William Shakespeare, Antony and Cleopatra

Antonio e Cleopatra





Edición filológica utilizada:
William Shakespeare, Antonio e Cleopatra, Giulio Carcano (ed. e trad.), Opere di Shakespeare,Vol. 1, Milano Napoli Pisa, Ulrico Hoepli, 1985
Procedencia:
Texto base
Edición digital a cargo de:
  • Stoica, Ruxandra (Artelope)

PERSONAGGI

MARCO ANTONIO, triumviro
OTTAVIO CESARE, triumviro
MARCO EMLIO LEPIDO, triumviro
SESTO POMPEO
DOMIZIO ENOBARBO, amico d’Antonio
VENTIDIO, amico d’Antonio
ERO, amico d’Antonio
SCARO, amico d’Antonio
DERCETA, amico d’Antonio
DEMETRIO, amico d’Antonio
FILONE, amico d’Antonio
MECENATE, amico di Cesare
AGRIPPA, amico di Cesare
DOLABELLA, amico di Cesare
PROCULEIO, amico di Cesare
TIREO, amico di Cesare
GALLO, amico di Cesare
MENADE, amico di Pompeo
MENECRATE, amico di Pompeo
VARRIO, amico di Pompeo
TAURO, luogotenente di Cesare
CANIDIO, luogotenente d’Antonio
SILIO, uffiziale nell’esercito di Ventidio
EUFRONIO, legato d’Antonio a Cesare
ALESSI, seguace di Cleopatra
MARDIANO, seguace di Cleopatra
SELEUCO, seguace di Cleopatra
DIOMEDE, seguace di Cleopatra
UN INDOVINO
UN VILLANO
CLEOPATRA, regina d’Egitto
OTTAVIA, sorella di Cesare e moglie d’Antonio
CARMIONE, seguace di Cleopatra
IRA, seguace di Cleopatra
UFFIZIALI
SOLDATI
MESSAGGIERI
SEGUITO

La scena succede in varie parti del Romano Impero.


Atto I

SCENA I.

Alessandria. – Stanza nel palagio di Cleopatra.
Entrano DEMETRIO e FILONE.

Filone.
In ver, questa follia del duce nostro
Soverchia ogni confin: gli occhi superbi,
Che pria sovra le schiere e le legioni
Gittavan lampi non men dell’usbergo
5
Di Marte, or fatti schiavi, sotto l’arsa
Fronte, chinansi a terra; e quel guerriero
Cor, che nell’urto delle grandi pugne
Spezzò le cinghie della sua corazza,
Or la tempra perdè; s’aggrinza, come
10
Ventola che d’egizia saltatrice
Gli ardor rinfresca. – Ei vengono, li mira.

Squilli di trombe.
Entrano ANTONIO e CLEOPATRA, col loro seguito: alcuni EUNUCHI agitano ventagli dinanzi alla regina.

Filone.
Attento osserva, e tu vedrai com’una
Di quelle tre colonne, su cui poggia
Il mondo, or diventò di laida putta
15
L’istrïon. Guarda, e vedi.

Cleopatra.
(Ad Antonio.)
Se verace
Amor quest’è, dimmi quant’esso è grande.

Antonio.
Se dir puoi quanto val, povero è amore.

Cleopatra.
Fin dove giunga amore io dir vorrei.

Antonio.
Scopri allor nuovi cieli e nuova terra.

Entra un SEGUACE.

Il Seguace.
20
Signor, di Roma un messo...

Antonio.
Egli m’attedia:
Sii breve.

Cleopatra.
Antonio, via, prestagli orecchio:
Forse, è Fulvia in corrucio; o a te l’imberbe
Cesare, forse, il suo cenno sovrano
Mandar potria: Fa questo, o quello; un regno
25
Conquista, ovver francheggia un altro; pronto
Obbedir devi, o n’avrai pena.

Antonio.
Come.
Dolce amor mio?

Cleopatra.
Fors’anco è facil cosa
Che tu qui a lungo rimaner non deggia,
E t’arrivi da Cesare licenza.
30
Dunque, Antonio, l’ascolta. – Esser può invece
Un comando di Fulvia... anzi, dir volli
Di Cesare... o d’entrambi. I messi chiama. –
Com’è ver che d’Egitto io son regina,
Tu arrossi, Antonio; ed a Cesare omaggio
35
È il sangue che la guancia t’invermiglia;
O ti si pinge di vergogna il viso,
Perchè con quella sua stridula voce
Fulvia ti sgrida. – I messi!

Antonio.
Il Tebro inghiotta
Tutta Roma, e l’immenso arco che regge
40
Il vasto impero crolli pure! È questo
L’universo per me.
(Additando Cleopatra.)
Non sono i regni
Altro che fango, ed il terrestre limo
Uomini e belve del par nutre: sola
Nobiltà della vita è questo amplesso!
(Abbracciandola.)
45
Quando in mutua d’amor corrispondenza
Son due da questo nodo insieme avvinti,
Sotto a grave minaccia il mondo impari
Che tal coppia non ha chi l’assomigli.

Cleopatra.
Oh superba menzogna! Perchè a Fulvia
50
Sposo egli fu, se non l’amava? Folle
Non sono io già, qual sembro. E sarà Antonio
Lo stesso ognora?

Antonio.
Sì finchè l’avvivi
La luce di Cleopatra. – Or, ti scongiuro
In nome dell’amor, delle soavi
55
Ore sue, non perdiamo in tedïosi
Colloquii il tempo; piacer novo arrechi
Di vita ogni minuto. –A quale spasso
Doniam la sera?

Cleopatra.
I messi accogli.

Antonio.
Via,
Litigiosa reina! a cui del paro
60
La rampogna conviene e il riso e il pianto;
In cui s’abbella ogni affetto del core,
E ammiranda ti fa! Lasciamo i messi.
Soli noi due n’andremo in questa sera
Vaganti per le vie, notando i vari
65
Del popolo costumi. – O mia regina,
Vieni: la scorsa notte tu il bramavi.
Non far motto.

(Al Servo).
(Antonio e Cleopatra partono col loro seguito.)

Demetrio.
Di Cesare ei fa dunque
Sì lieve conto?

Filone.
Avvien talor, quand’esso
Antonio più non è, che l’abbandoni.
70
La dignità, d’onde scostarsi Antonio
Mai non dovria.

Demetrio.
Duolmi il trovar veraci
Que’ volgari romor’ che a danno suo
Corrono in Roma. – Ma più degne cose
Spero veder dappoi. – Vivi felice.

(Partono.)

SCENA II.

Alessandria. – Un’altra parte del palagio.
Entrano CARMIONE, IRA, ALESSI, poi un INDOVINO.

Carmione.
Alessi, dolce Alessi, inclito Alessi, tu che sei l’essenza del perfetto, dimmi: ov’ è l’indovino che tanto lodasti alla regina? Oh! mi sia noto cotesto sposo, che avrà, como tu dici, il vanto d’inghirlandare le corna sue.

Alessi.
75
O indovino!

Indovino.
Che vuoi?

Carmione.
Gli è questi? – Amico!
Se’ tu colui che l’avvenire conosce?

Indovino.
Dell’infinito libro di natura
Leggo un poco i segreti.

Alessi.
(a Carmione.)
La tua mano
Gli mostra.

Entra ENOBARBO.

Enobarbo.
Orsù, senza indugio s’appresti il banchetto; e vino in copia, onde si mesca a onore di Cleopatra.

Carmione.
(All’indovino.) Dammi, ten prego, il mio buon destino.

Indovino.
80
– Il destino io non fo, ma lo predico.

Carmione.
Mi sia dunque fausto il tuo presagio.

Indovino.
– Più ch’or tu non lo sia, bianca sarai.

Carmione.
Bianca di pelle e’ vuol dire.

Indovino.
– No: fatta vecchia, tu sarai dipinta.

Carmione.
Le rughe me ne scampino!

Alessi.
Attendi bene, e non turbare la sua prescienza.

Carmione.
Zitta!

Indovino.
– Amante tu sarai, ben più che amata.

Carmione.
Sarebbe meglio che le viscere m’ardesse il vino.

Alessi.
Sta dunque attenta.

Carmione.
Orsù, adesso, qualche più sublime fortuna; ch’io sia, in una mattina, sposa, a tre re, e vedova di tutti tre: che a cinquant’anni mi nasca un figlio, al quale Erode di Giudea presti omaggio: dimmi che Ottavio Cesare m’elegga al suo talamo, e ch’io mova al paro della mia signora.

Indovino.
– Vivrai più che la donna a cui tu servi.

Carmione.
Oh fortuna! Apprezzo lunghi anni di vita, più che un piatto di fichi.

Indovino.
85
– Finor più lieta a te sorte correa
Di quella che ti attende.

Carmione.
I miei figliuoli, parmi, porteranno un nome spurio. Ma dimmi quante fanciulle avrò e quanti maschi?

Indovino.
– Se pregnante
Fosse ogni voglia, ogni desir fecondo,
Un milion tu n’avresti.

Carmione.
Taci, stolto. Ti perdono queste fole da indovino.

Alessi.
(A Carmione.) Tu credi che a parte de’ tuoi desiri non sieno che le tue coltri?

Carmione.
Or via predici la sua sorte anche ad Ira.

Alessi.
Tutti vogliam sapere la nostra sorte.

Enobarbo.
La mia, al par di quella de’ più fra noi, sarà – di giacer briache stanotte.

Ira.
(Tende la sua mano.) Questa mia palma annunzia, se non altro castità.

Carmione.
Come il Nilo crescente promette carestia.

Ira.
Eh! Mia bizzarra compagna di letto, non farmi tu da Sibilla.

