spirto alcuno,
Dal corpo li levò la vesta e nudi
In due vasi d'argento ambo li pose;
2345
E a l'un nel petto e a l'altro ne la gola
Pose i ferri con cui gli aveva uccisi:
E col capo del padre e co le mani
A la stanza real fece portarli
Et ivi posti gli ha, né so a qual fine.

CORO.
2350
Ai misera Reina, quest'orrendo
Spettacolo t'aspetta! a te il crudele
Riserba questo don! Ma forse il cielo,
Pietoso del tuo mal, giusta vendetta
Per te stessa apparecchia a questo cane:
2355
Che chi a far cosa ingiusta si dispone,
Deve aspettar vendetta, onde non teme.

[CORO]

CORO.
Fede, per lo cui fido nodo insieme
Son le cose contrarie
Con tanta fede aggiunte,
2360
Che non si vede mai ch'alcuna varie
Da l'ordine che lor diè la natura,
Quando l'ascoso seme
De le cose create in un congiunte
Con tanto studio e con sì estrema cura
2365
Aperse dal profondo
Orror che 'n sé celava il bel del mondo.
Se per te sol di cerchio in cerchio il cielo
Serva l'usata legge
Et al moto del primo
2370
Ciascun de gli altri il suo camino regge,
Né mai da l'ordin certo alcun si parte
Pur per un picciol pelo,
Dal più sublime cerchio insino a l'imo,
Onde con sì bel studio e con tant'arte
2375
Del sol la vaga luce
Ciede a la notte e 'l dì dopo n'adduce;
Se gli elementi la lor propria sede
Servan con ordin tale
Che da sé 'l caldo fuoco
2380
Sovra ciascun sublime e leggier sale,
E 'l mezzo l'aer tien tra lui e l'onde,
E la terra si vede
Mai sempre aver lo stabilito luoco,
E ch'un sì bene a l'altro corrisponde,
2385
Che benché sian nemici,
Divengono a creare il tutto amici;
Anzi si fan d'eterni e d'immortali,
Perché nascan le cose
Che 'n potenza in lor foro,
2390
Mortali in parte, come già dispose
Il supremo Motor de l'alte stelle.
Indi piante, animali
Vengono, quai poi ne' principi loro
Risolvonsi, onde gli elementi belle
2395
Opre producono anco,
Tal che non viene il generar mai manco:
Che 'l corromper di questo, quel produce
Con così certe tempre
Che l'un da l'altro viene,
2400
Onde morendo l'un, rinasce sempre
L'altro et eterne di mortai si fanno
Le cose in questa luce;
Perché 'l mancar de l'un l'altro mantiene,
E con fede perpetua così vanno
2405
E andranno insin che giri
Il ciel la terra, e 'l sole il tutto miri.
Perciò con tanta fé succiede al verno
La bella primavera
E l'autunno a l'estate,
2410
E l'onor, che dal gel levato gli era,
Rianno i campi, e frondi e frutti et erbe;
E al fin, se con eterno
Modo le cose son tutte legate,
Fede, per te, perché non fai che serbe
2415
Fede l'umano stuolo?
Perché tua purità macchia egli solo?
Perché lasci che sotto il puro e netto
Tuo nome altri a la morte,
Sotto spezie di bene,
2420
Condotto sia per vie maligne e tòrte?
Deh fa che porti del commesso errore
Ogni disleal petto,
Non pur l'empio Sulmon, sì acerbe pene,
Che passi per essempio e per orrore
2425
Di quanti avran desire
Di fare il santo tuo nome perire.
Sulmon, Sulmon, superbo, empio Tiranno,
Bench'abbi e morte e vita
In man de' servi tuoi,
2430
Non è la forza tua però infinita,
Ma sovra te è un Signor d'altra potenzia
Che, con tuo grave danno,
In te può quel che tu ne' minor puoi,
Ch'al fine, al fin, senza più usar clemenzia,
2435
Con fermo ordine e certo
Dà a l'ingiustizia altrui dicevol merto.
Dunque se non vien meno
Quella immensa giustizia, iniquo, aspetta
De la tua rotta fé giusta vendetta.

IL FINE DEL QUARTO ATTO

Atto V

SCENA I

SULMONE, ALLOCCHE, TAMULE

SULMONE.
2440
Levata i' m'ho dal viso quella macchia
Che m'avea impressa Oronte. Egli ha provato
Co l'ignobile sua mal nata prole
Che cosa importi il non guardar l'onore
D'un Re come son io. Se non son sciocchi,
2445
Gli altri che 'n corte son sol per costui
Potranno avere innanzi essempio tale
Che sapran per qual via debbano inviarsi
Per fuggir così crudo e fiero intoppo.

[ALLOCCHE].
Sì bene, invitto Sir, s'avranno senno
2450
E non fian più che ciechi.

SULMONE.
E se fian ciechi,
Io bene in guisa gli occhi aprirò loro
Che potran far veder a gli altri quello
Che non avran voluto essi vedere.
Se così non facessero, i Signori
2455
E i Re sarian da meno ch'i più vili
Uomini ch'abbia il mondo e le lor corti
Verrebbero da men che le capanne.

TAMULE.
E così, alto Sir, è, come voi dite,
E devonsi mostrare i Re a tal modo
2460
Esser Signori e Re come voi fate:
E cianzi poi chi vuoi cianzar. Gli oltraggi
Fatti a' Signori aspettan questo premio
Che ricevuto ha il traditor d'Oronte,
E quest'è de l'imperio avere il frutto.

