Edición filológica utilizada:
Cristoforo Marlowe, La tragica storia del Dottor Fausto, Pietro Bardi (ed. y trad.), Bari, Gius. Laterza & Figli, 1907.
Procedencia:
Cristoforo Marlowe, La tragica storia del Dottor Fausto, Pietro Bardi (ed. y trad.), Bari, Gius. Laterza & Figli, 1907.
Procedencia:
Edición digital a cargo de:
- Bautista Boned, Luis (Artelope)
PERSONAGGI DEL DRAMMA
Il papa. |
Il cardinale di Lorena. |
L’imperatore di Germania. |
Il duca di Vanholt. |
Fausto. |
Valdes., amico di Fausto |
Cornelio., amico di Fausto |
Wagner., valletto di Fausto |
Un Clown. |
Ralph. |
Un oste. |
Un mercante di cavalli. |
Un cavaliere. |
Un vecchio. |
La duchessa di Vanholt. |
Lucifero. |
Belzebù. |
Mefistofile. |
Angelo buono. |
Angelo cattivo. |
Coro. |
Studenti. |
Frati. |
I sette peccati mortali. |
Valletti. |
Demoni. |
Gli spiriti di Alessandro il Grande e della sua amante. |
Lo spirito di Elena. |
Entra il Coro
CORO.
– Non già marciando sui campi del Trasimeno ove Marte scompigliò i Cartaginesi, né trastullandosi con gli scherzevoli amori o errando per le corti dei re, dove la potenza è rovesciata, nè cantando i trionfi di grandi e audaci geste intende la nostra Musa di fare sfoggio del suo verso celeste. Desideriamo solo questo, o signori: - rappresentare le vicende fortunose di Fausto, buone o cattive che siano. Per gli applausi invochiamo il vostro benevolo giudizio; e dell’infanzia di fausto parliamo noi ora per lui. Egli nacque in Germania da genitori di bassa condizione, entro le mira di una città chiamata Roda. Più maturo d’anni, andò a Vittemberga, dove i suoi parenti presero cura di educarlo. Fece così rapidi progressi in teologia e ornò tanto l’ubertoso giardino del sapere, che di lì a poco fu onorato del nome di dottore, superando ben presto quanti provano dolce diletto in disputare intorno alle divine questioni della teologia, fino al giorno in cui, gonfio di dottrina e di presunzione, si spinse al di là del limite suo e allora i Cieli cospirarono alla sua caduta liquefacendo le sue ali di cera. Infatti, datosi alle arti diaboliche e sempre più desideroso degli aurei doni del sapere, s’inebria della maledetta negromanzia. Nulla gli è più dolce della magia, anteponendola alle più grandi gioie. Questo è l’uomo che è ora qui seduto nel suo studio.
SCENA I
Si vede Fausto nel suo studio.
FAUSTO.
– Determina i tuoi studi, Fausto, e comincia a scandagliare la profondità di quello che tu vuoi professare. Benchè tu sia in apparenza dottore in teologia, ricerca quale è il fine di ogni arte, e vivi e muori nelle opere di Aristotile. O dolce logica, tu mi hai rapito: Bene disserere est finis logices. Ben disputare è il supremo fine della logica? Non ci offre quest’arte miracolo più grande? Allora non legger più, tu hai già raggiunto questo fine: più alto soggetto si conviene alla mente di Fausto. Di’ addio all’ on cai me on e venga Galeno. Visto che Ubi desinit philosophus ibi incipit medicus, fatti medico, Fausto, ammassa oro, e diventa immortale con qualche meravigliosa cura. Summum bonum medicinae sanitas. Il fine della medicina è la salute del nostro corpo. Ma perchè non hai tu, Fausto, raggiunto un simile fine? Il tuo consueto parlare non è tutto profondi aforismi? Non sono affisse come monumenti le ricette colle quali furono da le salvate dalla pèste città intere guarite mille disperate malattie? E nondimeno tu non sei che Fausto, sei sempre un uomo. Se tu potessi fare che gli uomini vivessero in eterno, o dopo morti risuscitassero, allora sì che questa professione potrebbe essere stimata. Medicina, addio.
Dov’ è Giustiniano? Si una eademque res legatur duobus, alter rem, alter valorem rei etc. Bel caso di meschina giurisprudenza testamentaria! Exhereditare filium non potest pater nisi etc. Tale è il soggetto delle Istituzioni e di tutto il corpo del diritto. Si fatto studio è adatto a un servo mercenario che non mira ad altro che alla meschina apparenza; è troppo servile e illiberale per me. Tutto considerato, meglio è la teologia. Ecco, Fausto, la Bibbia di Girolamo: considerala attentamente. Stipendium peccati mors est. Ah! Stipendium etc. Ricompensa del peccato è la morte. Ciò è duro. Si peccasse negamus, fallimur, et nulla est in nobis veritas. Se noi diciamo che non abbiamo peccato, inganniamo noi stessi, e non è verità in noi. Ma allora, a quel che sembra, noi dobbiamo peccare e poi morire. Sì, noi dobbiamo morire una morte eterna. Come chiamate voi una tale dottrina: Quel che sarà sarà? Cioè: Quello che sarà dovrà essere? Teologia, addio!
Questa metafisica dei maghi e questi libri dei negromanti sono divini! Linee, circoli, figure, lettere e caratteri. Sì, ecco quello che Fausto ardentemente desidera. Oh, che mondo di ricchezze, di delizie, di potere, di onore, di onnipotenza è promesso all’assiduo studioso! Tutte le cose che si muovono fra i poli immobili, saranno al mio comando: imperatori e re non sono obbediti che nelle loro rispettive province, nè possono sollevare i venti o squarciare le nubi; ma l’impero di chi è eccellente in quest’arte si estende fin dove la mente umana si estende. Un mago sapiente è un dio potente: in ciò, Fausto, affatica il tuo cervello e conquista la Divinità!
Wagner!
(Entra Wagner)
Ricordami a’ miei carissimi amici Ermanno Valdes e Cornelio; pregali vivamente di venire a vedermi.
WAGNER.
– Lo farò, signore.
(Esce.)
FAUSTO.
– La loro conversazione mi gioverà più di tutti i miei lavori, pero quanto io mi sforzi e mi affatichi.
(Entrano l’Angelo buono e l’Angelo cattivo.)
ANGELO BUONO.
– O Fausto, metti da parte quel libro dannato, e più non vi gettar sopra lo sguardo per tèma che non tenti la tua anima, e non faccia si che sul tuo capo si posi la tremenda ira di Dio. Leggi, leggi le Scritture: quel libro è bestemmia.
ANGELO CATTIVO.
– Progredisci, o Fausto, in quell’arte famosa ove si racchiude tutto il tesoro della Natura: sii tu in terra quello che è Giove in cielo; signore e padrone degli elementi.
(Gli Angeli escono.)
FAUSTO.
– Quest’ idea come mi attrae! Comanderò io agli spiriti che mi trovino quel che più mi piace, che risolvano tutti i miei dubbi, che compiano qualunque disperata impresa io voglia? Al mio cenno, eccoli volar nell’India per avere oro, frugar l’oceano per apportarmi perle orientali, cercar gli angoli tutti del Nuovo mondo per regalarmene i frutti gustosi e le delicatezze principesche. Farò che mi leggano una filosofia misteriosa, e li costringerò a svelarmi i secreti di tutti i re stranieri; comanderò loro di cingere di mura di bronzo la Germania, e del Reno veloce circonderanno la bella Vittemberga. Farò loro empir di seta le pubbliche scuole, acciocchè gli studenti vadano dignitosamente vestiti; raccoglierò un esercito col denaro ch’essi mi recheranno, e caccerò il principe di Parma dalla nostra terra, e regnerò unico re su tutte le nostre province. Sì, farò inventare agli spiriti miei servi macchine terribili di guerra, più strane che non fosse l’igneo battello al ponte di Anversa!
Entrano Valdes e Cornelio.
Venite, Ermano Valdes e Cornelio, e mettete al colmo la mia gioia col vostro saggio conversare. Valdes, dolce Valdes, e Cornelio, sappiate che le vostre parole mi hanno alfine deciso a praticare la Magia e le arti occulte: ma non le vostre parole solamente, sì anche la mia fantasia, che non vuole altro oggetto di studio: la mia testa non fa che ruminare delle meraviglie dell’arte magica. La filosofia è odiosa e oscura, la legge e la medicina sono per umili menti, la teologia è delle tre la più bassa, ingrata, dura, spregevole, vile: la magia, la magia mi ha ammaliato. Dunque, gentili amici, aiutatemi in questo tentativo; ed io che con brevi sillogismi ho messo nell’impaccio i pastori della chiesa germanica, e ho fatto accorrere in folla il fior dell’orgoglio di Vittemberga alle mie lezioni, come già gli spiriti infernali attorno al dolce Museo quando egli andò all’inferno, sarò sapiente quanto Agrippa, le cui evocazioni infernali lo fecero onorare da tutta l’Europa.
VALDES.
- Fausto, questi libri, il tuo ingegno e la nostra esperienza ci faranno canonizzare da tutte le nazioni. Come i mori obbediscono ai loro signori spagnuoli, così gli spiriti di ogni elemento saranno sempre ai nostri comandi: a nostro piacere ci proteggeranno, ora in forma di leoni, ora di soldati alemanni con le lance da cavaliere, o come giganti di Lapponia galoppando ai nostri fianchi; qualche volta in forma di donne o di vergini fanciulle adombrando con le loro eteree ciglia maggior bellezza che non abbia il bianco seno della regina dell’amore. Da Venezia ci condurranno essi poderose galere, e dall’America il toson d’oro che ogni anno ricolma lo scrigno del vecchio Filippo – purchè il dotto Fausto sia ben risoluto.
FAUSTO.
– Valdes, io son tanto deciso in questi propositi, quanto tu a vivere; tregua, dunque, alle obbiezioni.
CORNELIO.
– Quando vedrai i prodigi che compirà la magia, tu farai vòto di non studiar più altro. Chi conosce a fondo l’astrologia, chi possiede il ricco tesoro delle lingue, è ben versato nella mineralogia, ha pure tutti i requisiti che richiede l’arte magica. Dunque non dubitare, o Fausto, della fama che ti attende; tu sarai più consultato per questi misteri, che un tempo l’oracolo di Delfo. Gli spiriti mi narrano che possono asciugare il mare e cercarvi i tesori de tutti i naufraghi stranieri e tutte le ricchezze che i nostri avi nascosero entro le massicce viscere della terra. Dimmi, Fausto, di che altro avremo allora bisogno noi tre?
FAUSTO.
– Di nulla, Cornelio! Oh come esulta l’anima mia! Vieni, insegnami qualche magico esperimento, chè io possa evocare gli spiriti nel folto di qualche bosco e possedere pienamente tutte queste gioie.
VALDES.
– Dunque affrèttati verso qualche solitario bosco e porta con te le opere del saggio Bacone e di Alberto, il libro ebraico del salmi e il Nuovo Testamento: quanto alle altre cose che occorrono, te ne informeremo prima che finisca la nostra conversazione.
CORNELIO.
– Valdes, insegnagli prima i termini dell’arte, e poi, quando appreso tutte le altre cerimonie, ben potrà Fausto dar prova del sapere.
VALDES.
– T’insegnerò prima i rudimenti, e tu sarai ben presto più valente di me.
FAUSTO.