Carmione.
Io? Se non è presagio di fecondità il mador della mano, io non so pur grattarmi l’orecchio. Via, non predirle altra cosa che lavoro di serva...

Indovino.
– Eguali in sorte
90
Voi siete.

Ira.
Come? Oh come? Ti spiega meglio.

Indovino.
– Dissi.

Ira.
E a me neppure un grano di buona ventura più che a lei?

Carmione.
E dove il vorresti, se a te tocasse un grano di più?

Ira.
Non sotto il naso di mio marito.

Carmione.
Che gl’Iddii ci perdonino i nostri mali pensieri! Vieni, Alessi. Orsù, la buona ventura a lui, a lui la buona ventura! Buona Iside, ti scongiuro, fa ch’ei si mariti a femmina impotente! E muoia costei, ed egli n’abbia una peggiore; a questa ne succeda una pessima, finchè, ben cinquanta volte cornuto, la più trista lo metta nella fossa, e ne rida. Ascolta, Iside, il prego mio, te ne scongiuro, dovessi tu negarmi grazia ben più grande!

Ira.
Tal sia! Esaudisci questa preghiera de’ tuoi devoti, o buona Dea! Se è doglia che spezza il core vedere un onest’uomo male appaiato, è dolor mortale vedere un tristo mariuolo non cornuto. Onde tu, Iside buona, devi dargli la sorte di cui è degno.

Carmione.
E sia.

Alessi.
Oh! tu il vedi, se toccasse loro di piantarmi le corna sulla fronte, si farebbero putte senz’altro.

Enobarbo.
Silenzio! Antonio vien.

Carmione.
No; la regina.

Entra Cleopatra.

Cleopatra.
Vedesti il signor mio?

Enobarbo.
No.

Cleopatra.
Qui non era?

Carmione.
No, regina.

Cleopatra.
Alla gioia ei parve desto;
Ma un romano pensiero a un tratto il colse.
95
Enobarbo!

Enobarbo.
Signora.

Cleopatra.
Di lui cerca,
E a me’l guida. – Ov’è Alessi?

Alessi.
Al cenno tuo
Qui pronto. – Ecco, s’appressa il signor nostro.

Entra ANTONIO con un MESSAGGIERO e col seguito.

Cleopatra.
Non vo’ dargli uno sguardo. Mi seguite.

(Partono Cleopatra, Enobarbo, Alessi, Ira, Carmione, l’Indovino e le seguaci della regina.)

Il Messo.
Prima uscì in campo Fulvia, la tua donna.

Antonio.
100
Contro il fratel mio Lucio.

Il Messo.
Sì; ma in breve
Finì la guerra: in amistà li strinse
Ragion di Stato: collegâr le forze
Contro Cesare; quindi il suo trionfo
Li cacciò fuor d’Italia, al primo scontro.

Antonio.
105
E di peggio che fu?

Il Messo.
Fatal novella
Ammorba chi la reca.

Antonio.
Se codardo,
O pazzo è quei che la riceve. – Segui;
Per me finì quel ch’è passato; e sia.
Chi viene a dirmi il ver, fosse anche morte
110
Nel dir suo, come l’uom che adùla io l’odo.

Il Messo.
Labien (mi è duro l’annunziarlo) a capo
Delle torme de’ Parti, oltre l’Eufrate
Occùpa l’Asia: dalla Siria infino
Alla Lidia e all’Jonia ondeggia il suo
115
Conquistator vessillo; mentre...

Antonio.
Antonio,
Tu vuoi dir...

Il Messo.
Signor mio!

Antonio.
Schietto mi parla:
Non far più tenue il pubblico linguaggio:
Cleopatra appella, qual nomata è in Roma,
Di Fulvia col parlar ti sfoga; e i miei
120
Falli rampogna con larga licenza,
Quanta, congiunte, verità e malizia
Usar ne ponno. In noi spuntano rovi,
Allor che il vento, che n’avviva, tace:
Chi il mal ne additi, le male erbe sarchia.
125
Per poco, vanne.

Il Messo.
Al piacer tuo.

(Parte.)

Antonio.
Quai nuove
Da Sicïon? Dite.

Un Servo.
È qui di Sicïone
Il messo?

Un altro Servo.
Aspetta il cenno tuo.

Antonio.
Ch’ei venga.
Ch’io franga questi saldi egizii nodi
È forza, o in folle voluttà mi perda.

Entra un altro MESSAGGIERO

Antonio.
130
Chi sei tu?

2º Messo.
Fulvia, la tua sposa, è morta.

Antonio.
Ove ella è morta?

2º Messo.
A Sicïone: e quanto
Il suo malor durò, quant’altro importa
Di grave a te saper, la nota il dice
(Gli porge una lettera.)
Ch’io ti reco.

Antonio.
Mi lascia.
(Il Messo parte.)
Un grande spirto,
135
Ecco, è partito. – Ed il bramai! Sovente
Quel che con alto spregio abbiam respinto
Racquistar noi vorremmo: in suo passaggio,
Il tempo scema il diletto presente,
Fin che il trasmuta nell’opposto. Ed essa,
140
Ora che più non è, cara mi torna:
La man che la respinse or la richiama.
È fato omai ch’io mi svelga da questa
Reina ammaliatrice: un ozio imbelle
Mille disastri cova, assai più grandi
145
Di quanti or mi son noti. – Olà, Enobarbo.

Entra ENOBARBO.

Enobarbo.
Che vuoi, signor mio?

Antonio.
Partirmi di qui, senza indugio.

Enobarbo.
E così, da noi stessi sarebbero uccise le nostre donne. Tu sai che a loro qualunque lieve contrasto è morte: la nostra dipartita sarà come cenno mortale a tutte quante.

Antonio.
È mestieri ch’io parta.

Enobarbo.
Se necessità ci costringe, sia! Lasciamo morir le donne. Ma sarebbe pietà vederle così perdute senza cagione! Però, se giova scegliere tra un’altra causa e loro, sien pur tenute come un nulla. Cleopatra, appena gliene giunga un susurro, cadrà morta all’istante: e per cagione più misera la vidi morire già venti volte. Io credo che morte abbia un incanto che la tira, così mi parve sempre pronta a morire.

Antonio.
Dessa è astuta oltre ogni idea umana.

Enobarbo.
Ahimè! l’essenze dell’amor più puro formano la sottile passione del cuore di lei; le sue tempeste, e i fiumi ch’ella versa non sono lagrime e sospiri, sono procelle e turbini più fieri di quanti ne minaccia il calendaro. Non è astuzia in lei: se fosse, ella avrebbe il potere del sommo adunatore de’ nembi.

Antonio.
Oh non l’avess’io veduta mai!

Enobarbo.
Signor mio, non avresti contemplato miracolo così stupendo; e, scemo di tanta beatitudine, la tua via sarebbe senza onore trascorsa.

Antonio.
150
Fulvia è morta!

Enobarbo.
Signore!

Antonio.
Fulvia è morta!

Enobarbo.
Fulvia?

Antonio.
Morta.

Enobarbo.
Or bene, offri un sacrifizio di grazia ai Numi. Quando il piacere de’ Celesti toglie a un mortale la sua consorte, se ne conforta col pensiero che, consunti i vecchi ammanti, v’hanno sartori per farne de’ novelli. Se non vi fosse altra donna che Fulvia, questa sarebbe grave iattura, e ben degna di corruccio: ma il tuo dolore porta con sè il proprio sollievo: l’antica veste cede il luogo a tunica novella; e tutte le lagrime, che ponno tergere un tal duolo, le chiude una cipolla.

Antonio.
Dello Stato i negozii, che per lei
S’inizïar, non soffrono più lunga
155
L’assenza mia.

Enobarbo.
Del pari, quanti n’hai tu stesso qui intrapresi non puoi smettere; e sopra l’altre chiedono la tua presenza quelle cure a cui ponesti mano per Cleopatra.

Antonio.
Non più frivoli detti.
Di quel ch’ho risoluto i duci miei
Abbian contezza: farò noto io stesso
Questa mia dipartita alla regina;
E vo’ che a tal commiato ella consenta.
160
Chè di Fulvia non sol la morte, ed altre
Ragioni urgenti a ciò forte consiglio
Ora ne danno; ma lettere molte
De’ nostri amici più possenti in Roma
Ci han richiamato. A Cesare diè sfida
165
Sesto Pompeo, che tien del mar l’impero;
Ed il volubil popolo, che mai
Uom degno non amò fin che passato
Il suo merto non sia, ridesta i vanti
Del gran Pompeo, co’ suoi più eletti pregi,
170
Nel figliuol suo. Temuto egli per fama
E per possanza, più temuto ancora
Per audacia e vigor, procede come
Il primo de’ guerrieri; alto periglio,
Se più grandeggia, egli sarebbe al mondo.
175
L’avvenir cova tale infesto germe,
Che, pari al crine d’un cavallo, ha vita,
Ma non ancor vipereo tosco. Or via,
Annunzia a quanti il mio servigio lega
Ch’è piacer nostro il dipartici, senza
180
Dimora alcuna.

Enobarbo.
Signor, t’obbedisco.

SCENA III.

Entrano CLEOPATRA, CARMIONE, IRA e ALESSI.

Cleopatra.
Ov’è desso?

Carmione.
Dappoi nol vidi

Cleopatra.
Oh vanne,
Cerca dov’egli sia, con chi, che faccia:
Non sono io che ti mando. Ma se tristo
Lo vedi, gli dirai ch’io vo danzando:
185
Se gaio, che mi colse un subitano
Malor. – Corri e ritorna.

(Alessi parte.)

Carmione.
In ver, se l’ami,
Non è questa la via perche tu n’abbi
D’amor corrispondenza.

Cleopatra.
E quel ch’io devo
Forse non fo?

Carmione.
Cederli in tutto; in nulla
190
Fargli inciampo tu dêi.