SULMONE.
2465
Dicon costor che la violenzia è quella
Che consuma gli stati e che l'amore
Sol i mantiene e ch'a' Signor bisogna
Tenir la briglia in man con la man lieve
E dee temere un Re sovra ogni cosa
2470
Di non esser temuto. Ma io tengo
Per cosa più che certa che 'l timore
Sia colonna de' regni e che senz'esso
Ne vadano gli imperii a la mal'ora.
Un Re devrebbe esser terribil sempre,
2475
E lo dimostra chiaro il Re del cielo,
Il qual, mentre serbar vuol la sua altezza,
Tien ne la mano il fier fulmine ardente,
E quando lo depon, di Re d'i Dei
Diviene bove, augel, satiro e capro.
2480
Sta' pur sicur ch'io non son per lasciare
Cosa ch'a por timor mi s'offra innanzi.
Abbiammi in odio pur, pur che mi teman
Tutti i sudditi miei. Nati ad un parto
Son, come due fratelli, il regno e l'odio,
2485
E chi non cerca esser temuto, cerca
Lasciare il regno tosto e venir servo.
Questo non verrà a me. Ma che ti parve
Del cor d'Oronte, quand'egli si vide
Colto a la rete?

ALLOCCHE.
Parmi ch'ei facesse
2490
Come color che son senza speranza,
C'hanno nel disperarsi ogni salute.
Egli pensò co lo rimproverarvi
La fede rotta e col mostrarsi forte
A tolerar la morte, che fuggire
2495
Non potea a modo alcun, trovar mercede;
O farvi vergognar di voi medesmo
A quelle sue parole, onde lasciaste
La vostra impresa. Ma non sapev'egli
Che s'altri inganna altrui sotto la fede
2500
Aver ne dee sotto la fé castigo?
E chi biasima quei che così fanno,
S'inganna molto et è fuori del vero.
Fedele esser si deve a chi è fedele,
Ma fé servare a chi di fede manca
2505
È proprio usare infideltade espressa;
E ben felice è quattro volte e sei
Chi de le 'ngiurie far vendetta puote.

SULMONE.
E perché credi tu che, potend'io
Subito far morire il traditore
2510
Senza darli altra fé, gli l'abbia data?
Non per altro se non che simil fosse
La vendetta a l'oltraggio. Egli l'ingiuria
Mi fece allor che per lo più fedele
L'avea de la mia corte, et io ho voluto
2515
Che la fé istessa lo conduca a morte.

ALLOCCHE.
Non pensava altrimenti. E per dir vero
Conosciuto v'ho, Sir, sempre prudente,
Ma oggi via più che mai; e a molte prove
V'ho conosciuto Re, ma in questa d'oggi
2520
Avete superato anco voi stesso.
Ond'ora tengo il vostro animo invitto
Dignissimo di scettro e di corona.

SULMONE.
Certo ch'anch'io mi pregio che nel fine
Quasi de la mia vita abbia mostrato
2525
Con opra di me degna esser Re vero.
Oh, se permesso avessi che Malecche
M'avesse con sue fole a veder dato
Che 'l perdonare i ricevuti oltraggi
Via più d'ogn'altra cosa a un Re conviene,
2530
Quanto scemato avrei de la mia gloria!

TAMULE.
Che sa di ciò Malecche? Egli è nodrito
Tra le donne ne gli ozii e voi misura
Col suo vil core; egli non sa che cosa
Sia una real e gloriosa impresa.
2535
Invitto Sir, io dico e dirò sempre
Che 'l rimedio d'oltraggi è la vendetta
E che le crude morti e i sangui sparsi
Indizii son de gli animi reali:
E chi far lo si dee, se i Re nol fanno?

SULMONE.
2540
Non è altrimenti. Ma lasciàn da parte
Il ragionar di ciò: vo' che tu vada
In casa e che qui porti que' tre piati
Ove è 'l capo d'Oronte e i figli morti
E di zendado ner sono coperti.

[ALLOCCHE].
2545
I' vo, Signor.

SULMONE.
Va' tosto e tosto torna.
E tu, Tamul, vatene a la mia figlia
E dille ch'ella a me subito venga,
Che le voglio far don degno di lei
E de le nozze e di sì lieto giorno.

TAMULE.
2550
Vorrestele mai voi, Signor, offrire
Que' piati che portati avemo in casa,
Ov'è 'l capo d'Oronte e i figli morti ?

SULMONE.
Cosi vo' far.

TAMULE.
Per Dio, che fate bene,
Perch'ella del suo error porti la pena,
2555
E del colpo di c'ha percosso voi
È degno che ne sia percossa anch'ella.

SULMONE.
Or va' e di' che non tardi.

ALLOCCHE.
Eccomi, Sire.
Ove volete ch'io mi ponga i piati?
Qui forse?

SULMONE.
No, ponli un po' più discosti
2560
Da questo palco.

ALLOCCHE.
Qui?

SULMONE.
Sì: ma con ch'occhio
Pensi tu che vedrà la figlia questo
Dono che far le voglio?

ALLOCCHE.
Io tengo certo
Che via più grave a lei fia la ferita
Che le farete con tal don nel core,
2565
Che se l'aveste d'un coltel trafissa:
Peggio è d'una ferita e de la morte
Un continuo dolor senza rimedio.
E certo che pensato avete bene
Che, senza darle morte, ella vivendo
2570
Sia di continuo da l'affanno uccisa.
Ma veggio che Tamule a noi ne viene
Senz'essa.

SULMONE.
E che non vien, Tamule, Orbecche?

TAMULE.
Dice ch'incontinenti a vostra altezza
Verrà, pel don ch'aver da quella spera.

SULMONE.
2575
Or ritiriansi un po' tutti da canto,
Ch'al suo primo apparir qui non ne scorga.

SCENA II

NODRICE, ORBECCHE, SULMONE, SEMICORO

NODRICE.
Qual fia quel giorno mai, alta Reina,
Ch'apporti fine a le querele vostre?

ORBECCHE.
Nodrice mia, per me quel giorno lieto
2580
Fia che mi mandarà morte sotterra.

NODRICE.
Deh vani sian, Signora, questi augurii
Che voi fuor di ragione ora vi fate.
Ben vi prego, s'appresso voi pòn nulla
Le mie preghiere e queste bianche chiome
2585
E la fede e l'amor con cui sin ora
I' v'ho nodrita, che vi piaccia omai
Dar bando al duolo, a le querele, a i pianti.
Nel tempo più seren temete pioggia
E nel più queto mar cruda tempesta.
2590
Gli altri nel male istesso speran bene
E con la speme si mantengon: voi
Quanto più avete ben, peggio temete.
Deh piacciavi che dubbia e inutil tema
Non turbi certa gioia e ver riposo.