– Allora pranzate meco, e dopo il cibo discuteremo tutti particolari dell’ arte. Avanti di addormentarmi voglio provare le mie forze. Stanotte evocherò gli spiriti, dovessi morirne!
(Esce.)
SCENA II.
Entrano duce studenti.
PRIMO STUDENTE.
– Sarei curioso di sapere che n’è di Fausto, ch’era solito far echeggiare le nostre scuole col suo sic probo.
SECONDO STUDENTE.
– Lo sapremo, poichè, guarda, ecco il suo servo.
Entra Wagner.
PRIMO STUDENTE.
– Ebbene, furfante, dov’è il tuo padrone?
WAGNER.
– Lo sa Dio in cielo.
SECONDO STUDENTE.
– Che tu non lo sai?
WAGNER.
– Si, lo so. Ma questa non è una conclusione logica.
PRIMO STUDENTE.
– Andiamo, furfante, lascia gli scherzi e dicci dov’è.
WAGNER.
– Non è una conclusione logica dedotta per forza di argomentazione, ed essendo licenziati, non dovreste insisterci: riconoscete dunque il vostro errore e state attenti.
SECONDO STUDENTE.
– Come? Non ci hai tu detto che sapevi dov’è?
WAGNER.
– Ne avete qualche testimonio?
PRIMO STUDENTE.
– Si, furfante: ti ho udito io.
WAGNER.
– Domandate ai miei compagni se io son ladro.
SECONDO STUDENTE.
– Ebbene, vuoi tu dircelo?
WAGNER.
– Sissignore, ve lo dirò; però, se non foste balordi, non mi avreste fatta una simile domanda. In vero non è egli corpus naturale e per conseguenza mobile? Allora perchè farmi una tale domanda? Se non fossi per natura flemmatico, lento alla collera, e propenso alla lussuria (all’amore voglio dire), fareste bene a non accostarvi quaranta passi al luogo dell’esecuzione, benchè non dubiti di vedervi tutti e due appiccati alle prossime assisi. Ora che vi ho ben frustati, assumerò l’aria di un puritano e comincerò a parlare così: - In verità miei cari fratelli, il mio padrone è in casa, a pranzo con Valdes e Cornelio, e questo vino, se potesse parlare, ne informerebbe le signorie vostre. E ora che il Signore vi benedica, vi conservi e vi tenga sotto la sua santa custodia, miei cari fratelli. –
(Esce.)
PRIMO STUDENTE.
– Temo purtroppo ch’egli sia caduto in quell’ arte dannata che ha dato a quei due trista fama in tutto il mondo.
SECONDO STUDENTE.
– Se egli fosse un estraneo senza alcun legame con me, pure sentirei dolore di lui. Ma vieni, andiamo a informarne il Rettore dell’Università; forse i suoi gravi consigli potranno farlo ravvedere.
PRIMO STUDENTE.
– Oh! Temo che nulla possa farlo ravvedere.
SECONDO STUDENTE.
– Ad ogni modo tentiamo di fare quello che si può.
SCENA III.
Entra Fausto ad evocare gli spiriti.
FAUSTO.
– Or che l’ombra tetra della terra anelante di vedere il nebuloso sguardo di Orione balza su nel cielo dal mondo antartico e oscura il firmamento col suo alito tenebroso, comincia, Fausto, i tuoi incanti, e prova se i dèmoni dopo che tu avrai offerto loro preghiere e sacrifizi obbediranno a’ tuoi ordini. Dentro questo circolo sta scritto il nome di Jeova, ed ecco qui, anagrammatizzati in tutti i modi, i nomi abbreviati dei venerabili santi, le figure di tutti gli astri del firmamento, e i simboli dei segni dello zodiaco e delle stelle erranti che costringono gli spiriti ad apparire.
Dunque, non temere, o Fausto, ma sii risoluto e tenta il supremo sforzo che la magia possa compiere.
Sint mihi Dei Acherontis pripitii! Valeat numen triplez jehove! Ignei, aerii, aquatani spiritus, salvete! Orients princeps Belzebub, inferni ardentis monarcha, et Demagorgon, propitimus vos, ut appareat et surgat Mephistophilis, quod tumeraris; per Jehovam, Gehennam, et consecratam aquam quam nunc spargo, signumque crucis quod nunc facio, et per vota nostra, ipse nunc surgat nobis dicatus Mephistophilis!
Entra Mefistofile.
T’impongo di andartene, e di cambiar forma; tu sei troppo brutto per essere del mio sèguito: va’, e ritorna vecchio frate francescano; quella santa veste è quella che più si addice a un diavolo.
(Esce Mefistofile.)
Vedo che c’è virtù nelle mie celesti parole: chi non vorrebbe essere addestrato in quest’arte? Com’è pieghevole questo Mefistofile, tutto ubbidienza e umiltà! Tale è la forza della magia e de’ mei incantesimi! Eccoti, o Fausto, un evocatore laureato, che puoi comandare al gran Mefistofile. Quin regis Mephistophilis fratris imagine.
(Rientra Mefistofile in forma di frate francescano.)
MEF.
– Ebbene, che vuoi da me, Fausto?
FAUSTO.
– Ti comando di servirmi sin che vivo e di fare qualunque cosa Fausto ti ordinerà, foss’anco di precipitare la luna dalla sua orbita, o sommergere il mondo nell’ oceano.
MEF.
– Io son servo del gran Lucifero, e non posso seguirti senza suo consenso: noi non possiam fare più di quel ch’egli ci comanda.
FAUSTO.
– Non ti ordinò di apparirmi?
MEF.
– No: venni qui di volontà mia.
FAUSTO.
– Non furono le mie formule che ti fecero venir su? Parla.
MEF.
– Ne furono la causa, ma tuttavia per accidens; poichè quando noi udiamo qualcuno far strazio del nome di Dio, rinnegare le scritture e il suo Cristo salvatore, voliamo a lui con la speranza di conquistarne l’anima superba; ma non compariamo qualora egli non usi tali mezzi che gli faccian correre pericolo d’essere dannato. La via più corta per evocarci è dunque di rinnegare risolutamente la Trinità, e pregare devotamente il principe dell’Inferno.
FAUSTO.
– Così Fausto ha già fatto; egli ha per principio che non vi è altro capo se non Belzebù, al quale Fausto tutto si consacra. La parola dannazione non lo atterrisce, poichè egli confonde l’Inferno coll’Eliso: il suo spirito viva con gli antichi filosofi! Ma lasciamo da parte queste bazzecole delle anime umane: dimmi chi è questo Lucifero tuo signore?
MEF.
– L’archimandrita, il duce di tutti gli spiriti.
FAUSTO.
– Questo Lucifero non fu già un angelo?
MEF.
– Sì, Fausto; e amano teneramente da Dio.
FAUSTO.
– Com’è dunque ch’egli è Principe dei diavoli?
MEF.
– Oh! Per lo sfrenato orgoglio e l’insolenza sua Dio lo sbalestrò lungi dalla faccia del Cielo.
FAUSTO.
– E chi siete voi che vivete con Lucifero?
MEF.
– Spiriti infelici che cademmo con Lucifero, cospirammo contro il nostro Dio con Lucifero, e siamo in eterno dannati con Lucifero.
FAUSTO.
– Dove siete dannati?
MEF.
– Nell’Inferno.
FAUSTO.
– Come va allora che tu sei fuori dell’Inferno?
MEF.
– Ma inferno è questo, nè io ne son fuori: credi tu forse che io, che contemplai la faccia di Dio e gustai le gioie eterne del cielo, non sia tormentato da diecimila inferni, essendo privo della eterna beatitudine? Oh! Fausto, lascia queste frivole domande, che riempiono di terrore la mia anima umiliata.
FAUSTO.
– Che? Il gran Mefistofile è tanto angosciato per essere privato delle gioie del Cielo? Impara allora da Fausto la fortezza virile, e sdegna quelle gioie che tu non avrai più. Va’, porta questa nuova al gran Lucifero; digli che Fausto, essendo incorso nella morte eterna per disperati pensieri contro la divinità di Giove, gli cede la sua anima, purchè gli serbi ventiquattro anni di vita, pieni di ogni voluttà; avendo sempre te al mio servizio, che dovrai procurarmi qualunque cosa io desideri, rispondere a qualunque cosa io domandi, uccidere i miei nemici, soccorrere i miei amici, ed esser sempre obbediente alla mia volontà. Va’, torna al potente Lucifero, e a mezzanotte vieni a trovarmi nel mio studio e informami delle intenzioni del tuo signore.
MEF.
– Andrò, Fausto.
(Esce.)
FAUSTO.
– Avessi io tante anime quante stelle il cielo, le darei tutte a Mefistofile. Per mezzo suo io sarò grande Imperatore del mondo, lancerò un ponte attraverso la mobile aria per passar l’oceano con schiere di armati: unirò le montagne che chiudono la spiaggia africana, e farò dell’Africa e della Spagna un solo continente tributario della mia corona. L’Imperatore non vivrà che per mio consenso, e così gli altri potentati della Germania. – Ora che ho ottenuto quel che desideravo, passerò il tempo meditando su quest’arte, aspettando il ritorno di Mefistofile.
(Esce.)
SCENA IV.
Entra Wagner e un clown.
WAGNER.
– Monello, vien qua.
CLOWN.
– Come, monello! Pel sangue di Dio, monello! Ne avete veduti proprio molti di monelli con una barbetta come la mia! Monello a me!
WAGNER.
– Dimmi, furfante: hai tu delle entrate?
CLOWN.
– Sì, e delle uscite pure, come potete vedere.
WAGNER.
– Ahimè! Povero schiavo! Guarda come la povertà scherza nella sua nudità! Questo villano è nudo e senza servizio, e così affamato che darebbe, ne son sicuro, l’anima al diavolo per una spalla di montone, fosse pure cruda e sanguinante.
CLOWN.
– Che! L’anima al diavolo per una spalla di montone cruda e sanguinante! Neppur per ombra, mio buon amico! Per la madonna! Bisognerebbe fosse bene arrostita e con una buona salsa, se la dovessi pagare così cara.
WAGNER.
– Ebbene, se tu vuoi servirci, io ti farò marciare come un Qui mihi discipulus?
CLOWN.
– Come, in versi?
WAGNER.
– No, furfante: vestito di seta filata e di stavesacre.
CLOWN.
– Come come? Knave’s-acre! Credevo fosse tutto il patrimonio che gli ha lasciato suo padre, capite? Mi dispiacerebbe di rubarvi la pagnotta.
WAGNER.
– Ma che! Dico di staves- acre.
CLOWN.
– Oh oh staves acre! A quel che sembra, se io fossi al vostro servizio sarei pieno di vermi.
WAGNER.
– E così sarai sempre, che tu stia con me o no. Ma, furfante, lascia gli scherzi e impègnati di star con me per sette anni, o io muterò tutti i pidocchi che hai addosso in tanti demonietti che ti lacereranno la carne.
CLOWN.
– Davvero, signore? Vi potete risparmiare questa fatica: hanno già abbastanza dimestichezza con me. Per il sangue di Dio! Con la mia carne fanno a confidenza come se mi pagassero da magiare e da bere.
WAGNER.
– Dunque la intendi, furfante? Tieni, prendi questi guilders.
(Gli dà del denaro.)
CLOWN.
– Dei gridirons? Che sono?
WAGNER.
– Mah! Corone francesi.
CLOWN.