Cleopatra.
Scempio precetto!
La via quest’è di perderlo.

Carmione.
Pon mente
Di non tentar soverchio; io te ne prego,
T’affrena. Quel che noi temiam, sovente
Odïoso a noi torna. – Antonio viene.

Entra ANTONIO.

Cleopatra.
195
Egra io mi sento e trista.

Antonio.
Il mio disegno
Al respiro fidar, m’è grave.

Cleopatra.
Aita,
Mia Carmione, io vacillo... Più a lungo
Regger non può d’umana creatura
Il fianco...

Antonio.
O dolce mia regina...

(Appressandosi.)

Cleopatra.
Tienti
200
Da me discosto, per pietà!

Antonio.
Che avvenne?

Cleopatra.
Negli occhi tuoi fauste novelle io leggo. –
Che dice a te la maritata donna?
Partir puoi... Deh! concessa a te licenza
Ella mai non avesse! Ora non dica
205
Ch’io son che ti rattengo: alcun potere
Su te non ho; sei tutto suo.

Antonio.
N’attesto
I sommi Dei...

Cleopatra.
Non fu tradita mai
Con tanta infamia una regina!... Pure
Spuntar già prima il tradimento io vidi...

Antonio.
210
Clëopatra!

Cleopatra.
Che fido e mio tu sei
Creder posso, se ancor de’ Numi il trono
Scrollassero i tuoi giuri, poi che fosti
A Fulvia mentitor? Strana follìa!
A me fur rete questi giuri infranti
215
Nell’atto istesso che li forma il labbro.

Antonio.
O soave regina!

Cleopatra.
Al partir tuo
Non dar falso colore: altro non dirmi
Che vale, e parti! – Quando m’imploravi
Per restar qui, fu tempo di parole:
220
Nè di partir parlasti allora, ed era
In quel punto ne’ nostri occhi, e su’ labbri
L’eternità, beatitudin era
Nell’ arco delle ciglia; e nulla in noi
Povero sì, che un prelibar di cielo
225
Non fosse. E questo è ancor, se tu, il più grande
D’ogni guerriero, il mentitor più grande
Non ti se’ fatto.

Antonio.
E che?

Cleopatra.
Pari a te fossi
Di statura, e vedresti che in Egitto
V’è un cor!

Antonio.
Regina, m’odi. A me possente
230
Necessità breve servigio impone:
Ma, qui, intero il cor mio resta, a te servo.
Tutta fiammeggia di civili spade
Italia nostra, e di Roma alle porte
Sesto Pompeo già sta. L’egual potere
235
Delle due parti interne i fazïosi
Germi alimenta; e fatti omai gagliardi
I più abborriti, il pubblico favore
Conquistano: già pènetra il proscritto
Pompeo, superbo dell’onor paterno,
240
Il cor di quanti nel presente stato
Non ebber fonte di guadagno; e uniti
In minaccioso numero, e per lungo
Ozio fiaccati, ritemprar si vonno
Con ardir disperato. Altra, a me propria
245
Cagion, che meglio di mia dipartenza
Ti fa secura, è di Fulvia la morte.

Cleopatra.
Se l’età non m’è schermo alla follìa,
Da pueril credulità mi scampa.
Esser morta può Fulvia?

Antonio.
O mia regina,
250
È morta. – Vedi, e quai destò tumulti
Qui leggi, a tuo regal talento: il meglio
Fu il fine suo. Dove, e quand’essa è morta
Qui vedi.

Cleopatra.
O degli amanti il più fallace,
Ove le sacre fiale, che di stille
255
Dolenti empir dovresti, ove son dunque?
Per la morte di Fulvia, io veggo, io veggo
Come la mia sarebbe accolta.

Antonio.
Cessa
Di far querele, e attendi a que’ disegni
Che in mente io reco: ei sono, o van dispersi,
260
Del tuo pensiero a grado. Sì, pel foco
Che puote il limo fecondar del Nilo,
Tuo gerrier, servo tuo di qui mi parto:
Pace o guerra io farò, come tu imponi.

Cleopatra.
Tronca, o Carmione, il nodo che m’allaccia;
265
Vieni... No, lascia, va! Nel punto istesso
Io manco, e vivo!... Ama in tal forma Antonio.

Antonio.
Ti calma, amata mia regina; e dona
Piena fede a un amor che sì onorando
Cimento sfida.

Cleopatra.
Fulvia me lo apprese.
270
Deh! Il capo indietro volgi, e per lei piagni:
Addio poi dimmi, e vanta che appartiene
Alla donna d’Egitto il pianger tuo.
M’offri, ten prego, infinta scena, e sia
Perfetto il simular; mimo sublime,
275
L’onor ritraggi.

Antonio.
Il sangue mi ribolle:
Basta.

Cleopatra.
Ancor meglio finger puoi; ma pure
Mal non rïesci.

Antonio.
E che? Pel ferro mio...

Cleopatra.
E per lo scudo! – Meglio assai: pur, questo
Non è perfetto. O Carmion, vieni e vedi
280
Quest’Ercole roman, come gli è bello
L’atteggiarsi a furente!

Antonio.
Or via, ti lascio.

Cleopatra.
Eroe cortese, un solo accento. – È forza
Che noi ci separiam... No, non è questo
Ch’io volli dir. Ci strinse amore insieme:
285
Neppur questo: tu il sai! Quel ch’io dir volli
Non so. – Per certo, in me l’obblio somiglia.
A un Antonio. – Più nulla io mi ricordo.

Antonio.
Se del dominio tuo non fosse parte
Il fatuo sense, tu per me saresti
290
La stessa fatuità.

Cleopatra.
Grave fatica
La fatuità portar sì presso al core,
Siccome fa Cleopatra. Ma, perdono!
Me uccide quel che m’è più usato e caro,
Se agli occhi tuoi non piace: l’onor tuo
295
Lunge ti chiama. Or ben, chiudi l’orecchio
All’incompianta mia demenza: i Numi
Ti sien guida; e vittoria il lauro posi
Sul ferro tuo; sparga il felice evento
Di fiori il tuo sentier!

Antonio.
Non più, n’andiamo.
300
Lungo è il nostro commiato, e pur s’invola;
Sì che tu, qui restando, meco vai,
Io, fuggendo da te, con te rimango.

(Partono.)

SCENA IV

Roma. – Nel palagio di Cesare.
Entrano OTTAVIO CESARE, LEPIDO e seguaci.

Cesare.
Lepido, il vedi – e l’avvenir certezza
Te ne darà – non è tristo costume
305
Di Cesare abborrir d’un suo collega
Il merto. D’Alessandria ecco gli avvisi:
Ei va pescando, egli tracanna, e in folli
Orgie consuma le notturne faci;
Nè più di Clëopatra uomo ei si mostra,
310
Nè donna è più di lui di Tolomeo
La vedova: a gran pena i messi accoglie,
E che ha tuttora nel poter compagni
Più non rammenta. Tale egli è, che aduna
In sè solo colpe, onde van tristi
315
Gli uomini tutti.

Lepido.
Che soverchi e offuschi
Il male in lui quanto di ben vi resta
Creder non do: sono i suoi falli, come
Screzzi del ciel, che il buio della notte
Fa più lucenti: anzi che proprio acquisto,
320
Li ebbe in retaggio; della sua natura
Effetti, e non arbitrio suo.

Cesare.
Soverchia
È l’indulgenza in te: non è delitto,
Tel concedo, che il talamo egli calchi
Di Tolomeo; che un regno ei doni in cambio
325
D’una facezia; d’uno schiavo accanto
Segga al convito e al mescer suo risponda;
Ch’ebbro al meriggio, per le vie vacilli,
O con ribaldi di sudor fetenti
Scenda a certame. E sia, se ciò gli giova:
330
(Certo rara compage aver conviene
Per non esse da tante infamie guasto)
Pur non ha scusa Antonio a tai brutture,
Perchè su noi ricade il pondo grave
Della levità sua. Se gli piacea
335
Quegli ozii empir di voluttà soltanto,
Potrian l’epa rimpinza e le rattratte
Ossa farne ragion; ma sperder l’ore,
Quando il rintocco del tempo ed il nostro ,
Del par che l’util suo, con alto suono
340
Dagli spassi il richiama, il fa di pena
Degno; come fanciul che a sapïenza
Maturo, alla ragion contrasti, e servo
Al presente diletto il dover faccia.

Entra un MESSO.

Lepido.
Ecco altre nuove.

Il Messo.
I cenni tuoi son dati:
345
E d’ora in ora indicio degli eventi,
Alto Cesare, avrai. Possente in mare
È Pompeo: certo par che a lui si volga
L’affetto di color che un tempo furo,
Sol per tema, di Cesare seguaci.
350
Quanti son malcontenti inverso a’ porti
Accorrono; e lui segna la volgare
Opinïon come un oppresso.

Cesare.
E tanto
Attendermi io dovea. Da’ più lontani
Tempi insegna la storia che il comune
355
Voto ognor segue l’uom che in alto sale,
Fin ch’ei vi sta; ma l’uom caduto invece,
E senza amor fin che d’amor fu degno,
Caro al popol diventa dall’istante
Che più nol vede. Simigliante è il volgo
360
All’alga vagabonda in sul torrente,
Che va e vien coll’incostante fiotto,
E che in questo agitarsi imputridisce.

Il Messo.
O Cesare, io ti reco altra novella:
Due pirati famosi, Menecrate
365
E Menade, del mare arbitri sono;
Ei l’avvincono, il solcan d’ogni parte
Con prore d’ogni forma; e furïosi
Invasero già molte itale rive.
Le genti della piaggia, al sol nomarli,
370
Scolorano: s’accende e armata sorge
La gioventù: nave non v’ha che l’alto
Tenti, e non sia tosto scoverta e presa:
Il nome di Pompeo, piè strage mena
Che non fariano l’armi all’armi opposte.