ORBECCHE.
2595
Non sai, Nodrice mia, che quanto lieta
Si mostra a noi più la fortuna, tanto
Più devemo temerla e men fidarsi
De le lusinghe sue sempre fallaci?
Ella a le volte ci solleva in alto
2600
Perché maggior dopo sia la ruina;
E spesse volte, quando per la fronte
Crediam tenerla, in un picciol momento
Le spalle a noi volgendo se ne fugge
E del creder fallace nostro a noi
2605
Lascia per guiderdon solo il dolersi
E 'l veder chiaramente che chi ferma
In lei la speme e a sue lusinghe crede
Si trova al fin le man piene di vento.
E chi non temeria, vedendo un tale,
2610
Qual è stato Tamule, a me venire
E chiedermi per parte di mio padre?
Non sai che mai micidial più crudo
Non fu sovra la terra di Tamule?
Né alcuno ch'usi più nel mal oprare
2615
Di costui il mio padre? Oltre ch'un sogno
Ch'io vidi questa notte e insino ad ora
Celato i' l'ho ad Oronte, per non darli
Materia di più acerba e cruda doglia,
Non mi lascia sperar nulla di bene.

NODRICE.
2620
Che sogno è questo? Deh, di grazia fate
Che lo sappia ancor io, se non v'è grave.

ORBECCHE.
Era questa passata notte corsa
E già l'Aurora co' bei crini d'oro
Si mostrava al balcon de l'oriente
2625
Lieta, con faccia candida e vermiglia,
Per fare al sol la consueta scorta,
Quand'io, vinta dal duolo e da l'affanno,
Dal sonno sovrapresa i' fui (se sonno
Dir si può lo stupor ch'occuppa altrui
2630
La mente afflitta da dolore interno).
Et a pena ebbi chiusi i languid'occhi,
Che mi parve veder venirmi inanzi
Una columba più che neve bianca,
Seguita dal compagno e da' due figli,
2635
E sotto l'ale accòrre i polli e lieta
Gioirsi col compagno. Et ecco venne
Una aquila dal ciel, turbata in vista,
Et aventosi a i pargoletti e al maschio,
Che 'n dolce trastull'era co l'amica,
2640
E col rostro crudele e co gli artigli
Ne fece così accerbo e fiero strazio
Che la memoria sola anco m'attrista.
E così morti inanzi a la meschina
Gli gittò fieramente et ella mesta
2645
Con mormorio dolente il fiero fato
Piangendo, vinta da l'acerbo affanno,
Morta cadeo sovra li morti corpi.
Io allora mi svegliai, di tal paura
Piena che mi tremava il cor nel petto.
2650
E mi ha tanto terror ne l'alma posto
Questo orribile sogno, ch'io non posso
Cosa pensar se non dogliosa e trista.
O Dio immortal, fa' che sia vana in tutto
Sì orribil visione e da' miei scaccia
2655
Così crudele e miserabil caso.

NODRICE.
Io tengo che v'abbiate in mezzo 'l core
Accolta tutta la maninconia
Ch'esser possa nel mondo. Non fia pazzo
Uno ch'a mezzo 'l dì tema la notte?
2660
Così, Signora (e cheggio a voi perdono
S'io dico or questo), è ben poca prudenzia,
In tanta festa, in così lieto giorno,
Temer di cosa che v'apporti noia.
Né vo' che 'l sognar mal v'aggiunga tema,
2665
Che, posto che disdica a ognun dar fede
A cose tai, tanto più a voi disdice,
Quanto devete esser di quello ingegno
Ch'al vostro real grado si conviene.
Ditemi, che volete altro sognarvi
2670
Ch'affanno e morti, se 'n affanni sempre
Vi state e v'opponete al piacer vostro?
Non si dee dar, Signora, a' sogni mente,
Che vani sono e da' pensier del giorno
Nascono e per lo più si trovan falsi.
2675
Se così stata foste in pensier lieti,
Come vi state in tristi, lieti i sogni
Avreste avuto e non, com'ora, mesti.

ORBECCHE.
Par che non sappi che sovente i Dei
Per monir altri de' lor casi in sogno
2680
Mostran quel c'ha avenir; e chi li sprezza,
Sprezza la sua salute e la sua vita.
Tale il sogno già fu d'Apollodoro
E quel d'Imera e quel d'Ipparco e quello
D'Alessandro, di Cresso e d'Anniballe
2685
E di molt'altri che, s'a' sogni loro
Avesser dato fede, avrian schifato
O fatto acerbo o abominevol morte.

NODRICE.
La fé, Reina, che dal Re v'è data,
Esser vi deve com'un chiaro raggio
2690
Ch'ogni nebbia di duol dal cor vi sgombri.

ORBECCHE.
I' so, Nodrice, per aperta prova
Che la fede ben sta sempre a la porta
De le reali stanze, ma non osa
Por dentro da la soglia il piede mai.
2695
E poi che fede è quella del mio padre
(Per dire or tra noi due come sta il fatto)
Che n'ha sotto la fé mille traditi?
Non è più bel rifugio per le frodi
Del venerabil nome de la fede
2700
Che da' gran Re sì rado oggi si serba.

NODRICE.
Reina mia, lasciam omai da parte
Il lamentarsi e andiam al vostro padre,
Che spero che quel don ch'ei far vi vuole
Vi farà rimaner tutta giuliva.

ORBECCHE.
2705
Odano i Dei le voci tue! M'andiamo,
Ch'egli a l'usato luoco s'è ridutto
E lì n'aspetta.

NODRICE.
Fate allegro viso
Quanto più far potete e via scacciate
Quanto chiude di tristo il vostro core.

ORBECCHE.
2710
Così farò più che possibil fia.
Che vuol da me la maestade vostra?