– Per la messa, queste corone francesi credo che valgano quanto dei gettoni inglesi. Che ne devo fare?
WAGNER.
– Eh! Di qui a un’ora, in qualunque luogo tu sia e in qualunque tempo, il diavolo ti verrà a cercare.
CLOWN.
– No no: ecco qui, riprenditi i tuoi gridirons.
WAGNER.
– Non li voglio più davvero.
CLOWN.
– Tu li riprenderai certo.
WAGNER.
– Siate testimoni che io glieli hi dati.
CLOWN.
– E voi siate testimoni che io glieli restituisco.
WAGNER.
– Ebbene, farò venire all’istante due diavoli che ti porteranno via, Baliol e Belcher!
CLOWN.
– Vengan pure i vostri diavoli Baliol e Belcher, li bastonerò di santa ragione, e state sicuro che, da quando son diavoli, non ne han presse di più dure. Di’ su: se ne uccidessi uno, che direbbe la gente? – Vedete quel giovanotto alto dalle grandi brache? Egli ha ucciso il diavolo. –Così io sarei chiamato Ammazzadiavolo per tutta la parrocchia.
(Entrano due diavoli: il clown corre di qua e di là urlando.)
WAGNER.
– Baliol e Belcher, spiriti, furori di qua!
(Escono i diavoli.)
CLOWN.
– Che? Se ne sono andati? Maledetti loro! Hanno certe unghiacce! C’era un diavolo e una diavolessa: vi dirò come si fa a distinguerli. Tutti i diavoli hanno le corna, tutte le diavolesse hanno delle fessure e i piedi forcuti.
WAGNER.
– Andiamo, furfante, seguimi.
CLOWN.
– Ma state a sentire: Se vi servissi, m’insegnereste a far comparire Banios e Belcheos?
WAGNER.
– T’insegnerò come devi fare per trasformarti in qualunque cosa: o in cane, o in gatto, o in topo, o in sorca, o in qualunque altra cosa.
CLOWN.
– Che! Un cristiano diventar cane, o gatto, o topo, o sorca? No, no, signore. Se devo proprio, trasformarmi in qualche cosa, sia in sembianza di una vispa pulcetta: così sarò qui, là e in ogni luogo. Oh, farò il solletico sotto le gonnelle delle leggiadre fanciulle: sì, sì in parola, starò sempre fra loro.
WAGNER.
- Va bene, furfante, andiamo.
CLOWN.
– Ma sentite, Wagner.
WAGNER.
– Che! Baliol e Belcher.
CLOWN.
– Oh Dio mio! Vi prego, signore, lasciate che Baliol e Belcher vadano a dormire.
WAGNER.
– Villano, chiamami padron Wagner e fa che il tuo occhio sinistro sia diametralmente fisso sul mio tallone destro, con quasi vestigia nostra insistere.
(Esce.)
CLOWN.
– Dio mi perdoni, parla un olandese da ciarlatano. Ebbene lo seguirò, lo servirò: è la più liscia.
(Esce.)
SCENA V.
Fausto nel suo studio.
FAUSTO.
– Ora, o Fausto, eccoti inevitabilmente dannato, nè puoi più salvarti. Che giova dunque pensare a Dio o al Cielo? Lascia queste vane fantasie, e dispera: dispera di Dio, confida in Belzebù: non indietreggiar più, no; Fausto, sii risoluti! Perchè esiti ancora? Oh, qualche cosa risuona al mio orecchio: Rinnega questa magia, torna a Dio! Sì! Fausto tornerà a Dio. A Dio? Egli non ti ama. Il Dio a cui tu servi è il tuo proprio appetito, che è una cosa stessa con l’amore di Belzebù. A lui innalzerò un altare e una chiesa; a lui offrirò il tepido sangue di teneri innocenti.
(Entrano l’Angelo buono e l’Angelo cattivo.)
ANGELO BUONO.
– Dolce Fausto, lascia quest’arte esecranda.
FAUSTO.
– Contrizione, preghiera, pentimento a che servono?
ANGELO BUONO.
– Sono il mezzo per ricondurti al Cielo.
ANGELO CATTIVO.
– Sono piuttosto illusioni; frutti della demenza, che rendono insensati gli uomini che vi pongono maggior fiducia.
ANGELO BUONO.
– Dolce Fausto, pensa al Cielo e alle cose celesti.
ANGELO CATTIVO.
– No, Fausto, pensa all’onore e alla ricchezza.
(Gli Angeli escono.)
FAUSTO.
– Alla ricchezza! Sì, la signoria di Emden sarà mia. Quando Mefistofile sarà al tuo fianco, qual Dio potrà nuocerti? Fausto, tu sei al sicuro: non metter più dubbi innanzi. Vieni, Mefistofile, e portami liete novelle del gran Lucifero: non è mezzanotte? Vieni, Mefistofile; veni, veni Mephistophile.
(Entra Mefistofile.)
Dimmi: che ha deciso Lucifero tuo signore?
MEF.
– Ch’io rimanga agli ordini di Fausto finch’egli viva, purchè egli paghi i miei servigi con la sua anima.
FAUSTO.
– Fausto, l’ha già arrischiata per te.
MEF.
– Ma, o Fausto, è pur necessario che tu scriva un atto di donazione col tuo proprio sangue: il gran Lucifero vuole questa garanzia. Se tu la neghi, io tornerò all’Inferno.
FAUSTO.
– Attendi, Mefistofile, e dimmi qual bene arrecherà la mia anima al tuo signore.
MEF.
– Ingrandirà il suo regno.
FAUSTO.
– È questa la ragione che lo spinge a tentarci così?
MEF.
– Solamen miseris socios habuisse doloris.
FAUSTO.
– E che! Soffrite voi le stesse pene che torturano noi?
MEF.
Sì, pene terribili quanto quelle che sopportano le sensibili anime umane. Ma dimmi, Fausto: avrò io la tua anima? Io sarò tuo schiavo, ti servirò e ti darò più di quello che la tua fantasia possa richiedere.
FAUSTO.
– Sì, Mefistofile, io te la offro.
MEF.
– Allora, Fausto, fora coraggiosamente il tuo braccio, e lascia in legato la tua anima, in guisa che Lucifero possa in un giorno fisso reclamarla come sua; e poi sarai grande quanto Lucifero.
FAUSTO.
(Forandosi il braccio.) –Ecco, Mefistofile; per amor tuo incido il mio braccio, e col mio sangue do pegno che la mia anima apparterrà a Lucifero, Gran Signore e reggente della notte eterna! guarda il sangue che spiccia dal mio braccio; sia esso propizio ai miei desideri!
MEF.
– Ma, Fausto, tu devi scrivere ciò in forma di atto donazione.
FAUSTO.
– Così farò.
(scrive)
Mefistofile, il mio sangue si agghiaccia e più non posso scrivere.
MEF.
– Ti cercherò del fuoco per liquefarlo subito.
(Esce.)
FAUSTO.
– Il coagularsi del mio sangue che può mai presagire? Vuol esso impedire che io scriba il contratto? Perchè non scorre sì che io possa continuare a scrivere? Fausto ti dà la sua anima... Ah! ecco che si coagula di nuovo. Perchè non dovresti? Non è tua la tua anima? Continua dunque a scrivere Fausto ti dà l’anima sua...
(Rientra Mefistofile con un braciere di carboni ardenti.)
MEF.
– Ecco il fuoco. Vieni, Fausto, riscalda il tuo sangue.
FAUSTO.
– Ecco che il sangue comincia a sciogliersi; ora avrò presto finito.
(Scrive.)
MEF.
– (A parte.) Che non farei per aver la sua anima!
FAUSTO.
– Consummatum est! L’atto è compiuto: Fausto ha ceduto la sua anima a Lucifero. Ma che significa questa iscrizione sul mio braccio? Homo, fuge! Dove dovrei fuggire? Se a Dio, egli mi caccerà giù nell’Inferno. I miei sensi m’ingannano, qui non c’è scritto niente: - lo vedo chiaro; qui, proprio qui c’è scritto Hommo, fuge! Pur Fausto non fuggirà.
MEF.
– Andrò in cerca di qualche cosa che ricrei il suo spirito.
(Esce.)
Rientra Mefistofile con diavoli che dànno a Fausto corone e ricchi abiti, ballano e se ne vanno.
FAUSTO.
– Di’, Mefistofile, che significa tutta questa pantomima?
MEF.
– Nulla, Fausto: è solo per ricrear il tuo spirito, e mostrarti quanto può la magia.
FAUSTO.
– Ma posso far apparire gli spiriti sempre che mi piacerà?
MEF.
Sì, Fausto, e far cose ancor più meravigliose.
FAUSTO.
– Oh! Ciò val bene mille anime! Ecco, Mefistofile; prendi questa pergamena, atto di donazione del mio corpo e della mia anima: ma a condizione che tu osservi tutti i patti convenuti tra noi.
MEF.
– Fausto, io giuro per l’Infero e per Lucifero di mantenere tutti i patti stabili tra noi.
FAUSTO.
– Allora ascoltami; li leggo:
Alle seguenti condizioni: primo, che Fausto possa essere uno spirito in forma e sostanza; secondo, che Mefistofile sia suo servo, sempre al suo comando; terzo, che faccia qualunque cosa per lui, e lo porti in qualunque luogo egli desideri; quarto, che egli sia invisible nella sua casa o nella sua camera; da ultimo, che egli debba apparire col detto Giovanni Fausto, ad ogni tempo e sotto qualsiasi forma gli piaccia. Io, Giovanni Fausto di Vittembergu, dottore, col presente atto mi do corpo e anima a Lucifero principe dell’oriente, e al suo ministro Mefistofile: e inoltre accordo loro, spirati ventiquattro anni, semprecchè i patti sopra scritti siano stati mantenuti, pieno potere di portare il delto Guiovanni Fausto, corpo e anima, carne, sangue e ogni suo bene, nella loro dimora dove si sia.
Per me
Giovanni Fausto
MEF.
– Dite, Fausto; questo che mi consegnate è proprio atto vostro?
FAUSTO.
– Sì, prendilo e che il diavolo te ne renda merito!
MEF.
– Ora, Fausto, domanda tutto quello che vuoi.
FAUSTO.
– Prima t’ interrogherò sull’Inferno. Di’ su dov’è questo luogo che gli uomini chiamano Inferno?
MEF.
– Sotto i cieli.
FAUSTO.
– Sì, ma in qual luogo?
MEF.
– Dentro le viscere degli elementi, dove noi siam tormentati e restiamo per sempre: l’Inferno non ha limiti, nè è circoscritto ni un dato luogo; là dove siam noi è inferno, e là dov’è l’inferno noi dobbiamo essere: e, per concludere, quando il mondo si dissolverà e ogni creatura sarà purificata, tutto lo spazio che non sarà cielo sarà inferno.
FAUSTO.
– Andiamo, penso che l’Inferno sia una fiaba.
MEF.
– Si, pensa pur così, finche l’esperienza non cambi il tuo pensiero.
FAUSTO.
– Che? Credi dunque che Fausto sarà dannato?
MEF.
– Sì, necessariamente; non ho io qui la pergamena con la quale tu dài la tua anima a Lucifero?
FAUSTO.
– Sì, e il corpo pure; e per questo? Credi tu che Fausto sia così insensato da credere che dopo questa vita vi siano tormenti? Oh via! son frottole, storielle da vecchie comari.
MEF.