Cesare.
375
Pon fine, Antonio, all’orgie tue lascive!
Un dì, quando da Modena cacciato,
Ove i consoli Pansa ed Irzio uccisi
Fûro da te, vedevi al tuo calcagno
Venir la fame, tu la disfidasti:
380
Benchè a mollizie usato, più gagliardo
D’un selvaggio tu fosti a sopportarla;
E lozio cavallin bastò a tua sete
E della gora il fetido limaccio
Agli animai schifoso: il tuo palato
385
Non disdegnava il frutto aspro del pruno,
E come il cervo, quando la pastura
Copron le nevi, fin la ruda scorza
Degli arbori brucasti: è fama ancora
Che sull’alpi, a que’ dì, fosti pasciuto
390
Di carni, a cui guardar senza morirne
Altri non seppe. E tutto questo (a tua
Vergogna il dico) sopportasti in guisa
Sì fiera allor, che non avesti macra
La guancia.

Lepido.
È gran pietà la sua caduta.

Cesare.
395
Deh possa l’onta ricondurlo in Roma
Ben presto! È tempo che noi pure in campo
Scendiamo insiem: s’aduni senza indugio
Un consesso: a Pompeo le forze addoppia
L’inerzia nostra.

Lepido.
O Cesare, domani
400
Farti noto saprò quanto m’è dato
Raccorre in terra e in mar milizie e posse
Per tal cimento.

Cesare.
E l’egual cura io prendo,
Finchè ci riveggiam. Vale.

Lepido.
Sì, vale.
Se intanto apprendi nuovi esterni moti,
405
Te ne scongiuro, fa ch’io ’l sappia.

Cesare.
Noto
M’è il dover mio: non dubitarne, amico.

SCENA V.

Alessandria. – Sala nel palagio.
Entrano CLEOPATRA, CARMIONE, IRA e MARDIANO.

Cleopatra.
Carmïone!

Carmione.
Regina.

Cleopatra.
Ohimè! mi porgi
Del succo di mandragora.

Carmione.
A che mai?

Cleopatra.
Perch’io possa dormirlo questo vuoto
410
Spazio di tempo che da me fia lunge
Antonio mio.

Carmione.
Troppo a lui pensi.

Cleopatra.
Oh quale
Tradimento!

Carmione.
M’affido che non sia.

Cleopatra.
Eunuco, olà! Mardiano!

Mardiano.
Al piacer tuo.

Cleopatra.
Or non è piacer mio l’urdir tuoi canti;
415
Nulla ha l’eunuco che mi piaccia. In vero,
Ch’evirato sii tu sta ben: d’Egitto
Il libero pensier via non ti fugge.
Affetti hai tu?

Mardiano.
Sì, mia regina.

Cleopatra.
In vero?

Mardiano.
Non già davver, perchè non altro io posso
420
Se non quel ch’è innocente; pure anch’io
Ho furibondi affetti, e a Marte penso
Fra le braccia di Venere.

Cleopatra.
O Carmione,
Ove di’ tu che adesso ei sia? Sta ritto,
Od assiso? passeggia, ovver cavalca?
425
O felice destrier che Antonio porti!
Sii valente, o destrier! Sai tu chi reggi?
Il semiAtlante della terra, il braccio
Ed il cimier dell’universo. Ei parla
E mormora sommesso: Ov’è la mia
430
Serpe del vecchio Nil? così mi noma...
Ma di un soave tosco ora m’inebrio,
Ch’egli a me pensi, a me cui gli amorosi
Baci di Febo han fatto bruna, e il tempo
Solcò di rughe? O tu, dal vasto fronte
435
Gran Cesare, te vivo, oggetto io fui
Ben degno d’un monarca: e immoto stette
E in me fissò i rapiti occhi Pompeo,
Nè strappar li potea, quasi ei volesse
Morir, mirando la sua vita.

Entra ALESSI.

Alessi.
Salve,
440
Sovrana dell’Egitto.

Cleopatra.
Oh! ben diverso
Sei tu da Marc’Antonio; pur da lui
Ne vieni; e, come tocco da potente
Essenza, in oro sei converso. – Oh dimmi,
Del prode Antonio mio che rechi?

Alessi.
Un bacio
445
A questa perla orïental, l’estremo
Dopo altri molti, o mia dolce regina,
L’ultimo fu degli atti suoi: radice
Han messa in questo cor le sue parole.

Cleopatra.
Ne sian per me divelte.

Alessi.
Amico, ei disse,
450
Vanne, e ripeti che «il fedel romano
Questo tesor, che un’ostrica ascondea,
All’alta Egizia invia; ma, per compenso
Del picciol dono, ei vuol fregiar di regni
Il suo trono superbo; a lei soggetto
455
Dovrà prostrarsi l?Orïente intero.»
Disse el il capo chinò: poi salì grave
Sul focoso cavallo, il cui nitrito,
Sol ch’io schiudessi il labbro, avria coverto
La mia voce.

Cleopatra.
Era ei lieto o mesto?

Alessi.
Come
460
Quella, tra il caldo e il freddo raggio incerta,
Media stagion dell’anno: era nè mesto
Nè lieto.

Cleopatra.
O tempra ben composta! Nota,
Nota ben, Carmïone: eccoti l’uomo;
Non mesto egli era, chè seren mostrarsi
465
Volle a que’ che foggiar sogliono il viso
A sembianza del suo; nè gaio, quasi
Per dir che ogni sua gioia, ogni ricordo
In Egitto albergava; ma diviso
Fra questi estremi. – O celestial meschianza
470
D’affetti!... Ah sì! che tu sia gaio o mesto,
Di mestizia o di gioia a te l’estremo
Convien, più che ad ogni altro.
(Ad Alessi.)
I messi miei
Vedesti in via?

Alessi.
Sì, venti almen, regina.
Perchè tanti, un su l’altro, ne inviasti?

Cleopatra.
475
In miseria morrà l’infante nato
Quel dì che d’inviar messi ad Antonio
Io non ricordi. – Il calamo e il papiro
Dammi, Carmion. – Ben vieni, o buon Alessi.
Cesare ho amato mai, fino a tal punto,
480
O mia Carmione?

Carmione.
Oh Cesare l’eroe!

Cleopatra.
Se ancora il dici, che il dirlo t’affoghi!
Sclama: Antonio l’eroe!

Carmione.
Cesare, il forte!

Cleopatra.
Per Iside! io saprò sppezarti i denti,
Se nomar osi a Cesare simìle
485
L’eletto mio fra gli uomini.

Carmione.
Perdona,
Solo io ripeto quel che un dì tu hai detto.

Cleopatra.
Era negli anni acerbi miei, di senno
Immatura; non sangue in me, ma ghiaccio,
Per non dir quel ch’io dissi, esser dovea.
490
Ma vieni, dammi il calamo e il papiro:
Dovessi spopolar l’Egitto, a lui
Ogni giorno s’affretti un mio messaggio.


Atto II

SCENA I.

Messina. – Nella casa di Pompeo.
Entrano POMPEO, MENECRATE e MENADE.

Pompeo.
Se giusti sono i sommi Dei, de’ giusti
Mortali denno coronar l’imprese.

Menecrate.
495
Credi, illustre Pompeo: quel che da’ Numi
S’indugia, non si niega.

Pompeo.
Mentre in prece
Noi stiamo appiè del trono lor, perisce
La causa onde preghiam.

Menecrate.
Di noi medesmi
Spesso ignari, invochiamo il nostro danno;
500
E sapïenti Numi avversi a noi,
La prece nostra rifiutando, al nostro
Bene fanno opra.

Pompeo.
Il popol m’ama, e il mare
È mio, non fallirò. Del mio potere
È l’aurora, e a me dice la speranza
505
Che il meriggio a veder non sarà tardo.
Marc’Antonio, in Egitto, a’deschi siede,
Nè a far guerra uscirà da quelle porte;
Auro Cesare ammucchia, e cori perde;
Entrambi adùla Lepido, e adulato
510
Da entrambi egli è; nè l’uno ama nè l’altro,
Nè l’un nè l’altro lui.

Menecrate.
Cesare in campo,
Con Lepido, già sta, di numerose
Falangi condottier.

Pompeo.
Da chi ’l sapesti?
È falso.

Menecrate.
Silvio il disse.

Pompeo.
Ei sogna. In Roma
515
Ben so ch’entrambi, ad aspettarvi Antonio,
Stanno ancor. – Deh! quant’ha l’amor malle,
Tutte, o lasciva Cleopatra, a’ tuoi
Labbri appassiti rendano dolcezza,
Alla beltà gl’incanti; a quella e a questi
520
Libidine s’aggiunga, e sian catene
Piacere e feste al libertino; e fumi
D’ebbrezza il suo cerebro; epicurei
Cucinieri gli tentino con acri
Salse il palato stanco; infin che vinto
525
Dalla gola e dal sonno il suo coraggio
In un letèo stupor cada e si giaccia.
Or ben, Varrio?

Entra VARRIO.

Varrio.
Quel ch’io t’annunzio è certo!
È d’ora in ora in Roma atteso Antonio:
Poi ch’ei lasciò l’Egitto, il tempo corse
530
Di più lungo viaggio.

Pompeo.
Avrei dischiuso
A novella men ria più attento orecchio.
Menade, io non credea che dell’ elmetto
Questo ingordo amator, per cosí lieve
Guerra, s’armasse: ben due volte ei vale,
535
Come soldato, gli altri due. Ma pure
Superbi andiam che per noi dalla gonna
Strappato dalla vedova d’Egitto
Sia quest’osceno e non mai sazio Antonio.