SULMONE.
Non voglio se non bene. Andate in casa
Voi tutti, perch'io voglio esser qui alquanto
Co la mia cara figlia, a parlar solo.
2715
Orbecche, poi che tuo marito venne
Il nostro Oronte, e a me genero, a lui
Ho fatto, ha men d'un'ora, apertamente
Conoscere il mio core e quanto caro
Stato mi sia l'aver saputo ch'egli
2720
Pres'abbia te per moglie. Or sol m'avanza
Far che tu intenda ancor quant'allegrezza
Avuto i' m'abbia che lui per marito
Pres'abbi; e però or voglio farti un dono
Onde potrai veder chiaro e palese
2725
Quant'io di fatto tal resti contento
E quanto ferma sia la pace nostra.

[ORBECCHE.]
Padre, i' non cerco aver più espresso segno
Da la maestà vostra de la pace,
Che 'l perdon c'ho da voi ricevuto oggi
2730
Oltre ogni mia credenza, ogni mio merto.
Pur, se vi è a grado farmi questo dono,
Non per chiarir più il ben che mi portate,
Ma per farvi piacere e per mostrare
Che quanto piace a voi, tanto a me piace,
2735
Accetterollo con benigna fronte.

SULMONE.
Così, figliuola mia, vo' che tu faccia.
Or leva quel zendado et ivi sotto
Vedrai la mia allegrezza e 'l tuo contento.

ORBECCHE.
Par che tema la mano avicinarsi
2740
A quel zendado, il core in mezzo il petto
Mi trema e par ch'io non ardisca alzarlo.

SULMONE.
Che tardi, figlia? Leva arditamente,
Che vedrai quel che t'aprirà qual sia
Verso di te il mio core.

ORBECCHE.
Oimè, ch'è questo?

SULMONE.
2745
Il don, malvagia figlia, che d'avere
Ha meritato il simolato amore
Verso di noi.

ORBECCHE.
Ai trista me! ai meschina!

SULMONE.
E la tua rotta fede.

ORBECCHE.
Oimè dolente!

SULMONE.
E 'l poco riguardare il nostro onore.

ORBECCHE.
2750
O spettacol crudele, o caso acerbo!

SULMONE.
Egli tal è, qual meritato l'hai.

ORBECCHE.
Ai, di ch'aspro coltello ora trafissa
M'avete, oimè!

SULMONE.
Di quel di ch'eri degna.

ORBECCHE.
Oimè, pur devevate a' figli almeno
2755
Usar pietà.

SULMONE.
Pietà non puote dove
È ingiuria così atroce.

ORBECCHE.
Oimè, più tosto
Morta foss'io, che veder cosa tale!

SULMONE.
Tu vedi quel contento, o scelerata,
C'hai dato al padre tuo.

ORBECCHE.
Quant' oimè lassa
2760
Lagrimevol mi s'offre questo dono
Ond'io credeva esser contenta al mondo!
Ai padre, ai caro padre!

SULMONE.
Or son tuo padre,
Ma allor non fui che ti pigliasti questo
Traditor per marito, iniqua figlia!
2765
Ora m'è a grado ch'abbi aperti gli occhi
E mi conosca.

ORBECCHE.
Ai spettacol crudele!
Oimè marito, oimè!
Oimè figliuoli, oimè!
Di quant'affanno, oimè, cagion mi sete!

SULMONE.
Quanto ciò è a te dolente, è tanto lieto
2770
E piacevole a me, figlia proterva;
E quanto più doler ti veggio, tanto
Più me n'allegro e più men gode il core.

ORBECCHE.
Spiaccievol più che non m'è mi sarebbe,
Padre, cosa veder così crudele
2775
Che non pur altri, ma voi stesso indurre
Porria a pietade; e quel che aggraveria
Più il mio dolor, sarebbe che da voi,
Da cui sperar devean grandezza e onore
Il mio caro marito e i cari figli,
2780
Avessin ricevuto oltraggio e morte.
Ma l'allegrezza ch'io vi veggio avere
Del mio dolore e de la morte loro
Et il considerar che 'l grave errore
Da noi commesso pena men crudele
2785
Non meritava né men fier castigo,
Più pazienzia aver fammi in sì gran doglia
Ch'io non avrei se ciò non fosse: ch'io
Molto più istimo l'allegrezza vostra,
Ch'io lieta fossi e voi foste dolente.
2790
Ma perché, s'io riguardo la gravezza
De la mia colpa et il mio grave errore,
Non merito ancor io pena men dura,
Come colei che sono stata prima
Cagion di tanto mal, padre, vi prego
2795
(S'ottenne grazia mai figlia da padre)
Che col nocente mio sangue lavate
La macchia fatta a la real progenie
E al nome venerabile del padre.
E perché più non vada a lungo il fatto,
2800
Qual più vi piace di questi coltelli
Prendete e 'n guisa il mio colpevol petto
Percotete che l'alma se ne vada
Et io ne resti qui pallida e essangue.

SULMONE.
Far ben lo mi devrei, se sol guardare
2805
Volessi a l'error tuo, ma più non voglio
Nel sangue mio por man di quel ch'io m'abbia:
Basta che quindi omai conoscer puoi
Quel che far ti convien per l'avenire
E 'n che rispetto aver mi dèi. Per ora
2810
Proceduta insin qui sia l'ira nostra,
Estinta in tutto nel colpevol sangue.
Te voglio, come pria, per cara figlia
E voglio che tu tenga me per padre.

ORBECCHE.
Non merto questo don, padre: la morte
2815
Deve emendar l'error che 'n voi commisi.

SULMONE.
Viviti pure e sii contenta meco
Che morti sian chi eran di morir degni,
Né meno erano a te ch'a me d'infamia;
E disponti d'aver marito uguale
2820
A la tua altezza e al tuo sublime grado,
Onde figli abbi de la stirpe tua
Degni, con mia sodisfazione. Or poni
Giù que' coltelli et entra meco in casa,
Ove da me chiar segno avrai di pace.