– Eppure io sono, Fausto, un esempio che prova il contrario; poichè io son dannato, e ora sono all’Inferno.
FAUSTO.
– Come! All’Inferno adesso? Sia pure: se questo è inferno, vorrei volentieri esser dannato qui. Come! Passeggiare, discutere...? Ma lasciamo andar tutto questo. Fammi avere in isposa la più bella fanciulla di Germania, ch’io son lascivo e sensuale e non posso stare senza moglie.
MEF.
– Una moglie? Ti prego, Fausto, non parlar di moglie.
FAUSTO.
– Sì, dolce Mefistofile, trovamene una; ne voglio aver una.
MEF.
– Ebbene l’avrai. Siedi là finche io ritorni: ti cercherò una moglie a nome del diavolo.
(Esce.)
Rientra Mefistofile con un diavolo vestito da donna, e si vedono fuochi d’artifizio.
MEF.
– Di’ su, Fausto: ti piace questa moglie?
FAUSTO.
– Che incolga la peste a questa ardente bagascia!
MEF.
– Zitto, Fausto! Il matrimonio non è altro che sciocchezza rivestita di cerimoniale, e se mi vuoi bene non ci devi pensar più. Io ti sceglierò le più belle cortigiane, e le condurrò ogni mattina al tuo letto; colei che piacerà al tuo occhio, la possederà il tuo cuore, sia essa casta come Penelope, o saggia come Saba, o bella come il raggiante Lucifero prima della sua caduta. Ecco, prendi questo libro, leggilo attentamente.
(Gli dà un libro.)
La lettura ripetuta di questi versi porta oro; il disegnare questo circolo sul terreno fa scoppiare uragani, tempeste, tuoni, fulmini: pronunzia tre volte questo nome con devozione, dentro di te, e ti appariranno uomini armati, pronti ai tuoi voleri.
FAUSTO.
– Grazie, Mefistofile: ma gradirei un libro ove vedere tutte le magie e gl’ incantesimi per evocare gli spiriti quando volessi.
MEF.
– Eccoli, in questo libro.
(Glieli mostra.)
FAUSTO.
– Ora vorrei avere un libro che mi mostrasse tutti i pianeti del cielo, per poter conoscere i loro movimenti e le loro varie posizioni.
MEF.
– Eccoli qui essi pure.
(Glieli mostra.)
FAUSTO.
– Sì, fammi avere un altro libro e poi ho finito; un libro dove io possa vedere tutte le piante, le erbe, gli alberi che crescono su la terra.
MEF.
– Son qui.
FAUSTO.
– Ti sbagli.
MEF.
– Via, te ne assicuro.
(Glieli mostra, esce.)
SCENA VI.
Entra Fausto e Mefistofile.
FAUSTO.
– Quando io contemplo i cieli, mi pento, e ti maledico, malvagio Mefistofile, per avermi privato di quelle gioie.
MEF.
– Ma credi tu, Fausto, che il cielo sia poi cosa tanto splendida? Esso è molto meno bello di te o d’ogni altro uomo che respira sulla terra.
FAUSTO.
– Come puoi provarlo?
MEF.
– Il cielo fu fatto per l’uomo, quindi l’uomo deve essere superiore ad esso.
FAUSTO.
– Se il cielo fu fatto per l’uomo, fu fatto anche per me; voglio rinunziare a questa magia e pentirmi.
Entrano l’Angelo buono e l’Angelo cattivo.
ANGELO BUONO.
–Pèntiti, Fausto: Dio avrà ancora compassione di te.
ANGELO CATTIVO.
–Tu non sei che uno Spirito, Dio non può avere compassione di te.
FAUSTO.
– Chi ronza al mio orecchio che io sono uno Spirito? Fossi anche un demonio, Dio può ancora avere compassione di me: sì, Dio avrà pietà di me, se io mi pento.
ANGELO CATTIVO.
– Sì, ma Fausto non si pentirà mai.
(Gli angeli escono)
FAUSTO.
– Il mio cuore è così indurito, che io non posso pentirmi. Appena pronunzio i nomi di salvazione, di fede, di cielo, ecco che un formidabile tuono rimbomba nelle mie orecchie: Fausto, tu sei dannato! E allora spade e pugnali, veleni, fucili, capestri e lame avvelenate mi schieran dinanzi perchè io mi uccida; e già da lungo tempo l’avrei fatto, se il dolce piacere non avesse vinto la mia profonda disperazione. Non mi son fatto cantare dal cieco Omero gli amori di Alessandro e la morte di Enone? e non ho io udito colui che costrusse le mura di Tebe al suono incantevole della sua arpa melodiosa concertare la sua musica col Mefistofile? Perchè dovrei dunque morire o vigliaccamente disperare? Son risoluto: Fausto non si pentirà.– Vieni, Mefistofile; disputiamo novamente, e ragioniamo della divina astrologia. Dimmi: ci son molti cieli sopra la luna? I corpi celesti son tutti un unico globo com’è la sostanza di questa terra che n’è il centro?
MEF.
– Quali son gli elementi tali sono le sfere, racchiuse l’una nell’ orbita dell’altra, e tutte insieme si muovono, Fausto, attorno a un asse, la cui estremità è chiamata il gran polo del mondo; nè sono fittizi i nomi di Saturno, di Marte o di Giove, ma sono vere stelle erranti.
FAUSTO.
– Ma hanno esse tutte lo stesso movimento tanto nello spazio quanto nel tempo, situ et tempore?
MEF.
– Tutte insieme si muovono dall’oriente all’occidente in ventiquattro ore sui poli del mondo; ma differiscono nel loro movimento sui poli dello Zodiaco.
FAUSTO.
– Eh via! Anche Wagner può risolvere simili problemucci: il sapere di Mefistofile non va più lontano? Chi non sa del doppio moto dei pianeti? Il primo si compie in un giorno; il secondo per Saturno, in trent’anni, per Giove in dodici, per Marte in quattro; il sole, Venere e Mercurio lo compiono in un anno; la luna in ventotto giorni. Va’ là, queste sono lezioni da matricolini. Ma dimmi: ogni sfera ha un proprio dominio, o la sua intelligentia?
MEF.
– Sì.
FAUSTO.
– Quanti cieli o sfere ci sono?
MEF.
– Nove: i sette pianeti, il firmamento e il cielo empireo.
FAUSTO.
– Ebbene risolvimi questo dubbio: perchè non abbiam noi congiunzioni, opposizioni, aspetti, eclissi, tutti nello stesso tempo, ma qualche anno ne abbiamo di più e qualche anno di meno?
MEF.
– Per inaequalem motum respectu totius.
FAUSTO.
– Va bene, ora ho capito. Dimmi chi fece il mondo.
MEF.
– Non te lo voglio dire.
FAUSTO.
– Dolce Mefistofile, dimmelo.
MEF.
– Non mi importunare; tanto non te lo dico.
FAUSTO.
– Villanaccio, non ti sei obbligato a dirmi ogni cosa?
MEF.
– Sì, ma che non sia contro il nostro regno; e questo è contro. Pensa all’Inferno, o Fausto; chè tu sei dannato.
FAUSTO.
– Pensa, Fausto, a Dio che fece il mondo.
MEF.
– Ricòrdati di quello che ti ho detto.
(Esce.)
FAUSTO.
– Sì, torna, spirito maledetto, all’orrido Inferno. Sei tu che hai dannato l’anima dello sventurato Fausto. Non è troppo tardi?
Entrano l’Angelo buono e l’Angelo cattivo.
ANGELO CATTIVO.
– Troppo tardi.
ANGELO BUONO.
– Non sarà mai troppo tardi, se Fausto vuol pentirsi.
ANGELO CATTIVO.
– Se tu ti penti, i diavoli ti sbraneranno.
ANGELO BUONO.
– Pèntiti, essi non sfioreranno la tua pelle.
(Gli angeli escono.)
FAUSTO.
– O Cristo! Mio Salvatore, salva l’anima dell’angustiato Fausto!
Entrano Lucifero, Belzebù e Mefistofile.
LUCIFERO.
– Cristo non può salvare la tua anima, perchè egli è giusto; io solo ho diritto sulla tua anima.
FAUSTO.
– Oh chi sei tu che hai aspetto così terribile?
LUCIFERO.
– Io son Lucifero, e questi è il mio compagno, anch’egli principe nell’Inferno.
FAUSTO.
– O Fausto! Essi son venuti a portar via l’anima tua.
LUCIFERO.
– Siam venuti per dirti che tu ci fai ingiuria; tu parli di Cristó contrariamente alla tua promessa: non devi più pensare a Dio; pensa al Diavolo, e alla sua nonna.
FAUSTO.
– Così farò da qui innanzi: perdonatemi, e Fausto giura che non volgerà più mai i suoi occhi al cielo, più non pronunzierà il nome di Dio, nè a lui innalzerà più preghiere, ma brucerà le sue scritture, truciderà i suoi ministri, e da’ suoi spiriti farà buttar giù le chiese.
LUCIFERO.
– Fa’ cosi, e noi te ne ricompenseremo lautamente. Fausto, noi siam venuti dall’Inferno per farti assistere a qualche spettacolo divertente: or siedi, e vedrai i setti peccati mortali che appariranno sotto le loro vere forme.
FAUSTO.
– Spettacolo tanto gradito a me, quanto fu già il Paradiso ad Adamo il primo giorno della sua creazione.
LUCIFERO.
– Non parlar di Paradiso o di creazione, ma sta’ attento a questo spettacolo; non parlare che del diavolo. Apparite!
Entrano i Sette Peccati Mortali.
Ora, Fausto, interrogali sui loro nomi e su le loro qualità.
FAUSTO.
– Chi sei tu....., primo?
SUPERBIA.
– Io son la Superbia. Sdegno aver genitori. Sono simile alla pulce d’Ovidio: posso insinuarmi in ogni angolo d’una fanciulla; qualche volta, come una parrucca, mi poso sulla sua fronte o, simile a un ventaglio di piume, bacio le sue labbra; in verità faccio... che cosa non faccio io? Ma, ohibò, che odore c’è qui! Non dirò più parola, se il pavimento non sarà profumato e coperto di arazzi.
FAUSTO.
– E chi sei tu....., secondo?
AVARIZIA.
– Io son l’Avarizia, nata da un vecchio spilorcio, in una vecchia sacca di cuoio; e, se potessi fare a modo mio, vorrei che questa casa con tuta la gente che c’è dentro si trasformasse in oro, e io lo chiuderei subito a chiave nella mia cassaforte. O mio dolce oro!
FAUSTO.
– Chi sei tu....., terzo?
IRA.
– Io sono l’Ira. Non ebbi nè padre nè madre: natta appena da mezz’ora, balzai fuori dalla strozza di un leone; e d’allora non ho fatto che correre su e giù per il mondo con questi due spadoni, ferendo me stessa quando non avevo con chi battermi. Nacqui all’Inferno; e, badate, uno di voi dev’essere mio padre.
FAUSTO.
– Chi sei tu....., quarto?
INVIDIA.
– Sono l’Invidia, nata da uno spazzacamino e da una venditrice di ostriche. Non so leggere, e perciò vorrei che tutti i libri fossero bruciati. Divento magra a veder gli altri mangiare. Oh, se venisse una carestia per tutto il mondo, e tutti morissero, e vivessi io sola! Tu vedresti allora come diverrei grassa. Ma tu stai seduto e io debbo stare in piedi? Ruzzola giù!