Menade.
Creder non posso da un voler congiunti
540
Cesare e Antonio: di questo la donna,
Testè morta, era a quello un dì nemica;
Guerra a Cesare mosse il fratel suo,
Benchè, cred’io, non l’istigasse Antonio.

Pompeo.
Come alle grandi nimistà sian tregua
545
I levi odii non so. Se a tutti loro
Non sorgessimo incontro, essi per certo
Avrian l’armi rivolte un contro l’altro:
Cagion bastante a svaginar le spade
Li tragge; pur m’è ignoto per che modo
550
La tema, che di noi li stringe, or vaglia
In più lieve contrasto a compor l’ire
Che tanto li divide. Ma de’ Numi
Il volere s’adempia. A noi la stessa
Salute nostra impon di tutte quante
555
Le nostre posse usar. – Menade, andiamo.

(Partono.)

SCENA II.

Roma. – Nella casa di Lepido.
Entrano ENOBARBO e LEPIDO.

Lepido.
Di te ben degna e meritevol opra,
Enobarbo, sarìa nel duce tuo
Destar più dolci e mansueti sensi.

Enobarbo.
A dar lo inviterò quella risposta
560
Che gli convien: se Cesare lo irrita,
Su lui non chini Antonio il guardo, ed alto
Parli, come el dio Marte. Ove d’Antonio
La barba a me la guancia oggi vestisse,
Rader non mi vorrei.

Lepido.
Non è già tempo
565
Di privati rancori.

Enobarbo.
Ogni ora è buona
Alla ragion che da quell’ora nasce.

Lepido.
Cedere il passo alla ragion più grande
La minor dee.

Enobarbo.
Non già, se prima è questa.

Lepido.
Or parla in te la passïon dell’alma.
570
Ma il foco della cenere coverto
Non attizzar. – Di qui sorgiunge Antonio.

Entrano ANTONIO e VENTIDIO.

Enobarbo.
E Cesare di là.

Entrano dal lato opposto CESARE, MENECRATE e AGRIPPA.

Antonio.
Se in un intento
Qui siam concordi, senza indugio i Parti
Ci vedranno, o Ventidio.

Cesare.
No’l so invero,
575
Mecenate: ad Agrippa il chiedi.

Lepido.
Noi
Unisce or qui cagion grave, suprema,
Nobili amici: un futile diverbio
Non ci sepàri. Se rimbrotti v’hanno,
Li oda orecchio pacato: chè se noi
580
Discutiam vïolenti ogni volgare
Dissenso nostro, rechiam morte intanto
Che la ferita a medicar veniamo.
Dunque, colleghi miei, con tutto il core
Ve ne scongiuro, ciò che sa d’amaro
585
Espriman dolci sensi, nè l’acerba
Parola al male sia velen.

Antonio.
Ben dici:
Tale io farei, se a capo delle schiere
Fossimo, e all’ora del pugnar.

Cesare.
Tu sei
In Roma il benvenuto.

Antonio.
A te sian grazie.

Cesare.
590
Siedi.

Antonio.
E siedi tu pur.

Cesare.
Dunque?

Antonio.
M’è detto
Che ciò che mal non è, male a te suoni;
O che, se fosse a te caler non deve.

Cesare.
Se per nulla o per poco io mi dicessi
Offeso, e più con te, degno sarei
595
Di riso, in ver; più degno ancora, s’ io
Con disfavor ti nominassi, quando
Di ridire il tuo nome a me non tocca.

Antonio.
E ch’io mi fossi, o Cesare, in Egitto
Toccarti potea forse?

Cesare.
Non più, certo,
600
Che a te, in Egitto, del mio starmi in Roma.
Pur se di là tu avessi al poter mio
Insidïato, toccar mi potea
Che tu in Egitto fossi.

Antonio.
Insidïato?
Che intendi tu?

Cesare.
Da ciò che m’intervenne,
605
T’è facile colpir l’intento mio.
Contro a me preser l’armi la tua donna,
E il fratel tuo: principio alla contesa
Eri tu stesso, e parola di guerra
Il nome tuo.

Antonio.
Tu se’ingannato: mai
610
Del mio nome in tal guerra non si valse
Il mio fratello: io l’indagai, lo seppi,
Per veraci riferte di chi avea
Prese l’armi per te. Forse che invece
Non ei feriva il mio poter col tuo?
615
Poichè la causa nostra era sol’ una,
Contro mia brama non faceva ei guerra?
Ciò farti aperto ben potean le note
Ch’io ti mandai. Se di piatir t’è grato,
Poi che qui di piatir non è cagione,
620
Altra ne cerca.

Cesare.
Per vantar te stesso,
Che a me il senno fallì tu affermi, e intanto
Perdi la scusa tua.

Antonio.
No, no; m’è certo
(E so ben che sottrarti invan presumi
Alla necessità di tal giudicio)
625
Ch’io, legato con te da quella stessa
Causa ch’egli assalia, mirar con occhio
Di favor non potea cotesta guerra,
Che la mia pace avria distrutta. E quanto
Alla mia donna, oh fossi tu congiunto
630
Con uno spirto al suo simìl! Del mondo
Un terzo è tuo: guidar lo puoi con lieve
Filo, ma non tal donna!

Enobarbo.
Oh tali spose
Concedessero i Numi a tutti noi!
Gli uomini uscir contro le donne in campo
635
Potriano allor.

Antonio.
Sì, Cesare, gl’inciampi
Vïolenti che a te suscitò pria
L’impazïenzia sua, non mai disgiunta
Da politica astuzia – e duolmi il dirlo –
Di soverchio contrasto eran cagione:
640
Ma, confessar ben puoi che colpa alcuna
Di ciò non ebbi.

Cesare.
In Alessandria, in mezzo
All’orgie tue, ti scrissi; e tu le mie
Lettere riponevi, e con sarcasmi
D’ascoltar rifiutasti il mio messaggio.

Antonio.
645
Ei m’affrontò, senza licenza: meco
Sedean tre re ch’io convitati avea;
E quello a me fallia, che nel mattino
Era integro; pur volli, il dì vegnente,
Dirgli io stesso qual fui: quest’era come
650
Chiedergli scusa. Non sia dunque a noi
Cagion di cruccio questo sozio; e dove
A contesa venghiam, non sia per lui.

Cesare.
Il patto che giurasti hai franto, e dritto
Non hai tu d’aprir bocca e d’incolparmi.

Lepido.
655
Bada, o Cesare!

Antonio.
No: ch’ei tutto dica,
Lepido, assenti. A me sacro è l’onore
Di ch’ei ragiona, e che da me tradito
Presume. Or via, Cesare, segui. – Il patto
Da me giurato...

Cesare.
Di prestarmi aita
660
E l’armi tue, quand’io chieste le avessi:
E tutto hai rifiutato.

Antonio.
Anzi, negletto
Devi dir – nel momento ch’io, rapito
Da funesta malìa, tutta perdei
Di me la coscïenza. Or, quant’io posso,
665
Il pentimento mio t’attesto: pure,
Che onestà venga meno alla grandezza
In me non sarà mai; nè mai che adopri
Questa senza di quella. Eccoti il vero:
Fulvia, per trarmi dall’Egitto, accese
670
Qui la guerra; ond’ io stesso, che ne fui
Incolpevol cagione, a te ne chieggo
Perdono, in ogni guisa che il concede
A me l’onor.

Lepido.
Nobili detti!

Mecenate.
A questi
Alterni lagni non si dia fra voi
675
Maggior campo: obbliate, e vi sovvenga
Che a voi pace consiglia la presente
Necessità.

Lepido.
Ben dici, o Mecenate.

Enobarbo.
O almeno, se serbarvi alterno affetto
Per ora v’è concesso, oh! lo serbate:
680
Disfar ve ne potrete, allor che motto
Più non si faccia di Pompeo, tornando
A novello litigio, ove più nulla
Vi resti a far.

Antonio.
Tu non sei che soldato:
Taci.

Enobarbo.
Io quasi obliai che dee star muta
685
Verità.

Antonio.
Qui, la tua presenza è un’ontà:
Taci dunque.

Enobarbo.
Seguite: io son di sasso.

Cesare.
Del suo dir la sostanza approvo; ingrato
M’è il linguaggio; nè so come la nostra
Amistà durar possa, poi che tanto
690
Son diverse fra lor le nostre tempre.
Pur, s’io sapessi che salda catena
Per unirci vi sia, vorrei cercarla
Da un capo all’altro della terra.

Agrippa.
Assenti,
Cesare...

Cesare.
Parla, Agrippa.

Agrippa.
Una sorella
695
Da parte di tua madre hai tu, l’illustre
Ottavia: il grande Antonio ora divenne
Vedovo.

Cesare.
Agrippa, che di’ tu? Se mai
Cleopatra t’udisse, all’ira sua
Saresti segno.

Antonio.
Cesare, io non sono
700
Marito: lascia che a me parli Agrippa.

Agrippa.
Perchè voi siate in amistà perenne
Fratelli sempre, e i vostri cori avvinca
Indissolubil nodo, abbiasi Antonio
In moglie Ottavia: la costei bellezza
705
Tal marito domanda ch’esser dee
Degli uomini il miglior: grazie e virtudi
Parlano in lei con ineffabil voce.
Per cotal maritaggio ogni meschina
Gelosia che sì grande or sembra, ed ogni
710
Grande timor che tanto danno annunzia,
Svaniranno; anco il ver parrà menzogna,
Mentre, or, fin l’ombra d’un sospetto è il vero.
Essa, amando voi due, sarebbe nodo
Del vostro mutuo affetto, e tutti i cori
715
Farebbe vostri. Al mio dir perdonate:
Subitano non è, ma meditato
Frutto di lungo studio il pensier mio.