ORBECCHE.
2825
S'ora anco il ciel non m'è contrario, guari
Non andrà, traditor, che la vendetta
Farò io stessa de l'avuta ingiuria,
Se non mi vengon men questi coltelli.

SULMONE.
Ai malvagia, ai crudele, oimè, ch'io moro,
2830
Oimè, che posto m'ha il coltel nel petto
La scelerata figlia! oimè, aiutate
Il vostro Re, soldati. A che tardate?
Pigliatela, uccidetela, ch'io veggia,
Pria che del tutto i' moia, la vendetta.

SEMICORO.
2835
Che grido, oimè, che voce è questa orrenda
Del Re Sulmon? La figlia col coltello
Che tenea ascoso ne la destra mano
Gli ha dato in mezzo il petto, mentre ch'egli
La voleva abbracciare, e li dà morte.
2840
Ma questo non le basta, anco lo sgozza
Con un altro coltello.

SULMONE.
Oimè, pietade!

SEMICORO.
Egli è del tutto morto. Oh quanto sangue
Versa d'ambo le piaghe! Ma che veggio?
Puot'esser tal furore in petto umano?
2845
E spezialmente in una donna? Il capo
Gliele leva dal collo e da le braccia
Ambo le mani. Egli è come si dice,
Che né vento, né fuoco, né altra forza
È tanto da temer, quanto una donna
2850
Che si veggia privar del suo marito
E sia dal duolo a un tempo e d'Amor spinta.
Ma chi di Sulmon ben la crudeltate
Tra sé contempla, certo era ben degno
Che per le mani di colei ch'uccisa
2855
Egli aveva ne' figli e nel marito,
Egli mort' anch' avesse; e co' coltelli,
Co l'un de' quali aperto aveva a l'uno
De gli innocenti figli il petto e l'altro
Svenato avea, fusse sgozzato e aperto
2860
Anch'egli; e se la testa avea ad Oronte
Tolta dal collo e le man da le braccia,
Fori d'ogni giustizia, anch'ei devesse
Da le man che devean porgerl'aiuto
Contra ogni assalto, ugual mercede avere.
2865
Ma non è stato mal a uccider lui,
Ch'a Dio non s'offre vittima più grata
D'un malvagio Tiran com'era questo:
Mal è stato d'Oronte, di cui mai
Non fu veduto il più gentile, e male
2870
È stato di que' figli che poteano
(Come giust'era) assimigliarsi al padre,
E mal di questa povera Reina,
Di cui tant'è 'l dolore e così grave
Che gran meraviglia è ch'ella sia viva.
2875
Parmi proprio vedere un'aspra tigre
A cui tolt'abbia il cacciatore i figli,
Che cerchi tutto il bosco e d'aspre voci
Empia ruggendo tutta la campagna
E seco di dolor si strugga e roda.
2880
Altro non è 'l suo viso che dolore
E sol dal cor l'escon lamenti e grida
E come forsennata, or quinci or quindi
Crudelmente guatando, aggira gli occhi,
Che due facelle sembrano di fuoco.
2885
Ma veggio che col capo e co le mani
Del crudo padre e col coltello in mano
Se ne viene di fore; et io qui in casa
Me ne vo' gir, che non vorrei talora
Che 'n così oscuro e nubiloso tempo
2890
Cadesse sovra me questa tempesta:
Che toglie a altrui così l'ingegno l'ira
Et il fiero dolor, che non discerne
L'amico dal nemico; e ognuno a strazio
Conduce e a morte, senza alcun riguardo,
2895
Chi ha l'animo disposto a la vendetta.

SCENA III

ORBECCHE, NODRICE, DONNE DI CORTE della Reina

ORBECCHE.
Or godi, traditor, de' tuoi misfatti,
Godi, via più d'ogni dur Scita crudo
E più fier d'ogni fiera, del tuo orgoglio
E de la fé violata. Tu, spietato,
2900
Sazio ti sei del sangue mio innocente:
Et io mi son del tuo colpevol sazia,
Ma con cagion più giusta. E 'n che t'aveva
Offeso Oronte mio, crudele, et io?
E s'avevamo noi fattoti oltraggio,
2905
Che colpa se n'aveano i figli nostri
Che tu li mi devessi far vedere
Tali quali ora i veggio? O scelerato,
E come, quando col coltel ferire
Volesti i chiari e generosi figli,
2910
Non trafisse a te il cor vera pietade?
O sol che sol il mondo orni et illustri,
Perché non ti fugisti allor dal cielo
Che questo fier Tiran, ch'or per me giace,
Commise così sozzo e orribil atto?
2915
Come poté la tua serena luce
Veder cosa sì cruda e così orrenda
E non venire oscura? O sommo Giove,
Perché non fu da' fulmini tuoi arso
Sì abominevol mostro e sì nefando?
2920
E come consentistù, terra, mai
Che fusse sovra te sì malign'opra
Commessa, oimè, perché nel basso centro
Non tragiuttistù l'omicida fiero
Che di pianger mi dà cagion sì cruda
2925
Che non so qual pianger mi debba prima,
O 'l marito o i figliuoli ? Ai, occhi miei,
Come potete voi questo mirare,
E non divenir ciechi? e tu, mio core,
Come mandare a mio sostegno puoi
2930
Lo spirito vitale, essendo morti
Que' ch'eran la mia vita, la cui imago
Con tanta gioia in te scolpita avevi?
Oimè, marito, oimè, figliuoli, oimè,
Perché non mi conciede il Re del cielo,
2935
Per sua bontà, che com'io mi viveva
In tuttatre voi lieta, ora morendo
A tuttatre donassi anco la vita?
E se non lece a me co la mia morte
Tornarvi in vita, perché almen non puoi,
2940
Marito mio, impetrar tanto di spirto,
Ch'a la dolente tua moglie infelice,
Che con sì amara voce ora ti chiama,
Risponder possi almeno una parola?
Ai sovra ogn'altra cosa amato capo,
2945
A che cheggio io quel ch'avenir non puote?
Maladetto colui che mi ti face
Tal or veder qual io ti miro. Accogli
Quel che la donna tua t'offere, il capo
Del traditor, che 'l tuo ti tolse, e quelle
2950
Mani che fèr lo scelerato ufficio.
E voi, fidi sostegni a la mia vita,
Figliuoli nati d'infelice madre,
Viscere espresse del mio corpo e vera
E viva imago del mio caro Oronte,
2955
Come son senza voi, oimè meschina,
Misera, trista, dolorosa, afflitta!
Perché vi dèi, come innocenti agnelli,
A quel lupo arrabbiato? perché prima
Non mi lasciai svenare e aprire il core
2960
Che darvi ne le man di quel crudele,
Assetato via più del vostro sangue
Che di quel de le fiere orso selvaggio?
Oimè, che mi mostraro bene in sogno
La mia trista ventura i Dei del cielo,
2965
E del suo aperto mal fu ben presaga
La mente mia; ma non si può schifare
L'empio destin né la malvagia sorte.
Ma godetevi almeno, alme innocenti,
Godete, che ne giace ora colui
2970
Per cui voi vi giacete. E co' coltelli
Con cui da lui ne sete stati uccisi,
N'è stato ucciso anch'ei, da quelle mani
Per cui ne devevate esser difesi
Dal suo furor, s'al ciel piaciuto fosse,
2975
E qual vittima a voi da lor sacrato.
Oimè, figli, o marito,
Oimè, marito, o figli,
Quant'è grave il dolor che per voi porto!