FAUSTO.
– Indietro, invidiosa birbante! Chi sei tu….., quinto?
GOLA.
– Chi? Io, signore? Io sono la Gola. I miei genitori son morti tutti e due, e per il diavolo! non mi hanno lasciato il becco d’un quattrino, tranne una misera pensione, ossia trenta pasti al giorno, e dieci beveroni; piccola bagattella per bastare alla natura. Oh! Discendo da reale parentado! Mio nonno era un Prosciutto Cotto, mia nonna un Caratello di Claretto; i miei compari erano Pietro Aringasalata e Martino Manzo di San Martino; quanto alla mia comare, era una allegra gentildonna e amata in ogni borgo o città, che si chiamava Padrona Margherita Birra di Marzo. Ora, Fausto, che conosci tutta la mia genealogia, vuoi invitarmi a cena?
FAUSTO.
– No, vorrei piuttosto vederti appiccata per la gola; tu divoreresti tutte le mie vivande.
GOLA.
– Allora che il diavolo ti strozzi!
FAUSTO.
– Stròzzati tu, ghiottona! Chi sei tu....., sesto?
ACCIDIA.
– Son l’Accidia. Nacqui su di un poggio aprico dove d’allora in poi son sempre giaciuta; e voi me avete fatto gran torto a levarmi di là: lasciate ch’io vi sta ricondotta dalla Gola e dalla Lussuria. Non dirò altra parola, nè anche per il riscatto di un re.
FAUSTO.
– E voi chi siete, signora civetta?
LUSSURIA.
– Chi? Io signore? Son colei che preferisce un pollice di montone crudo a due braccia di baccalà fritto; e la prima lettera del mio nome è L.
LUCIFERO.
– Via, all’Inferno all’Inferno! Di’ su Fausto, ti sei divertito?
(I sette peccati escono.)
FAUSTO.
– Oh me felice se potessi veder l’Inferno, e poi tornarne!
LUCIFERO.
– Lo vedrai; ti manderò a prendere a mezzanotte, Frattanto prendi questo libro; leggilo da capo a fondo, e potrai trasformarti in qualunque maniera tu voglia.
FAUSTO.
– Grazie infinite, potente Lucifero! Questo libro mi sarà caro quanto la vita.
LUCIFERO.
– Addio, Fausto, e pensa al diavolo.
FAUSTO.
– Addio, gran Lucifero!
(Escono Lucifero e Belzebù. Viene Mefistofile.)
Entra il Coro.
CORO.
– Il dotto Fausto per conoscere i segreti dell’astronomia, stampati nel libro dell’alto firmamento, di Giove, ha dato la scalata alla cima dell’Olimpo, assiso su di un carro fiammeggiante, trascinato dalle dure cervici di due aggiogati dragoni. Eccolo, dunque, in viaggio per studiare la cosmografia; e, m’immagino, scenderà prima a Roma per vedere il papa e i costumi della sua corte e prender parte alla festa di San Pietro, che si celebra anche ai giorni nostri con grandissima solennità.
SCENA VII.
Entrano Fausto e Mefistofile.
(La scena si svolge nella camera privata del Papa.)
FAUSTO.
– Ora, mio buon Mefistofile, abbiamo traversato con nostra grande delizia la grandiosa città di Treveri, circondata da aeree cime di montagne, da muraglie di roccia e da profondi fossati che fanno da trincea, sì che non può essere espugnata da nessun principe invasore: poi, venendo da Parigi, costeggiando il reame di Francia, abbiamo visto il Meno sboccar nel Reno, le cui sponde sono adorne di boschetti e di viti ubertose: poi fummo a Napoli, nella ricca Campania, i cui fabbricati belli e magnifici, le dritte vie lastricate delle più fine pietre, dividono la città in quattro parti eguali. Là abbiam visto la tomba d’oro del saggio Virgilio Marone e la strada, lunga un miglio, ch’esso tagliò dentro la dura roccia nello spazio di una notte; di là siam passati a Venezia, a Padova e in altre città, in una delle quali abbiamo ammirato un sontuoso tempio che sfida le stelle con le sue ambiziose.
Così Fausto ha passato il suo tempo sin adesso: ma ora, dimmi, che tappa è questa? Mi hai tu condotto, come già ti ho comandato, dentro le mura di Roma?
MEF.
– Sì, Fausto: e siccome non vogliamo che ci manchi nulla, ho occupata la camera privata di Sua Santità, per nostro uso.
FAUSTO.
– Spero che Sua Santità ci accoglierà bene.
MEF.
– Che importa, mio caro? Non faremo cerimonie co’ suoi manicaretti. Ed ora, Fausto mio, perchè tu possa avere un’ idea delle delizie che Roma ti offre, sappi che questa città sorge su sette colli che ne sostengono le fondamenta: proprio nel mezzo scorre l’onda del Tevere veloce, le cui rive sinuose la tagliano in due parti; su queste rive poggiano quattro maestosi ponti che dan libero e sicuro acceso ad ogni parte di Roma. Sul ponte detto di Sant’Angelo sorge un castello forte quant’altro mai, entro le cui mura vi è tanta copia di artiglieria e di cannoni a due bocche di bronzo massiccio, che eguagliano in numero i giorni di un intero anno; inoltre vi sono in Roma delle porte e delle piramidi che Giulio Cesare trasportò dall’Africa.
FAUSTO.
– Ora, per i regni dell’infernale potenza di Stige, di Acheronte e del fiammeggiante e inestinguibile lago di Flegetonte, giuro che ardo dal desidero di vedere i monumenti e il sito della splendida Roma: vieni dunque e affrettiamoci.
MEF.
– No, Fausto, aspetta. Son certo che ti piacerebbe di vedere il Papa, e prendere parte alla festa di San Pietro, dove tu vedrai un branco di frati con la zucca pelata, il cui summum bonum è nei godimenti del ventre.
FAUSTO.
– Sì, mi divertirò a farli disperare; e la loro follia ci terrà allegri. Adopera dunque tue arti, Mefistofile, perchè io diventi invisibile e possa fare quel che più mi piace senza esser visto da alcuno durante il mio soggiorno a Roma.
(Mefistofile lo incanta.)
MEF.
– Ora, Fausto, fa’ ciò che vuoi; non sarai scoperto.
(Una tromba da alcuni squilli. – Entrano il Papa, il Cardinale di Lorena, e si seggono a banchetto. Dei fratti li servono.)
PAPA.
– Monsignor di Lorena, volete sedervi a tavola?
FAUSTO.
– Cominciate pure, e il diavolo vi strozzi se vi avanza qualcosa!
PAPA.
– Cos’è? Chi ha parlato? Frati, guardate intorno.
PRIMO FRATE.
– Non c’è nessuno; Santità.
PAPA.
– Monsignore, ecco un manicaretto che mi fu mandato dal vescovo di Milano.
FAUSTO.
– Vi ringrazio, signore.
(Gli strappa via il piatto.)
PAPA.
– Chi è? Chi è che mi ha tolto il piatto? Dunque nessuno vuole stare attento? Monsignore, questo piatto mi fu mandato dal Cardinale di Firenze.
FAUSTO.
– Proprio così; fa per me.
(Gli toglie il piatto.)
PAPA.
– Ancora! Monsignore, berrò alla salute di Vostra Grazia.
FAUSTO.
– Alla salute di Vostra Grazia.
(Gli strappa la coppa.)
CARDINAL DI LORENA.
– Monsignore, dev’esserci qualche spirito fuggito or ora dal Purgatorio, venuto a chiedere il perdono da Vostra Santità.
PAPA.
– Può essere. Frati, preparate un uffizio funebre per calmare la furia di questo spirito. Servitevi, Monsignore, servitevi.
(Il Papa si fa il segno della croce.)
FAUSTO.
– Che! Vi fate il segno della croce? Badate a non ripetere questo giochetto: ve lo consiglio.
(Il Papa si fa si nuovo il segno della croce.)
FAUSTO.
– E due! Bada alla terza, ti ho avvisato.
(Il Papa si fa di nuovo il segno della croce e Fausto gli appiccica un ceffone: tutti scappano.)
Vien via, Mefistofile. Che faremo adesso?
MEF.
– Mah! non lo so! Ora si malediranno a suon di campanello, con libro e candela.
FAUSTO.
– Come! Campanello, libro e candela! Candela, libro e campanello! Tutti in moto per maledire Fausto e mandarlo all’Inferno! Fra poco sentiremo grugnire un maiale, muggire un vitello, ragliare un asino, perch’è la festa di San Pietro.
(Rientrano i frati per cantare l’uffizio funebre.)
PRIMO FRATE.
– Venite, fratelli, attendiamo al nostro dovere con tutta devozione.
(Cantano.)
Maledetto colui che rubò di su la mensa la pietanza di Sua Santità! Maledicat Dominus!
Maledetto colui che dette uno schiaffo a Sua Santità! Maledicat Dominus!
Maledetto colui che dette uno scapaccione sulla zucca di fratello Sandelo! Maledicat Dominus!
Maledetto colui che disturba il nostro santo canto funebre! Maledicat Dominus!
Maledetto colui che portò via il vino di Sua Santità! Maledicat Dominus! Et omnes Sancti! Amen!
(Mefistofile e Fausto bastonano i frati e lanciano in mezzo a loro del fuochi d’artifizio, e poi se ne vanno.)
(Entra il coro.)
CORO.
– Dopo che Fausto ebbe con suo diletto ammirato le cose più rare e le corti dei re, pose termine al suo viaggio e se ne ritornò a casa sua, dove quelli ch’eran dolenti della sua assenza, voglio dire i suoi amici e più stretti compagni, con parole affettuose si congratularono con lui pel felice ritorno. Discorrendo degli avvenimenti occorsi durante il suo viaggio per il mondo e per l’aria, gli fecer domande di astrologia, alle quali Fausto rispose con arte così sapiente, che lo ammirarono e si meravigliarono per ogni terra; e fra gli altri ammiratori ha l’imperatore Carlo V, nel cui palazzo Fausto ora è festeggiato in mezzo ai Grandi. Quello ch’egli fece là per dar prova dell’arte sua, io non dico. I vostri occhi lo vedranno.
(Esce.)
SCENA VIII.
Entra Robin lo stalliere con un libro in mano.
ROBIN.
– Oh, questo è un tiro mirabile! Ecco, che ho rubato un libro di magia al dottor Fausto. In fede mia ne voglio tirar fuori qualche circolo per mio proprio uso. Ora voglio far danzare tutte le ragazze della nostra parrocchia, nude come Dio le ha fatte, innanzi a me, a mio piacimento: così vedrò più di quello che ho veduto o sentito fin qui.
(Entra Ralph chiamando Robin.)
RALPH.
– Robin, te ne prego, vien via; c’è un signore che aspetta per avere il suo cavallo, e vorrebbe che gli si spazzolasse e pulisse la sua roba; e strepita tanto con la padrona ch’ella mi ha mandato a cercarti: andiamo, vien via.
ROBIN.
– Largo, largo o tu salterai in aria, sarai fatto in pezzi, Ralph! Largo, ch’io ora sto attorno ad un lavoro pericoloso.
RALPH.
– Andiamo! Che vuoi fare con quel libro, se tu non sai neanche leggere?
ROBIN.
– Sì, il mio padrone e la mia padrona si accorgeranno che io so leggere; egli per la sua fronte, ella per il suo stanzino segreto. Essa dovrà sopportarmi; o la mia arte fa fiasco.