Antonio.
Cesare parlerà?

Cesare.
Non pria ch’ei sappia
Come quel che or fu detto Antonio senta.

Antonio.
720
Quale Agrippa ha poter, perchè s’io dico:
O Agrippa, sia! quel ch’ei parlò si faccia?

Cesare.
Di Cesare il poter quello ch’ei puote
Sovra Ottavia.

Antonio.
Oh non abbia, a cosí fausto
Disegno, e lieto di promessa tanta,
725
Nessuno inciampo a sorger mai! La mano
Dammi, e m’accogli nella grazia tua:
Da quest’ora dia legge a’nostri cori
Fraterno affetto, e i nostri alti disegni
Governi solo.

Cesare.
Ecco la man. Ti cedo
730
Una suora che amo, qual giammai
Fratello non amò. Dessa congiunga
I nostri imperi e i nostri cori; e uniti
Vivan sempre d’affetto!

Lepido.
E così piaccia
A’ Numi!

Antonio.
Non pensai che un’altra volta
735
Avrei contro Pompeo tratta la spada:
Ei di grandi onoranze e di recente
Favor m’ha colmo: io deggio essergli grato,
Perchè di sconoscenza non m’accusi;
Poi, senza indugio, disfidarlo.

Lepido.
Il tempo
740
Urge: pria che a cercar ne vegna, in traccia
Corraiam noi di Pompeo.

Antonio.
Dov’è?

Cesare.
Vicino
Al monte di Miseno.

Antonio.
E le sue posse?
Cesare. Molte, e crescendo vanno: ma del mare
È assoluto signor.

Antonio.
La fama il dice.
745
Come mi tarda di parlargli! Andiamo,
Affretiamci. Ma, pria d’uscire in campo,
Abbia fine la cura, onde dicemmo.

Cesare.
Di buon grado: a veder la suora mia
T’invito; e, senza più, vêr lei moviamo.

Antonio.
750
Lepido, e tu ci sii compagno.

Lepido.
S’anco
Egro foss’io, venir con te vorrei.

(Suono di trombe. Partono Cesare, Antonio e Lepido)

Mecenate.
Ben giungi dall’Egitto!

Enobarbo.
O parte dell’anima di Cesare, degno Mecenate! E tu, mio onorando Agrippa!

Agrippa.
Buon Enobarbo!

Mecenate.
In vero, fu gran ventura che le cose siensi composte così lietamente. Voi ve la faceste bene in Egitto.

Enobarbo.
Affè si spendeva l’intero dì a dormire; le notti nell’orgie.

Mecenate.
Erano otto cinghiali interi arrosto bastanti appena all’asciolvere di dodici di voi, è vero?

Enobarbo.
È ancora un nulla, è un moscerino a riscontro di un’aquila; facemmo simposii ben più mostruosi, e assai più degni di nota.

Mecenate.
Se non mente la fama, è colei un’invincibile maga.

Enobarbo.
Quando s’incontrò la prima volta con Marc’Antonio, là sulle rive del Cidno, lo conquise.

Agrippa.
È là che dessa gli apparve, se le nuove a noi giunte dissero il vero.

Enobarbo.
Io vel dirò. – Il naviglio, ove allor come
In trono sfavillante ella sedea,
Fiammeggiava sull’onda: tutto d’oro
755
La poppa, eran di porpora le vele,
Profumate così che a careggiarle
Venìano i venti inamorati; i remi
D’argento, al suon de’flauti, in lor cadenza
Facean che l’acque rifluisser, quasi
760
Del batter loro desïose: quale
Ell’era, nol può dir parola umana.
Di sotto a un padiglion tessuto d’oro
Giacea, la diva Venere offuscando,
In cui l’arte potè vincer Natura.
765
Avea, sembianti a paffutelli amori,
Grazonetti al suo fianco, che con dolci
Sorrisi ivan movendo in color vaghi
Pinti ventagli, a rinfrescar col soffio
Le sue tenere gote, e a rifar l’opra
770
Da lor disfatta pria.

Agrippa.
Miracol novo
Per Antonio!

Enobarbo.
Simìli alle Nereidi,
O all’altre dee del mar le ancelle sue,
Al mover del suo sguardo obbedienti,
La cingeano in leggiadri atti devote.
775
Appo il timone assisa una sirena;
E delle molli rosee dita al tocco
Parean le corde seriche agitarsi:
Un novo ed invisibile profumo
Dal naviglio sorgea, ferendo i sensi
780
Sulle propinque rive: la cittade
Versava il popol tutto al venir suo;
E in trono assiso nella vasta piazza
Sólo Antonio restò, sclamando all’aura;
Ch’essa pur, dietro a sè lasciando il vôto,
785
La legge di natura avrebbe franta
Per contemplar Cleopatra.

Agrippa.
Oh egizia diva!

Enobarbo.
Poi che discese, ad incontrarla venne
D’Antonio un messo, e convitolla a cena.
Rispose esser ben meglio ch’ei venisse
790
Com’ospite di lei: l’ottenne, e il nostro
Antonio, che non disse un no scortese
A femmina giammai, raso ben dieci
Volte, alla festa mosse; e in contraccambio
Di ciò che divorato ebbe con gli occhi,
795
Diè, per iscotto, il core.

Agrippa.
O regal druda!
Fe’ Cesare corcar, col ferro a lato:
Nè il campo ch’egli arò fu senza germe.

Enobarbo.
A piè zoppo la vidi, un dì, per via
Gir saltelloni ben quaranta passi:
800
E perduto il respir, parlar volea;
Ansando con tal grazia che il suo stesso
Venir manco apparìa maggior belleza:
Senza respir, da lei spirava incanto.

Mecenate.
Lasciarla Antonio or dee, per sempre.

Enobarbo.
Mai,
805
Non la lascierà, mai! Gli anni rapirle
Non potranno beltà, nè stancar l’uso
L’infinito tenor di sue lusinghe.
Sazio fan quel desio ch’esse han nudrito
L’altre donne; costei, saziando, affama.
810
Cosa immonda non v’ha, che in lei non sia
Seduzïon; nel fornicar, da’ sacri
Ministri è benedetta.

Mecenate.
Ove modestia,
E saggezza e beltà d’Antonio il core
Vincano, Ottavia è assai più benedetta
815
Sorte per lui.

Agrippa.
N’andiam: fin che qui stai,
Te voglio ospite mio.

Enobarbo.
Grazie ti rendo.

(Partono.)

SCENA III.

Roma. – Nella casa di Cesare.
Entrano CESARE, ANTONIO; OTTAVIA accompagnata da loro; alcuni seguaci e un INDOVINO.

Antonio.
Dal tuo seno talor fia che mi toglia
Il mondo e l’alto officio mio.

Ottavia.
Frattanto,
Prostrata sempre a’ Numi, i voti miei
820
Porgerò a lor per te.

Antonio.
(A Cesare.)
Lieta la notte
Ti sia. – Per quello che la fama disse,
Non giudicarmi, Ottavia mia: non sempre
Tenni la giusta norma; ma dal retto
Sentiero all’avvenir non vo’staccarmi.
825
Vale, o mia donna.

Ottavia.
E a te pur vale.

Cesare.
Vale.

(Partono Cesare e Ottavia. )

Antonio.
(All’Ind.)
Or ben, l’Egitto ancor rimpiangi, amico?

L’indovino.
Così partito non ne foss’io mai,
Nè voi, del paro!

Antonio.
E la ragion sai dirla?

L’indovino.
Nel mio spirto commosso ben la sento,
830
Ma su’labbri non l’ho. – Pur, vanne, torna
In Egitto.

Antonio.
Dir puoi, se fia più grande
Di Cesare la sorte, ovver la mia?

L’indovino.
Di Cesare. – Tu dunque a lui d’accanto
Non rimaner. Quel dèmone custode,
835
Quello spirto che guida il tuo destino
È nobile, animoso, invitto e altero,
Ovunque non è Cesare: al suo fianco,
Lo spirto tuo n’è oppresso, e si trasmutta
Nello sgomento: vasto campo adunque
840
Fra voi due si frapponga.

Antonio.
Oh! Non dir questo.
Io non parlo che a te, che al tuo cospetto.
In ogni prova a che con lui tu vegna,
La tua perdita è certa; e, per natura,
Tanta fortuna egli ha, che incontro ad ogni
845
Evento ti soverchia; il tuo splendore
S’offusca ov’egli appar: te lo ripeto,
Teme di governarti, a lui vicino,
Il tuo spirto; ma, appena ei si discosta,
Si leva in sua grandezza.

Antonio.
Or vanne, e apella.
850
Ventidio: ch’io con lui parli
(L’Indovino parte.)
Ch’ei mova
Contro a’ Parti. – Costui, sia l’arte o il caso,
Disse il vero: anco i dadi obbedïenti
Sono a Cesare; incontro a lui ne’ giochi
L’astuzia mia s’adopra invano. Ei vince,
855
Se le sorti gittiam: vincono i suoi
Contro i miei galli, quando par che tutto
Mi prometta l’opposto; e fin le sue
Quaglie batton le mie nel chiuso arringo.
Vo’ in Egitto tornar. Sol per mia pace
860
Stringo questo connubio; ma la mia
Delizia è là, nell’Orïente...

Entra VENTIDIO.

Antonio.
Oh! vieni,
Ventidio: mover devi incontro a’ Parti.
Pronto è il mandato: seguimi, e l’accogli.

(Partono.)

SCENA IV.

Roma. – Una via.
Entrano LEPIDO, MECENATE e AGRIPPA.

Lepido.
Non vi date altra briga; e i duci vostri,
865
Senza piè, raggiungete.

Agrippa.
Assenti solo
Che Antonio abbracci Ottavia; indi con lui
Partiam.