NODRICE.
O che pianto, o che grida, o che querele
2980
Crudeli i' sento!

DON. DI.
Certo che son gravi,

SEMICORO.
Né lontano molt'è questo lamento.

ORBECCHE.
O giorno sempre acerbo a gli occhi miei,
Giorno sovra ogni giorno amaro e oscuro,
Quanto trista mi fai, quanto dolente!
2985
Oh che bel morir era oggi ha quattr'anni!
Non credo che di me sia più infelice
La infelicità istessa; e s'aver puote
Corpo mortale, ella nel mio si vive.

NODRICE.
Certo ch'io n'ho pietà, senza ch'io sappia
2990
La cagione del male o chi si dolga.

ORBECCHE.
Ma che prolungo più la vita mia?
Già verso voi finito è ogni mio ufficio,
Figliuoli miei, caro marito mio;
E più cosa nessuna a far mi resta
2995
Se non che venga a giungersi con voi
Questa infelice e miserabil alma.
Però, caro marito e cari figli,
Le cui anime forse a le mie grida
Venute sono e 'n questo loco insieme
3000
Godon de la vendetta da me fatta,
Cogliete questo spirto ch'a voi viene
Per più non si partir da voi, per sempre
Godervi. Or noi, contra il suo antico stile,
La morte, che disgiunge tutti gli altri,
3005
Congiungerà con sempiterno nodo.
Oimè, caro marito, o cari figli!

NODRICE.
Deh di grazia guardiam se noi vediamo
Chi sparge al ciel così dogliose voci.

ORBECCHE.
Ben prego, se non è pietà dal mondo
3010
Sbandita in tutto, ch'una grazia almeno
Mi sia concessa in questo estremo punto:
Che così come l'anime congiunte
Saran ne l'altra vita . . .

DON. DI.
Oimè, Nodrice,

SEMICORO.
Che la Reina nostra è che si duole!
3015
Vedila là con un coltello in mano,
Che par che sé medesma uccider voglia.

NODRICE.
Oimè, che 'l traditor del padre avralle
Rotta la fede e l'averà costretta
A darsi morte co la propria mano!
3020
Ai trista me! M'andianle, andianle incontro,
Donne mie care, ma così nascose
Ch'ella non se n'aveggia, acciò che forse
Non s'avacciasse di passarsi il petto,
Veggendone a sé gire; e a poter nostro
3025
Levianla da la morte.

ORBECCHE.
Così insieme
In un medesmo luoco sian riposti
I corpi nostri in questa vita ch'ora,
Il petto trafigendomi, abbandono.

NODRICE.
Che cosa è questa, oimè, Reina, e quale
3030
Empio furor così cieca vi mena
A darvi morte?
Ai trista me, che tardi
Siam giunte! Oimè,
Già si ha passato il core
3035
La nostra alta Reina!
Oimè, che morta
La veggio, oimè, giacere!
Ve' la cagione
De la sua acerba morte.
3040
Ai crudo padre,
Com'hai, essendo padre, mai potuto
Privar la figlia tua de' propri figli,
Oltre ogni merto lor, sì indegnamente?
Non dico del marito, ancor che vile
3045
Sia stata et iniqua opra averlo ucciso.
O che perdita è questa! oimè, che danno!
Ai vecchiezza infelice, ai vita amara
E più cruda che morte! ai destin fero,
Destin rapace e reo, destino ingiusto,
3050
Che più t'avanza a fare in questa corte
D'infelice, di tristo e di dolente,
Perché sazio ti resti?
Oimè, Reina!
E perché non chiamaste anco con voi
3055
Questa infelice vecchia a morir vosco,
Acciò che mai non si potesse dire:
Orbecche è morta e la Nodrice è viva?
Oimè, che divinaste ben voi quello
Ch'esser deveva; et io, semplice e sciocca,
3060
Creder giamai nol volli, anzi vi spinsi,
O me infelice, a la palese morte,
Col mio persuadervi che contenta
Vi faria il don de lo spietato padre,
Che stato vi è cagion di darvi morte.

DON. DI.
3065
Misere noi, ben siam come smarrita

SEMICORO.
Nave che 'n mar senza governo sia,
Piene d'ogni dolore
E senza alcuno onore,
Senza speme d'aita.
3070
Poi che colei, a cui non fu né fia
Simil unqua tra noi,
Al fin de' giorni suoi
Venuta e qual baleno è a noi sparita.
Ai fortuna aspra e ria,
3075
Ai sorte acerba, ai sorte,
Com'hai a un colpo sol tutte noi morte!