RALPH.
– Ma, Robin, che libro è?
ROBIN.
– Che libro? È il più tremendo libro di scongiuri che sia stato mai inventato da un diavolo sulfureo.
RALPH.
– E tu con questo puoi evocare gli spiriti?
ROBIN.
– Con questo posso far facilmente tutte le cose seguenti: primo, ubriacarti di vino caldo in qualsiasi osteria d’Europa senza spesa di sorta; questa è una delle mie opere magiche.
RALPH.
– Il nostro messer curato dice che non è peccato.
ROBIN.
– È vero, Ralph; e per di più, se Nan Spit, la nostra cuoca, tu garba, tu potrai lavorartela quante volte tu voglia, e a mezzanotte.
RALPH.
– Oh bravo il mio Robin! Avrò Nan Spit a mia disposizione? A questo patto io camperò il tuo diavolo a pan di farina finchè vive, e gratis.
ROBIN.
– Basta, dolce Ralph: andiamo a lustrare i nostro stivali che teniamo in mano tutti sporchi, e poi evocheremo gli spiriti in nome del diavolo.
(Esce.)
SCENA IX.
Entrano Robin e Ralph con una ciotola d’argento.
ROBIN.
– Vieni, Ralph; non ti ho detto che non ci sarebbe mancato più niente, ora che abbiamo questo libro del dottor Fausto? Ecce signum? Bella fortuna per degli stallieri! I nostri cavalli non mangeranno più fieno finchè dura questo.
RALPH.
– Robin, ecco che viene l’oste.
ROBIN.
– Zitto, lo canzonerò in modo soprannaturale.
(Entra l’oste.)
Oste, spero d’aver pagato tutto: Dio sia con voi; vieni, Ralph!
OSTE.
– Un momento signore; v’ho da dire una parola. Prima che ve ne andiate mi dovete ancora pagare una ciotola.
ROBIN.
– Io una ciotola, Ralph! Io una ciotola! Siete pazzo, siete un... Io una ciotola! Frugatemi.
OSTE.
– Così farò, signore, se non vi dispiace.
(Lo fruga.)
ROBIN.
– E adesso che dite?
OSTE.
– Devo dire qualcosa al vostro compagno. A voi, signore!
RALPH.
– Io, signore! Io? Cercate quanto volete.
(l’oste lo fruga)
Ora, signore, dovete vergognarvi d’aver fatto un affronto all’onestà di due galantuomini.
OSTE.
– Insomma uno di voi due ha la ciotola indosso.
ROBIN.
– Tu menti, oste. (a parte) Ecco là.
Sor Messere, t’insegnerò io ad accusare uomini onesti; tirati in là! Te la darò io la ciotola! Farai meglio a non accostarti, o ti piombo addosso in nome di Belzebù. (A parte a Ralph.) Bada alla ciotola, Ralph.
OSTE.
– Che volete dire, furfante?
ROBIN.
– Aspetta che te lo dico.
(Legge da un libro.)
Sanctobulorum Periphrasticon – ora te lo farò io il solletico, oste. (A parte a Ralph.) Attento alla ciotola, Ralph.
(legge)
Polipragmos Belseborams framanto pacostiptos tostu Mephistophilis etc.
(Entra Mefistofile, che lancia loro dietro dei razzi, e poi esce. Essi corron di qua e di là.)
OSTE.
– O nomine Domini! Che cosa vuoi dire, Robin? Che non hai la ciotola?
RALPH.
– Peccatum peccatorum! Ecco la tua ciotola, buon oste.
(Dà la ciotola all’oste che esce.)
ROBIN.
– Misericordia pro nobis! Che farò io? Buon diavolo, perdonami questa volta, e io non ruberò più nella tua biblioteca.
(Rientra Mefistofile.)
MEF.
– Monarca dell’Inferno, sotto il cui tenebroso impero grandi potentati s’inginocchiano con profondo terrore, sopra i cui altari migliaia di anime giacciono prostrate, com’è ch’io son molestato dagli incanti di questi miserabili? Io venni qui da Costantinopoli solo per far piacere a questi schiavi dannati.
ROBIN.
– Come! Da Costantinopoli? Avete fatto un bel viaggio! Volete sessanta centesimi per la cena e poi andarvene?
MEF.
– Miserabili! Per la vostra presunzione, io trasformo te in scimmia, e te in cane: e ora via di qui!
(Esce.)
ROBIN.
– Come, in scimmia? Non c’è male, mi divertirò coi ragazzi. Avrò noci e mele in quantità.
RALPH.
– Ed io dovrò essere un cane!
ROBIN.
– In fede mia, la tua testa resterà sempre fitta un una pentola di pancotto.
(Escono.)
SCENA X.
La Corte dell’Imperatore a Innsbruck.
Entrano l’Imperatore, Fausto e un cavaliere don sèguito.
IMPERATORE.
– Ho udito, dottor Fausto, strane novelle della tua abilità nell’arte tenebrosa, e che nessuno nel mio impero o nell’intero mondo può stare a pari con te nei meravigliosi effetti della magia. Dicono tu abbia uno spirito al tuo servizio per opera del quale puoi compiere quello che vuoi. Perciò tu chiedo di mostrarmi qualche prova della tua arte, affinchè i miei occhi siano testimoni che confermino quello che i miei orecchi hanno sentito dire; e ti giuro sull’onore della mia corona imperiale che, qualunque cosa tu faccia, non sarai in alcun modo compromesso o danneggiato.
CAVALIERE.
– (A parte.) Sembra proprio uno stregone.
FAUSTO.
– Mio grazioso sovrano, sebbene io debba confessarmi inferiore di molto alla fama che di me si è sparsa, e affatto indegno della grazia di Vostra Maestà, tuttavia per l’amore e il dovere che mi obbligano a Voi sarò contento di fare qualunque cosa piaccia alla Maestà Vostra di comandarmi.
IMPERATORE.
– Allora, dottor Fausto, fate bene attenzione a quello che sto per dire. Più di una volta, mentre ero solo, seduto nel mio gabinetto, mi son venuti in mente varii pensieri intorno all’onore de’ miei antenati; in qual modo essi abbiano potuto compiere con la loro prodezza sì grandi gesta, acquistare immense ricchezze, e soggiogare tanti regni che noi e i nostri successori non giungeremo forse mai a quel grado di alta fama e potenza. Fra questi re è Alessandro il Grande, il più meraviglioso fra gli uomini che dominarono la terra, la fulgida gloria delle cui azioni illumina il mondo co’ suoi raggi riflessi, cosicchè, al solo udirne il nome, la mia anima soffre per non aver mai visto un tal uomo. Se tu, adunque, con la virtù dell’arte tua poi farlo sorgere dalle cave vòlte sotterranee, dove questo famoso conquistatore giace sepolto, e farlo comparire insieme alla sua bellissima amante, entrambi nelle loro vere forme, nei loro propri atti, e con le vesti che abitualmente indossavano durante la lor vita, tu avrai appagato il mio giusto desiderio, e in un punto mi avrai dato ragione di lodarti finchè io vivrò.
FAUSTO.
– Mio grazioso Signore, io son pronto a eseguire i vostri desiderii fin dove lo acconsentano la mia arte e la potenza del mio spirito.
CAVALIERE.
– (A parte.) In fede mia ciò è cosa da nulla.
FAUSTO.
- Se non dispiace a Vostra Grazia, non è in mio potere presentare ai vostri occhi i corpi in carne e ossa di quei due defunti principi, poiché da molto tempo son ridotti in polvere.
CAVALIERE.
– (A parte.) Per la Vergine! Ecco un segno della vostra virtù, signor dottore, poiché dite la verità!
FAUSTO.
- Però appariranno innanzi a Vostra Grazia due spiriti che somiglieranno quanto più è possibile ad Alessandro e alla sua amante quali tutt'e due vissero, nel più bel fiore di lor vita; il che, non dubito, soddisfarà la Vostra Imperiale Maestà.
IMPERATORE.
- Fate, Maestro Dottore, che io li veda subito.
CAVALIERE.
- Eh dite, Maestro Dottore: farete venire qui innanzi all'Imperatore Alessandro e la sua amante?
FAUSTO.
- E perchè no, signore?
CAVALIERE.
- In fede mia, ciò è tanto vero come dire che Diana mi ha cambiato in cervo!
FAUSTO.
- No, signore; ma, quando Atteone morì, vi lasciò le sue corna. Mefistofile, vai pure.
(Esce Mefistofile.)
CAVALIERE.
- Se cominciate ad evocar gli spiriti, io me ne vado.
(Esce.)
FAUSTO.
- Ci riparleremo poi, per avermi interrotto a questo modo. Eccoli, mio grazioso Signore.
(Rientra Mefistofile con degli spiriti sotto forma di Alessandro e della sua amante.)
IMPERATORE.
- Maestro Dottore, ho sentito dire che questa dama, quand'era in vita, aveva un porro o neo sul collo: come posso sapere se questo sia vero?
FAUSTO.
- Vostra Altezza può arditamente andare a vedere.
IMPERATORE.
- Di certo questi non sono spiriti, ma i corpi in carne e ossa di quei due defunti principi.
(Gli spiriti escono.)
FAUSTO.
- Vuole Vostra Altezza aver la bontà di mandare a chiamare quel cavaliere che poco fa era così spiritoso con me?
IMPERATORE.
- Chè uno di voi lo chiami!
(Esce un servo.)
(Rientra il Cavaliere con un palo di corna in capo.)
Come va, signor cavaliere? Credevo che tu fossi scapolo, ma ora vedo che hai moglié, la quale non solo ti fa le corna, ma te le fa anche portare. Tàstati la testa.
CAVALIERE.
- Miserabile, dannato, esecrabile cane figliato nella profondità di qualche mostruosa caverna, come osi tu insultare in questo modo un gentiluomo? Vile plebeo, distruggi quello che hai fatto!
IMPERATORE.
- Buon Maestro Dottore, vi prego di liberarlo: ha già fatto penitenza abbastanza.
FAUSTO.
- Mio grazioso Signore, Fausto ha punito giustamente questo insolente cavaliere non tanto pero l'ingiuria ch'ei gli fece in vostra presenza, quanto per divertirvi un poco. Siccome non desideravo che questo, ben volentieri lo libererò ora dalle sue corna; e voi, signor cavaliere, di qui innanzi parlate bene dei sapienti. Mefistofile, trasformalo subito.
(Mefistofile toglie le corna.)
Ora, mio buon Signore, avendo fatto il dovere mio, mi licenzio umilmente da voi.
IMPERATORE.
- Addio, Maestro Dottore; ma prima di partire, attendetevi da me una generosa ricompensa.
(Esce.)
SCENA XI
Entrano Fausto e Mefistofile che traversano un praticello verde e arrivano alla casa di Fausto.
FAUSTO.
- Adesso, Mefistofile, la corsa incessante che fa il tempo, volando con passo calmo e silente, accorcia i miei dì e il filo della mia vita naturale ed esige il pagamento de' miei ultimi anni. Perciò, dolce Mefistofile, affrettiamoci a Vittemberga.
MEF.
- Volete andare a cavallo o a piedi?
FAUSTO.
- Andrò a piedi fin dove arriva questo bel praticello soffice.
Entra un mercante di cavalli.
MERCANTE.