Lepido.
Finchè nella guerriera veste,
Che sì ad ambo convien, non vi rivegga,
Valete.

Mecenate.
Noi sarem, se del cammino
870
Io ben presumo, al monte di Miseno,
Lepido, innanzi a te.

Lepido.
La vostra via
È la più corta; i miei disegni invece
Me ne scostano; e innanzi a me v’è dato
Avanzar di due dì.

Mecenate. e Agrippa.
Fausti gli eventi
875
A te sieno.

Lepido.
Valete.

(Partono.)

SCENA V.

Alessandria. – Nel reale palagio.
Entrano CLEOPATRA, CARMIONE, IRA e ALESSI.

Cleopatra.
Orsù, mi date
Le armonie; le armonie, mesto alimento
Di quanti amor fatica.

Un seguace.
Olà! de’suoni.

Entra MARDIANO.

Cleopatra.
Non più suoni! A lanciar la palla andiamo:
Vieni, Carmion.

Carmione.
Dolente ho il braccio: è meglio
880
Che con Mardian tu giochi.

Cleopatra.
Ad una donna
Tanto vale il giocar con un eunuco
Che con un’altra donna. –
(A Mardiano.)
Vuoi tu dunque
Giocar meco?

Mardiano.
Signora, quant’io posso
Il farò.

Cleopatra.
Via, chi mostra il buon volere,
885
S’anco fallisca, all’indulgenza ha dritto.
Ma, neppur questo. – Ov’è la lenza mia?
Andiamne al fiume; e là, mentre lontano
Udrò soavi consonanze, l’esca
Gitterò a’pesci dalle pinne aurate;
890
E col curvo amo le viscose bocche
Aggrappando, ogni pesce allor parrammi
Un Antonio, e dirò: Sei côlto alfine!

Carmione.
Quanto spasso, quel dì che con Antonio
Su la pesca miglior mettesti pegno!
895
E il navichier die’ un tuffo al fondo, e un salso
Pesce figgea nell’amo suo, ch’ei trasse
Ebbro di gioia!

Cleopatra.
Oh lieti giorni! oh giorni!
Quand’io, ridendo, impazïente il feci:
Poi, la notte venuta, ancor ridendo,
900
Pazïente il rendea: tornato il sole
Sull’ora terza, ebbro al suo letto il diedi;
De’ miei manti e di mie bende il coversi,
L’acciar suo di Filippi a me cingendo.

Entra un MESSO.

Cleopatra.
Oh dall’Italia! – Il mio sterile orecchio
905
Di tue nuove feconde alfin rïempi.

Il Messo.
O regina, regina!

Cleopatra.
Antonio è morto?
Alla regina tua, morte tu dai,
Se il dici, o scelerato. Ma se, invece,
Libero e sano egli è, se tal lo annunzi,
910
Ecco dell’oro, ecco le mie più azzurre
Vene a baciar ti do, questa mia mano
Cui già toccâr labbra di re, stampando
Baci tremanti in essa!

Il Messo.
In pria, t’annunzio
Ch’ei bene sta.

Cleopatra.
Prenditi ancor dell’oro.
915
Ma, nota, amico: dire usiam de’ morti,
Che bene stanno: se tu questo intendi,
L’oro, ch’io ti donai, fuso versarti
Ben saprei nella strozza.

Il Messo.
Odimi, o buona
Regina!

Cleopatra.
Vanne, sì. – Ma il tuo sembiante
920
Nulla impromette: se libero e sano
È Antonio, a che, per acclamar sì liete
Nuove, quel tuo viso sinistro? S’egli
Foss’egro mai; non sotto umana forma,
Ma sì qual furia di serpi chiomata
925
Verresti a me.

Il Messo.
Ti piace udirmi?

Cleopatra.
Pria
Fustigar ti vorrei che udir tua voce.
Ma, se tu di’ che vivo è Antonio e sano,
E di Cesare amico, e non captivo,
Su te versar farei torrenti d’oro
930
E grandine di perle.

Il Messo.
Egli, o regina,
È sano.

Cleopatra.
Oh lieto annunzio!

Il Messo.
E amico sempre
A Cesare.

Cleopatra.
Onest’uom sei tu.

Il Messo.
Son essi
In pace, e uniti più che mai.

Cleopatra.
Fortuna
Qual non attendi, avrai da me.

Il Messo.
Ma pure...

Cleopatra.
935
Questo pure io nol vo’, chè il bel principio
M’offende: questo ma l’abborro; ei parmi
Sgherro, che tragga fuor dal carcer suo
Un nefando ribaldo. – Oh! ti scongiuro,
Tutto il tuo carco, bene e male insieme,
940
Nell’orecchio mi versa. Amico è dunque
Di Cesare, ed in sua piena salute,
E libero, tu dici?

Il Messo.
No, regina,
Libero nol diss’io: legato è desso...
A Ottavia.

Cleopatra.
E per qual mai dover?

Il Messo.
Per quello
945
Del talamo.

Cleopatra.
O Carmïon!... pallida io sono.

Il Messo.
Egli, o regina, ha disposata Ottavia.

Cleopatra.
La più maligna lue su te!

(Battendolo, lo atterra.)

Il Messo.
Signora,
Deh soffri!

Cleopatra.
Che di’ tu? Via, mostro vile!
O ch’io gli occhi ti svelgo, e di lor, come
950
Di palei, mi trastullo; la cervice
(Con violenza scotendolo.)
Ti scortico, o con ferree verghe ignudo
Ti fo qui fustigar, cuocere a lento
Foco, e gittarti, in salamoja.

Il Messo.
O buona,
Regina, se l’annuncio a te recai,
955
Non feci io già il connubio.

Cleopatra.
Che tu menti
Dimmi, e ti dono una provincia intera,
E in alto stato ti sollevo: ammenda
Saran dell’ire che tu in me destavi
Le patite percosse; e quanti doni
960
L’umiltà tua può mendicar, la mia
Larghezza ti darà.

Il Messo.
Regina, il sappi:
Ei s’ammogliò.

Cleopatra.
Ribaldo! e tu vivesti
Già troppo.

(Trae un pugnale.)

Il Messo.
Ch’io mi fugga! – Oh che presumi,
Signora? Io non son reo.

(Fugge.)

Carmione.
Buona regina,
965
Innocente è costui: frena te stessa.

Cleopatra.
V’hanno innocenti, che sfuggir non ponno
Alla folgore. – Il Nil ne’gorghi suoi
L’Egitto inghiotta, e tramutinsi in serpi
Quante son più benigne creature!
970
Quel vil richiama: bench’io sia furente,
Nol morderò. – Ch’ei torni.

Carmione.
Ei troppo teme.

Cleopatra.
Fargli altro mal non vo’: nè queste mani,
A colpir tale che sì basso giace,
Rendansi abbiette: del furor che sento
975
Sola cagion son io.

Ritorna il MESSO.

Cleopatra.
T’accosta, amico.
Chi infauste nuove arreca, onesto il core
Può aver, ma bene non gli torna: a un lieto
Messaggio dona mille lingue, e lascia
Che per sè si propaghi un tristo annuncio,
980
Col colpo istesso che n’atterra.

Il Messo.
Il mio
Dovere adempio.

Cleopatra.
Ammogliato, dicesti?
Odiarti vo’ con l’odio mio peggiore,
Se un sì ripeti.

Il Messo.
Ei s’ammogliò, regina.

Cleopatra.
Oh ti perdano i Numi! ancor persisti?

Il Messo.
985
Mentir dovrei?

Cleopatra.
Perchè, perchè non menti?
Il vorrei! Deh potesse irne sommersa
La metà dell’Egitto, e apparir vasto
Di serpenti squamosi immondo stagno!
Vanne! orrendo il tuo aspetto a me sarìa,
990
Fosse quel di Narciso. – Egli, ammogliato?

Il Messo.
L’alta tua mercè chiedo.

Cleopatra.
Egli, ammogliato?

Il Messo.
Non siati offesa, ch’io non ho, regina,
D’offenderti il pensier: ben parmi iniquo
Che tu m’abbia a punir, se t’obbedisco.
995
Ei si sposò ad Ottavia.

Cleopatra.
Oh se impostore
L’esempio suo fatto t’avesse! – E certo
Dunque sei tu? – Vanne soverchio è il prezzo
Della merce che a me di Roma apporti.
Ch’essa rimanga tua, ch’essa ti perda!

(Il Messo parte.)

Carmione.
1000
Deh torna in calma!

Cleopatra.
Cesare io spregiai,
Laudando Antonio.

Carmione.
Oh quante volte!

Cleopatra.
Ed ora
Io n’ho il compenso. Oh! di qui mi traete...
Mancar mi sento... Ira, Carmion! – Che giova?
Va, buon Alessi, e colui trova: imponi
1005
Che d’Ottavia il sembiante, e gli anni, i modi
Tutti di lei ti dica, e non scordarti
Il color de’ capegli; e tosto riedi
Ogni cosa a ridirmi.
(Alessi parte.)
A lui, per sempre,
Rinunziar deggio? Ah no, Carmion! Se Antonio
1010
D’una Gorgòne ha per me la sembianza,
Ha quella ancor di Marte. –
(A Mardiano.)
E questo ancora
Ad Alessi dirai: ch’io vo’sapere
Com’è la sua statura. O almen tu m’abbi
Pietà, Carmione mia! Ma non far motto,
1015
Ed or vogli alla mia stanza guidarmi.

(Partono.)

SCENA VI

Presso il capo Miseno.
Entrano POMPEO e MENADE dall’un de’lati, al suono di musica guerriera; dall’altro CESARE, LEPIDO, ANTONIO, ENOBARBO, MECENATE, e sèguito di soldati.