NODRICE.
Giusto duol bene a lamentar vi mena,
Figliuole mie, ch'a voi tolt'ha la morte
Ogni speme, ogni onore, e a me la vita.
3080
O fallaci pensier di noi mortali!
Or che Reina e maritata e lieta
I' sperava vedervi in somma altezza,
Morta i' vi veggio. Oimè trista e dolente!
O Signora, o Reina amata e cara,
3085
Alzate gli occhi a la Nodrice vostra
E vedete il suo pianto; e a le parole
Risponda questa bocca da la quale
Uscian sì dolci e sì soavi accenti
Che potean di dolcezza ogni gran pianto
3090
Condire, oimè!
Ma non farà la morte
Ch'io non accolga almen da queste labbra
Lo spirto estremo, se ven resta punto.
O dolci e care labbra,
3095
O labbra amate,
Che con tanta mia gioia già succiaste
Le poppe mie, com'or vi veggio essangui!
Misera me, ben sono, oimè, di vetro
Le spemi nostre e d'ogni lieve vento
3100
Più veloci a fuggirsi.
O vita mia,
Deh rispondete almeno una parola
A la trista Nodrice ch'or vi chiama.
Ma che pur chiamo? Ella non sente nulla.
3105
Però, care mie figlie, or m'aiutate
A portarla qui in casa e i figli e 'nsieme
Il capo del marito, acciò ch'almeno
Compiamo verso lor l'ultimo ufficio
E gettiamo il crudele empio Tiranno
3110
A divorare a gli avoltori, a i lupi.
Peso già a me via più d'ogn'altro dolce,
Com'or mi sei via più d'ogn'altro amaro!
Oimè, Reina, oimè,
Oimè, perché non moro,
3115
Conoscendo voi morta?
Oh come mai
Potrò più senza voi vivermi al mondo?
Oh perché, come m'hai d'ogni ben priva,
Crudele, acerba, inessorabil morte,
3120
Togliendomi colei ond'io viveva,
Tolta non m'hai con lei di questa vita?

DON. DI.
E noi che più sperar, lasse, devemo?

SEMICORO.
Morta ogni nostra spene,
Sol n'avanzan sospiri, angoscie e pene.
3125
In voi perduto ogni sostegno avemo,
Cara Reina nostra, e con voi giace
Ogni nostro contento et ogni pace.

[CORO]

CORO
Ben è vana e fugace
Questa felicità nostra mortale,
3130
Ch'un'ombra è de l'eterna;
E a chi ne la divina l'alma interna,
Quanto più bella par, tanto men vale.
Dunque a quella immortale
Ch'è là dov'è il Signor che 'l ciel governa,
3135
Chiunque il ver discerna,
Del veloce pensier spiegar dee l'ale
E lasciar questa frale
Qui godere a gli sciocchi,
Cui le cose terrene appannan gli occhi.