- È una giornata che vado in cerca di un certo Maestro Fustiano: per la Messa! Guarda dov'è! Dio vi protegga, Maestro Dottore!
FAUSTO.
- Che? Un mercante di cavalli! Giungete proprio a proposito.
MERCANTE.
- Sentite, signore: del vostro cavallo vi do quaranta dollari.
FAUSTO.
Non lo posso vendere a questo prezzo: se sei disposto a darmene cinquanta, prendilo pure.
MERCANTE.
- Ohimè, signore! Non ne ho tanti. Vi prego, parlate in favor mio.
MEF.
- Via, dateglielo; è un buon uomo: e poi ha un gran carico; non ha né moglie né figli.
FAUSTO.
- Ebbene, andiamo, datemi il denaro.
(Il Mercante dà il denaro a Fausto.)
Il mio servo ve lo consegnerà. Ma prima di consegnarvelo, debbo darvi un avvertimento: quando lo montate, qualunque cosa avvenga, non lo spingete nell'acqua.
MERCANTE.
– Come? Non vuol bere di tutte le acque?
FAUSTO.
- Oh sì, può bere benissimo di tutte le acque, ma non lo montate nell'acqua: montatelo pure attraverso siepi o fossi, o dove volete, ma nell'acqua mai.
MERCANTE.
- Va bene, signore. Ora sono un uomo al completo; non darei il mio cavallo, se mi offrissero doppio prezzo. (A parte) Se non avesse che la qualità del ritornello di quella canzone, hey-ding-ding, hey ding-ding, sarebbe un dolce stare sulla sua groppa che è liscia come una anguilla.
Dunque Dio vi accompagni, signore; il vostro servo me lo consegnerà. Ma sentite: dato il caso che il mio cavallo s'ammali o non si senta bene, se io vi porto la sua orina voi mi direte che cosa ha?
FAUSTO.
- Via di qua, villanzone! Credi tu che io sia un veterinario?
(Il mercante esce.)
Che sei tu, Fausto, se non un uomo condannato a morire? I tuoi giorni fatali volgono a fine; la disperazione mette la diffidenza nei miei pensieri: culla queste tue pene in un sonno tranquillo. Non fu Cristo misericordioso al ladrone sulla croce? Dunque riposa, o Fausto, calmo ne' tuoi pensieri.
(Dorme sulla sedia.)
(Rientra il mercante di cavalli, tutto bagnato gridando.)
MERCANTE.
- Ahimè, ahimè, dottor Fustian, per la Messa! Neanche il dottor Lopus fu sì gran dottore: m'ha dato un purgante che mi ha purgato di quaranta dollari; non lo vedrò mai più. Però, da asino par mio, non volli lasciarmi guidare da lui che mi raccomandò di non montare il mio cavallo nell'acqua. Ma io, immaginando che il cavallo avesse qualche rara qualità che egli non volesse farmi conoscere, da avventuroso giovane qual sono, me n'andai cavalcandolo nel profondo stagno in fondo alla città. Ero appena arrivato in mezzo allo stagno, che il mio cavallo sparì, ed io mi trovai seduto sur un fascio di fieno, vicino ad affogare; come mai in vita mia. Ma scoverò il mio dottore, e mi farò restituire i miei quaranta dollari: oh me lo pagherà ben il suo cavallo! Oh! ecco là il suo tirapiedi. Ehi, sentite! Olà, giocoliere! dov'è li vostro padrone?
MEF.
- Che volete da lui? Non gli potete parlare.
MERCANTE.
- Ma io gli voglio parlare.
MEF.
- Vi dico che dorme profondamente: venite un'altra volta.
MERCANTE.
- Gli voglio parlar subito, o gli spezzo sui capo vetri della finestra.
MEF.
- Ti dico che sono otto notti che non dorme.
MERCANTE.
- Fossero anche otto settimane che non dorme, gli parlerò.
MEF.
- Guarda dov'è, dorme profondamente.
MERCANTE.
- Sì, sì, è proprio lui. Dio vi benedica, signor dottore, signor dottore, signor dottore Fustiano! Quaranta dollari, quaranta dollari per un fascio di fieno!
MEF.
- Vedi bene che non ti sente.
MERCANTE.
- Olà, oh! olà oh!
(gli urla all'orecchio)
No, non volete svegliarvi? Ma vi farò svegliar io prima d'andarmene.
(Afferra Fausto per la gamba che gli resta in mano.)
Ahimè, son perduto! Che farò ora?
FAUSTO.
- Oh la mia gamba, la mia gamba! Aiuto, Mefistofile! Chiama le guardie. La mia gamba! La mia gamba!
MEF.
- Vieni, furfante, dal connestabile.
MERCANTE.
- Eccellenza, Signore, lasciatemi andare, e vi darò ancora quaranta dollari.
MEF.
- Dove sono?
MERCANTE.
- Non ne ho addosso. Venite al mio albergo e ve li darò.
MEF.
- Lèvati di qua, presto.
(Il mercante fugge via.)
FAUSTO.
- Che se n'è andato? Buon viaggio! Fausto ha di nuovo la sua gamba, e il mercante ci scommetto, un fascio di fieno per tutta la sua fatica. Questo scherzo gli costerà quaranta dollari di più.
Entra Wagner.
Olà, Wagner, che notizie ci dai?
WAGNER.
- Signore, il duca di Vanholt desidera la vostra compagnia.
FAUSTO.
-Il duca di Vanholt! Un onorato gentiluomo col quale non sarò avaro di mia scienza. Vieni, Mefistofile, affrettiamoci a lui.
(Escono.)
SCENA XII.
Entrano il duca di Vanholt e la duchessa, Fausto e Mefistofile.
DUCA.
- Credetemi, Maestro Dottore, questi divertimenti mi sono infinitamente piaciuti.
FAUSTO.
- Mio grazioso Signore, son contento che siate rimasto tanto soddisfatto. Ma può darsi che voi, signora, non vi siate divertita a questo spettacolo. Ho sentito dire che le donne incinte hanno delle voglie: che desiderate, signora? Ditemelo, e l'avrete.
DUCHESSA.
- Grazie, buon Maestro Dottore; e, poiché avete la gentile intenzione di farmi piacere, non vi nasconderò quello che il mio cuore desidera. Se ora fosse estate com'è gennaio, cioè la stagione morta dell'inverno, non desidererei cibo migliore di un piatto d'uva matura.
FAUSTO.
- Ahimè, signora, è un'inezia! Mefistofile, va.
(Esce Mefistofile.)
Se fosse di vostro gradimento, potreste avere cosa ben più grande di questa.
(Rientra Mefistofile con l'uva.)
Eccola, signora: volete gustarne?
DUCA.
- Credetemi, Maestro Dottore, mi fa meraviglia più del resto che, essendo noi nella stagione morta dell'inverno, in gennaio, voi abbiate potuto procurarvi quest' uva.
FAUSTO.
- Se non dispiace a Vostra Grazia, l'anno sulla superficie della terra si divide in due emisferi; cosicchè, quando qui da noi è inverno, nell'emisfero opposto è estate, nell’India per esempio, a Saba, e nei più lontani paesi dell'Oriente; ed io, per mezzo di uno spirito veloce che ho a mia disposizione, mi son fatto recar qui quest'uva, come vedete. Vi piace, signora? È buona?
DUCHESSA.
- Credetemi, Maestro Dottore, è l'uva più eccellente ch'io abbia mai gustata fin qui in vita mia.
FAUSTO.
- Son contento che vi piaccia tanto, signora.
DUCA.
- Venite, signora; rientriamo in casa, dove dovete degnamente ricompensare questo dotto signore della gran gentilezza che vi ha fatto.
DUCHESSA.
- Così farò, mio signore; e finchè vivo vi sarò obbligata di simile cortesia.
FAUSTO.
- Ringrazio umilmente la Signoria Vostra.
DUCA.
- Venite, Maestro Dottore, seguiteci, e ricevete la vostra ricompensa.
(Escono.)
SCENA XIII.
Una camera nella casa di Fausto.
Entra Wagner.
WAGNER.
- Penso che il mio signore voglia morir presto, perchè mi ha donato ogni suo bene: pure mi sembra che, se la morte fosse così vicina, non passerebbe il tempo a banchettare e a gozzovigliare, come fa in compagnia degli studenti. Eccoli appunto tutti là seduti a cena con certa grazia di Dio davanti, quale Wagner non ha mai visto in vita sua. Ecco che vengono! Probabilmente la festa è finita.
(Esce.)
SCENA XIV.
Entra Fausto con due o tre studenti e Mefistofile.
PRIMO STUDENTE.
- Maestro Dottor Fausto, dopo la discussione che abbiam fatto per stabilire quale sia stata la più bella donna di tutto il mondo, tutti d'accordo convenimmo che Elena di Grecia fu la più stupenda dama che sia mai vissuta. Perciò, Maestro Dottore, se vi compiaceste di farci ammirare quella impareggiabile greca celebrata da tutto il mondo per la sua maestosa bellezza noi ve ne saremmo infinitamente grati.
FAUSTO.
- Signori, so che la vostra amicizia è sincera, e Fausto non ha l'abitudine di rifiutare le giuste domande di coloro che gli vogliono bene: così voi contemplerete questa impareggiabile greca nella stessa pompa e maestà che in lei spendeva quando il cavalier Paride solcò i mari con lei, e tornò carico di spoglie alla ricca Dardania. Fate silenzio, che il parlare è pericoloso.
(S'ode una melodia ed Elena passa sui palcoscenico.)
SECONDO STUDENTE.
- La mia mente è troppo povera per dir i pregi di lei che tutto il mondo ammira.
TERZO STUDENTE.
- Non fa più meraviglia ora se gl'irati Greci vendicarono con una guerra di dieci anni il ratto di una tale regina, la cui divina bellezza è al di là di ogni paragone.
PRIMO STUDENTE.
- Ora che abbiamo veduto la più superba opera della natura, e il tipo dell'eccellenza, andiamocene; e Fausto sia felice e benedetto in eterno per questo glorioso suo atto.
FAUSTO.
- Signori, a rivederci; altrettanto auguro a voi.
(Escono gli studenti.)
Entra un vecchio.
VECCHIO.
- Ah, dottor Fausto! Potess'io riuscire a guidare i tuoi passi sui cammino della vita lungo il dolce sentiero che conduce al riposo celeste! Spezza il tuo cuore, e versane il sangue e lo mescola alle tue lagrime, lagrime spremute dal peso del rimorso per la tua vile e ributtante bruttura, il cui fetore corrompe il profondo dell'anima con sì scellerati delitti e odiosi peccati che nessuna commiserazione può cacciarli, tranne la pietà, o Fausto, del tuo dolce Salvatore, il cui sangue solamente può lavar la tua colpa.
FAUSTO.
- Dove sei, o Fausto? Scellerato, che hai tu fatto? Tu sei dannato, Fausto, dannato: dispera e muori! L'Inferno ti chiama al patto, e con voce tonante grida: Fausto, vieni: la tua ora è quasi venuta! E Fausto ora verrà a pagarti il suo debito.
(Mefistofile gli dà un pugnale.)
VECCHIO.
- Ah! Fèrmati, buon Fausto, fèrmati in questo passo disperato! Vedo un angelo che si libra sul tuo capo, con una fiala piena di grazia divina, e offre di versarne nella tua anima: dunque chiedi grazia e sàlvati della disperazione.
FAUSTO.