IL FINE DEL QUINTO ATTO

Atto

LA TRAGEDIA
3140
Venut'è omai il mio doglioso fine,
Caro lettore, e se potuto avessi
Di me medesma a voglia mia disporre
Stando nascosa, non avrei noiato
Co le dolenti mie querele alcuno.
3145
Che quantunque io sapessi ch'i più saggi
Preposero a ogni sorte di poema
La real gravità de la Tragedia,
Come color che ben vedean che nulla
Era nel mondo onde potesse avere
3150
Lo stuolo uman modo miglior di vita,
Non dimeno i' vedea che sì cresciuta
(Mercé del guasto mondo) è la lascivia
Che non pur la Tragedia non è in pregio,
Ma il suo nome real è odioso a molti.
3155
Ma poi c'han vinto il mio voler l'altrui
Voglie e costretta sono uscire in luce
Mal grado mio, s'è 'n te pietà ti prego
Ch'esser vogli vèr me più tosto mite
E benigno censor, ch'aspero e crudo:
3160
Perché tu non aggiunga al mio dolore,
Ch'è dur da sé, col lacerarmi, affanno.
E se forse parrà ch'io non mi scopra
In quell'abito altero in che devrei,
Iscusimi la forza de' martiri
3165
Che tanto ogni desio d'ornarmi m'hanno
Tolto, che spesse volte ho avuto invidia
A le più rozze pastorelle, essendo
Ne l'umile lor abito riposo,
Ov'è 'l grave e real pieno di cure.
3170
Né mi dèi men pregiar perch'io sia nata
Da cosa nova e non da istoria antica:
Che chi con occhio dritto il ver riguarda,
Vedrà che senza alcun biasimo lece
Che da nova materia e novi nomi
3175
Nasca nova Tragedia. Né perch'io
Da gli atti porti il prologo diviso
Debbo biasimo aver, però che i tempi
Ne' quai son nata e la novità mia
E qualche altro rispetto occulto fammi
3180
Meco portarlo: che ben pazzo fora
Colui il qual, per non por cosa in uso
Che non fosse in costume appo gli antichi,
Lasciasse quel che 'l loco e 'l tempo chiede
Senza disnor. E s'io non sono in tutto
3185
Simile a quelle antiche, è ch'io son nata
Testé da padre giovane e non posso
Comparir se non giovane; ma forse
Potrà levare il dispiacer ch'avrai
Del mio grave dolor, la verde etade.
3190
E che divisa in atti e 'n scene io sia,
Non pur non deve essermi ascritto a vizio,
Ma mi deve mostrar via più leggiadra.
Che com' un uom fia strano mostro al mondo
Che non abbia distinte in sé le membra,
3195
Così anch'io istimo che spiacevol fora
Vedermi in un tutta confusa. E bene
Seneca vide et i Romani antichi,
Quanto vedesser torto i Greci in questo.
E ch'io sia grande e grandi abbia le parti,
3200
Fuor de l'ordin non è de la natura,
Anzi maggior beltà regna in que' corpi
Che ne la spezie lor sono maggiori.
E s'ad alcun, cui grave sia d'udire
Ragioni ch'a pietà possin piegare
3205
Un animo disposto a la vendetta,
Troppo lungo parrà forse Malecche,
Egli a sua volta lo si accorci, ch'io
Mai perciò non verrò seco a tenzone.
Né stran ti paia che le donne ch'io
3210
Ho meco in compagnia sian via più saggie
Che paia altrui che si convenga a donne.
Ch'oltre il lume, qual ha de la ragione
Come l'uomo la donna, il gran sapere
Che chiude in sé quella sublime e rara
3215
Donna, il nome di cui alto e reale
Con somma riverenza e sommo onore
Oscuramente entro a me chiaro serbo,
Far può palese a ogni giudicio intiero
Non pur quanto di pregio in sé aver possa
3220
Donna gentil, ma che 'n prudenzia e senno
(Rimossa che ne sia la invidia altrui)
Agguagliar puote ogni saggio uom del mondo.
Appresso non ti paia stran che i Ciri
Meco non abbia e i Dari e le Satipne,
3225
Quantunque i' mi confessi esser di Persia:
Che da sì fatto biasimo iscusare
Mi può il mio nascimento, a chi ben mira.
Né dee duro parere, ad uom che sappia
Che può desperazione e grave doglia
3230
In cor di donna, che la figlia, senza
Speme alcuna rimasa nel dolore,
Dat'abbia acerba morte al crudo padre.
E quantunque ne moia il fier tiranno,
Nessun di sceleragine giamai
3235
M'accuserà che con sano occhio miri
A qual pietade desti i cori umani
Il caso di coloro ond'io son nata.
E s'avut'ha lo Stagirita duce,
Che tanto vide e tanto seppe e scrisse
3240
E di compor Tragedie aperse l'arte,
Nel darsi aperta morte la Reina
Ond'ho il nome io, per per fine al suo male,
Maraviglia non è se da le leggi
Del Venusino in ciò partissi e volle
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Nel cospetto del popolo col ferro
Darsi con forte man la morte in scena.
A que' ch'a' giri de le voci intenti
Vanno ansiosamente mendicando
Gonfie parole et epiteti gravi
3250
E d'orror ciechi e sanguinose morti,
D'Acheronti, di notti orride e nigre
Empion le carte lor se scrivon pianto,
E s'allegrezza, altro da lor non s'ode
Che fiori, erbe, ombre, antri, onde, aure soavi,
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Rubin, perle, zefir, topazi et oro,
Dirai ch'a scielta tal mi fece inetta
La forza del dolor che mi premea;
Et ho voluto aver più tosto duce
Con l'ornamento debito natura,
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Che con pompose voci una finta arte.
A' molti ch'oggi scrivono volgare
E lascian l'uso de' scrittori eletti,
Fidandosi di sé - per esser nati
In parte ove par lor che sia perfetta
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La volgar lingua, ch'è senza alcun pregio
S'a lei non danno onor gli auttori antichi -
Tu risponder potrai agevolmente,
Se forse contra me parlar vorranno,
Perché seguito in parte abbia il gran Tosco
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Che per Laura cangiò l'Arno con Sorga,
Et il buon Certaldese, eterni e chiari
Lumi de la volgar dolce favella.
Che tal fu la Romana e tal la Greca
Lingua, qual ora è la volgare et ambe
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Non dal parlar comun, ma da' scrittori
Che 'n esse si scoprirono eccellenti
Ebbero nome e tanto for pregiate,
Quant'era simil l'una e l'altra a quelli
Tre, quattro e sei ch'avean la scielta fatta
3280
Del meglio tra il parlar del volgo indotto.
E chiunque nel dir cercava fama,
Seguia que' scrittor buon, né si fidava
Di sé per esser nato in Grecia o 'n Roma.
È vero ben che per essere ancora
3285
Vivo questo volgar grato idioma,
Giudico che sia lecito a chiunque
Scrive in tal lingua, usare alcuna voce
(Scielta però da singolar giudicio)
Che ne' predetti Toschi non si trovi.
3290
Però a quei che ristretta han questa lingua
(Che in tal oppinione oggi son molti)
Solo a le voci de' due chiari Toschi,
Se voce è 'n me che non si trovi in essi,
Vo' che risponda teco il divin Bembo,
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Bembo divino che la volgar lingua
Tolt'ha dal carcer tenebroso e cieco
Regno di Dite, con più lieto plettro
Ch'Orfeo non fe' la sua bramata moglie;
E 'l Trissino gentil che col suo canto
3300
Prima d'ognun dal Tebro e da l'Illisso
Già trasse la Tragedia a l'onde d'Arno;
Et il gran Molza, il cui onorato nome
Vola con chiaro grido in ogni parte;
Et il buon Tolomei ch'i' volgar versi
3305
Con novo modo a i numeri Latini
Ha già condotto e a la Romana forma;
E quel che 'nsino oltre le riggid'Alpi,
Da Tebbe in Toscano abito tradusse
La pietosa soror di Polinice:
3310
I' dico l'Alamani che mi vide
Per mio raro destino uscire in Scena.
Questi felici e pellegrini ingegni,
Co gli altri che seguiti han le lor orme
(Ancora che que' due celebri auttori
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Abbiano in pregio tal qual deono aversi),
Cercando d'aumentar questa favella
Con ferma elezione e ver giudicio,
Han più tosto voluto procacciarsi
Con libertà lodevole di voci
3320
Ch'aprano e lor concetti, che 'n prigione
Co' ceppi a' piedi rimanersi muti.
Lasciando adunque a te tal peso e a loro,
Attenderò, sotto il presidio raro
Del Signor sotto il cui favor son fuori,
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Ch'altri, da le mie voci forse desto,
In abito più altero e più onorato
Mostri Tragedie e di beltà più rare.
Perché a le virtù loro, a le lor doti,
A la mirabil lor rara bellezza
3330
(Pur che non sia diforme al mio dolore)
Cercherò somigliarmi a mio potere.

IL FINE