- Ah! Mio dolce amico, ben sento che le tue parole confortano la mia anima angustiata! Lasciami un momento, ch' io mediti sui miei peccati.
VECCHIO.
- Io me ne vado, dolce Fausto, ma col cuore oppresso, perchè temo la rovina della tua anima disperata.
(Esce.)
FAUSTO.
- Fausto maledetto, dov'è ora la misericordia? Mi pento, eppure dispero. L'Inferno lotta con la Grazia dentro il mio cuore per conquistarlo. Come sfuggire le insidie della morte?
MEF.
- O Fausto traditore, io arresto la tua anima per disobbedienza al mio sovrano. Ribèllati, o io farò a pezzi la tua carne.
FAUSTO.
- Dolce Mefistofile, supplica il tuo signore di perdonare alla mia ingrata presunzione. Col mio sangue riconfermerò il voto che già feci a Lucifero.
MEF.
- Fàllo dunque, e presto, con cuor sincero, per timore che più gran pericolo non ti minacci per il desiderio che hai avuto di pentirti.
(Fausto si fora il braccio e scrive col sangue su di un foglio.)
FAUSTO.
- Tormenta, o dolce amico, quel vile e storpio vecchio che ha osato dissuadermi dal tuo Lucifero, coi più gran tormenti di cui dispone il nostro Inferno.
MEF.
- Grande è la sua fede, e nulla io posso contro l'anima di lui; pure tenterò, per quanto è possibile, di colpire il suo corpo; che è ben poca cosa.
FAUSTO.
- Lascia, mio buon servo, ch'io implori da te una sola grazia per saziare l'ardente desiderio del mio cuore: che io possa avere per mia amante quella celeste Elena che ho visto dianzi; che i suoi dolci amplessi spengano fino all'ultimo questi pensieri che mi trascinano a violare il mio voto, e che mi tengan saldo nella fede che ho dato a Lucifero!
MEF.
- Fausto, questo come ogni altro tuo desiderio sarà esaudito in un batter di ciglio.
(Rientra Elena.)
FAUSTO.
- Fu questo il volto che spinse mille navi nel mare, e diede in preda alle fiamme le torri eccelse d'Ilio? O dolce Elena, fammi immortale con un bacio.
(La bacia.)
Le tue labbra suggono la mia anima; vedi ove essa se ne vola! - Vieni, Elena, vieni; rendimi l'anima mia. Qui voglio io dimorare, poiché il paradiso è in queste labbra; e qual che non è Elena è fango. Voglio essere Paride, e per amor tuo, non Troia, ma Vittemberga sarà saccheggiata: combatterò col fiacco Menelao, e porterò i tuoi colori sul mio cimiero piumato; sì, ferirò Achille al tallone, e poi volerò a Elena per un bacio. Oh! tu sei più splendida che il cielo della sera adorno della bellezza di mille stelle; tu sei più fulgente di Giove quando apparve fiammante alla sventurata Semele; più adorabile del monarca del cielo fra le braccia azzurrine della vaga Aretusa; e niun'altra che te sarà l'amor mio!
(Esce.)
SCENA XV.
Entra il vecchio.
Fausto maledetto! Infelice che scacci dall'anima tua la grazia del Cielo, e fuggi il trono della sua misericordia!
(Entrano i demoni.)
Satana, nel suo orgoglio, vuol mettermi alla prova: e poiché Dio, in questa fornace, vuol provare la mia fede, la mia fede, ville Inferno, trionferà di te. Ambiziosi demoni! Guardate come i cieli sorridono della vostra sconfitta e ridono fino al disprezzo del vostro orgoglio! Indietro, Inferno! Io di qua volo al mio Dio.
(Da una parte escono i diavoli, dall'altra li vecchio.)
SCENA XVI.
Entra Fausto con studenti.
FAUSTO.
- Ah signori!
PRIMO STUDENTE.
- Che tormenta Fausto?
FAUSTO.
- Mio dolce camerata, s'io fossi vissuto con te, qual vita tranquilla! Invece ora io muoio per l'eternità. Guarda, non viene egli, non viene?
SECONDO STUDENTE.
- Che intende dire Fausto?
TERZO STUDENTE.
- Probabilmente è la troppa solitudine che l'ha fatto ammalare.
PRIMO STUDENTE.
- Se così è, lo faremo curar dai medici: non è che una indigestione! Non temere, amico mio.
FAUSTO.
- Una indigestione di peccato mortale, che mi ha dannato il corpo e l'anima.
SECONDO STUDENTE.
- Non disperare, Fausto; rivolgiti al Cielo: ricorda che la misericordia di Dio è infinita.
FAUSTO.
- Ma le colpe di Fausto non potranno esser mai perdonate! Il serpente che tentò Eva può salvarsi, ma non Fausto. Ah signori, ascoltatemi con pazienza e non tremate alle mie parole! Il io cuore palpita e sussulta, ricordando che da trent'anni son qui a studiare: pure, volesse il Cielo ch'io non avessi mai visto Vittemberga, mai letto un libro! La Germania e il mondo tutto possono testimoniare le meraviglie da me compiute; ma per ciò Fausto ha perduto e la Germania e il mondo; sì, e anche il Cielo, il Cielo, la dimora di Dio, il trono dei beati, il regno della gioia; e deve rimanere nell'Inferno per sempre, nell'Inferno, nell'Inferno per sempre! Dolci amici, che avverrà di Fausto nell'Inferno per sempre?
TERZO STUDENTE.
- Ma, Fausto, invoca Dio.
FAUSTO.
- Dio, che Fausto ha rinnegato! Dio, che Fausto ha bestemmiato! Ah mio Dio, io vorrei piangere, ma il demone ricaccia giù le mie lagrime. Sgorga, o sangue mio, invece delle lagrime! Sì vita e anima!... Oh egli lega la mia lingua! Io vorrei alzar le mani; ma vedete, vedete come essi le trattengono!
TUTTI.
- Chi, Fausto?
FAUSTO.
- Lucifero e Mefistofile. Ah, signori, io diedi loro l'anima mia per la mia scienza!
TUTTI.
- Dio non voglia!
FAUSTO.
- Dio non voleva in verità; ma Fausto l'ha fatto: per ventiquattro anni di vani piaceri Fausto ha perduto la gioia e la felicità eterna! Io firmai loro un patto col mio proprio sangue: il termine è spirato; l'ora sta per iscoccare e mi verranno a prendere.
PRIMO STUDENTE.
- Perchè, Fausto, non ce n'hai parlato prima? I teologi avrebbero potuto pregare per te.
FAUSTO.
- Sovente ho pensato di farlo; ma il demonio minacciò di farmi in pezzi se nominavo Iddio; di portarmi via corpo e anima, se solo una volta avessi prestato orecchio alla voce della religione; e ora è troppo tardi. Signori, ritiratevi, che non abbiate a perir con me.
SECONDO STUDENTE.
- Che faremo per salvare Fausto?
FAUSTO.
- Non vi occupate di me, ma salvate voi stessi e partite.
TERZO STUDENTE.
- Dio mi darà forza. Rimarrò con Fausto.
PRIMO STUDENTE.
- Non tentare Iddio, dolce amico! Andiamo nella stanza vicina, e là preghiamo per lui.
FAUSTO.
- Sì, pregate, pregate per me! Qualunque rumore sentiate, non venite a me, chè nulla può salvarmi.
SECONDO STUDENTE.
- Tu pure prega, e noi pregheremo Dio che abbia pietà di te.
FAUSTO.
- Signori addio. Se sarò vivo sino al mattino, verrò a vedervi; se no, Fausto è all'Inferno!
TUTTI.
-Fausto, addio.
(Escono gli scolari: l'orologio suona le undici.)
FAUSTO.
- O Fausto, tu non hai più che una sola ora di vita, e poi devi essere dannato in eterno! Fermatevi, sempre roteanti sfere del cielo; il tempo cessi di essere, e la mezzanotte non giunga mai! E tu, occhio della bella natura, sorgi, sorgi di nuovo, e fa' giorno perpetuo: fa' che quest'ora duri almeno un anno, un mese, una settimana, un solo giorno, chè Fausto possa pentirsi e salvare la sua anima! O lente, lente currite noctis equi! Gli astri seguitano a muoversi, l'ora precipita, l'orologio scoccherà i suoi rintocchi, il demonio verrà, e Fausto sarà dannato. Oh voglio volare al mio Dio! Chi mi trattiene quaggiù? Vedi, vedi dove il sangue di Cristo irriga il firmamento! Una goccia sola salverebbe l'anima mia, una mezza goccia... Ah mio Cristo! Ah non spezzare tu il mio cuore per aver nominato Cristo! Sì, voglio implorarlo: oh risparmiami, Lucifero! Dov'è adesso? È scomparso; e vedi come Iddio stende il suo braccio e aggrotta le irate ciglia! Monti e colline, venite, venite, ruinate su di me, e nascondetemi alla terribile ira celeste! No! no! Allora io mi precipiterò a capo fitto dentro la terra... Spalancati, o terra! Oh no, non vuole accogliermi! Voi, stelle, che vegliaste alla mia nascita, e la cui influenza mi ha destinato morte e inferno, sollevate ora Fausto come nebbia, fin su nelle viscere di quelle tempestose nubi, così che, quando voi vi rovesciate nello spazio, le mie membra possano erompere dalle vostre bocche fumanti, ma l'anima mia salga al cielo!
(L'orologio batte la mezza.)
Ah, mezz'ora è passata! Tra poco l'ora intera! O Dio, se non vuoi avere pietà dell'anima mia, per amor di Cristo, il cui sangue mi ha redento, assegna almeno un limite alla mia pena incessante: viva Fausto nell'Inferno mille anni, cento mila anni, ma infine sia salvato! Oh, nessun limite è concesso alle anime dannate! Perchè non sei una creatura senza anima? Perchè questa che tu hai, è immortale? Ah la metempsicosi di Pitagora! Se ciò fosse veo, questa mia anima dovrebbe volarsene da me, e io esser cambiato in brutto! Tutti i bruti sono felici, perchè quando muoiono le anime loro si dissolvono negli elementi; ma la mia deve vivere per essere straziata nell'Inferno.
Maledetti i parenti che mi hanno generato! No, Fausto: maledici te stesso, maledici Lucifero che ti ha privato delle gioie del Cielo.
(L'orologio scocca le dodici.)
Ecco, scocca, scocca! Ora, mio corpo, sciogliti in aria, o Lucifero ti trascinerà veloce all'Inferno.
(Tuoni e lampi.)
O anima mia, in goccioline d'acqua e cadi nell'oceano, e non ti si trovi mai più!
(Entrano i demoni.)
O mio Dio, mio Dio, non mi fissare così sdegnoso! Aspidi e serpenti, lasciatemi respirare ancora un istante! Orrendo Inferno, non spalancare le tue fauci, non venire, o Lucifero! Brucerò i miei libri! Ah Mefistofile!
(Escono i demoni con Fausto.)
Entra il Coro.
CORO.
- Reciso è il ramo che avrebbe potuto crescere alto e rigoglioso, e arsa è la fronda di lauro apollineo che già cresceva nel cuore di questo dotto. Fausto non è più. Considerante la sua infernale caduta, e possa il suo destino diabolico esortare i savi a non sentire che stupore delle cose vietate, il cui mistero trascina gli spiriti ardenti al di là di quel che permetta li potere celeste.
(Esce.)
Terminat hora diem; terminat auctor opus.