Pompeo.
Ostaggi ebb’io da voi: da me n’aveste:
Sostiamo, a ragionar pria della pugna.

Cesare.
Sì, che precedan le parole è giusto:
Ond’è che, per iscritto, i patti nostri
1020
T’abbiam profferti pria: se da te furo
Considerati, di’ s’ei sian bastanti
A disarmarti il malcontento braccio;
E a rinvïar nella Sicilia questa
Ardente gioventù, che qui altrimenti
1025
Dovrà tutta cader.

Pompeo.
Voi tre, che i soli
Senator’ siete di sì vasto impero,
Supremi agenti degl’Iddii, m’udite.
Perchè a mio padre, ch’ebbe amici e un figlio,
Manchi un vendicator nol so: per lui,
1030
Giulio Cesare un dì pugnar vi vide,
Quando, a Filippi, al forte Bruto apparve.
Perchè il pallido Cassio alla congiura
Si mosse? Perchè Bruto, il venerato
Romano onesto, e gli altri de la bella
1035
Libertate amatori, il Campidoglio
Insanguinâro? Ei non patîr che un uomo
Più ch’uomo fosse. – Ecco perch’io raccolsi
Questo navile, al cui pondo l’iroso
Mar sorge spumeggiante, e che mi guida
1040
La sconoscenza a punir, che sul capo
Di mio padre gravò l’ingiusta Roma.

Cesare.
A grado tuo.

Antonio.
Con tutte le tue vele,
Tremar tu non ci fai: darti risposta
Sapremo in mare; in terra, assai più forti
1045
Noi siamo, ben t’è noto.

Pompeo.
In terra, è vero,
Festi tua la magion del padre mio:
Vi resta infin che puoi, come in non suo
Nido il cuculo alberga.

Lepido.
Dir ti piaccia,
(Poi che ciò ne disvia da quell’intento
1050
Che qui ci aduna) come le profferte
Da noi mandate accogli.

Cesare.
Il punto è questo.

Antonio.
Nè già ti pieghi il nostro voto: libra
Quel che meglio convienti.

Cesare.
E quel che darti
Può, in avvenir, sorte più larga.

Pompeo.
Offerta
1055
La Sicilia m’avete e la Sardegna,
Pur ch’io disgombro da’ pirati il mare
Vi faccia, e biade vi tragitti a Roma.
Conchiuso il patto, noi dobbiam partirci,
Senza che il fil s’intacchi a’ nostri ferri,
1060
O si sfregin gli scudi.

Cesare. Antonio. Lepido.
Il patto è questo.

Pompeo.
Sappiate dunque ch’io ne venni a voi,
Com’uom parato ad accettar l’offerta:
Ma impazïente mi fe’ Antonio: – e s’anco
Mi togliesse ogni merto il richiamarlo,
1065
Questo io dirò: che quando i tuoi fratelli
(Ad Antonio.)
Con Cesare fean guerra, alla Sicilia
Venne tua madre, ed accoglienza amica
V’ebbe.

Antonio.
Il seppi, Pompeo: quella or ti rendo
Mercè più liberal che ti è dovuta.

Pompeo.
1070
La tua man dammi. Io non avea pensiero
Di qui trovarti.

Antonio.
In Orïente i letti
Han molli piume. A te sien grazie dunque,
Che m’hai qui richiamato, innanzi l’ora
Ch’io disegnava. E n’ho buon conto.

Cesare.
Parmi,
1075
Dopo che te vid’io l’ultima volta,
Che mutato sii tu.

Pompeo.
Non do quali orme
Sul viso mi stampò l’aspra fortuna.
Ma il mio petto occupar non potrà mai,
Per far suo servo il core.

Lepido.
Avventuroso
1080
È il nostro incontro!

Pompeo.
Lepido, io lo spero. –
Noi siam dunque concordi: ora, che il patto
Sia per noi scritto e suggellato importa.

Cesare.
Sì, questo pria di tutto.

Pompeo.
Qui, a banchetto
Innanzi di partir, seggiamo insieme:
1085
E chi primier conviterà, decida
La sorte.

Antonio.
Io sarò il primo.

Pompeo.
No, la sorte
Elegga: ma sii tu l’ultimo o il primo,
Certo l’egizia tua cucina, o Antonio,
Avrà trionfo. Udii che Giulio Cesare,
1090
Banchettando laggiù, s’era impinguato.

Antonio.
Ed altro udisti pur.

Pompeo.
Non ho, signore,
Mal pensier.

Antonio.
Nè parole altro che buone.

Pompeo.
Ripeto quel che udii. – Del par, fu detto
Che Apollodoro allor portasse...

Enobarbo.
Basta:
1095
Sì, lo fece.

Pompeo.
Che mai?

Enobarbo.
Certa regina
A Cesare ei portò dentro a un piumaccio.

Pompeo.
(A Enobarbo.)
Or ti ravviso. – Come stai, soldato?

Enobarbo.
Bene, nè muterò, cred’io: che veggò
Starmi dinanzi ben quatro banchetti.

Pompeo.
1100
Ch’io la mano ti stringa: mai non ebbi
Odio vêr te; pugnar t’ho visto, e invidia
Il tuo valor mi fe’.

Enobarbo.
Di molto amato
Io non t’ho mai; ma quando fu il tuo merto
Dieci volte maggior della mia laude,
1105
Ben ti laudai.

Pompeo.
Di tua franca ed aperta
Parola godi: ben ti sta. Al convito
Sulla mia nave io t’attendo. – Vi piace
Precedermi?

Cesare. Antonio. Lepido.
Appo te verremo.

Pompeo.
Andiamo.

(Partono Pompeo, Cesare, Antonio, Lepido, Soldati e seguito.)

Menade.
Fra sè. Tuo padre Pompeo non avrebbe accolto giammai un tal patto. (Ad Enobarbo.) E noi pure ci siam conosciuti.

Enobarbo.
In mare, io credo.

Menade.
Appunto.

Enobarbo.
E in mare tu compiesti grandi fatti.

Menade.
Come tu in terra.

Enobarbo.
Chi a me dà laude anch’io laudo: onde non neguerò quanto oprai in terra.

Menade.
Nè io quanto feci sul mare.

Enobarbo.
Ma pure, v’è cosa che, per tua sicurtà, ti giova negare. Tu fosti un gran ladrone in mare.

Menade.
E tu in terra.

Enobarbo.
Or bene, rifiuto le imprese mie. Dammi la destra, Menade. Se gli occhi tuoi n’avessero il potere, vedrebbero due ladri in un amplesso.

Menade.
Per quanto sappia far con la mano, mai l’uomo non mente col viso.

Enobarbo.
Invece, non v’ha bella donna, il cui viso non menta.

Menade.
E non è calunnia: esse furano i cuori.

Enobarbo.
Noi siam qui venuti per farvi guerra.

Menade.
Per me, ho cruccio che tutto finisca nel cioncare. Pompeo, ridendo, perde la sua fortuna.

Enobarbo.
Se quest’è, di certo, non potrà racquistarla col pianto.

Menade.
Tu l’hai detto. Non era nostro pensiero di trovar qui Antonio. Ma dimmi, è egli marito a Cleopatra?

Enobarbo.
La sorella di Cesare ha nome Ottavia.

Menade.
Sì; dessa fu moglie di Cajo Marcello.

Enobarbo.
Ma ora è sposa di Marc’Antonio.

Menade.
Che dici?

Enobarbo.
Il vero.

Menade.
Dunque egli e Cesare sono per sempre uniti.

Enobarbo.
S’io dovessi profetare di cotesto nodo, così non direi.

Menade.
Più che l’amore, io credo, valse politica ragione in tale connubio.

Enobarbo.
Anch’io il credo: ma questo, che parrebe nodo dell’amistà loro, sarà ben presto il laccio che la strozzi. Ottavia ha modi austeri, gelidi e pacati.

Menade.
Chi non vorrebbe aver donna che la somigli?

Enobarbo.
Chi non sia tale anch’esso: e questi è Antonio. Egli di nuovo gusterà quell’esca egizia: indi i sospiri d’Ottavia saranno fiamma al furore di Cesare; e, come prima ti dissi, ciò che dovrebbe far gagliarda l’a mistà, sarà cagione di loro scissura. Antonio lascierà gli affetti suoi dove li pose, poichè, qui, solo l’occasione lo fe’ marito.

Menade.
E sia: andiamo. Vieni alla nave? voglio vuotare una coppa per te.

Enobarbo.
Ti saprò tener fronte: chè le nostre gole, laggiù in Egitto, furono bene avvezze.

Menade.
Non più, andiamo.

(Partono.)

SCENA VII.

Sulla nave di Pompeo, presso il capo Miseno.
– Suono di musica. –
Entrano due o tre SERVI apprestando un convito.

1º Servo.
Amici, eccoli, vengono! E già a parecchi di loro vacilla il calcagno; il più leve soffio basterebbe a gittarli a terra.

2º Servo.
Lepido ha il viso di fiamma.

1º Servo.
Gli hanno fatto tracannare gli scoli delle loro coppe.

2º Servo.
Quando fanno tra loro a chi più, egli grida agli altri due: Basta! – li mette d’accordo, e si mette ei pure d’accordo col licore.

1º Servo.
Ma intanto, fra il suo senno e lui, cresce la discordia.

2º Servo.
E così succede a chi cerca fama in compagnia de’ grandi. Vorrei piuttosto pallegiare una cannuccia che un’asta di cui non so valermi.

1º Servo.
Esser locato in alta sfera e non far nulla, gli è come non aver gli occhi ma le loro caverne, che fanno miserando il viso.

– Squilli di trombe. –
Entrano CESARE, ANTONIO, POMPEO, LEPIDO, AGRIPPA, MECENATE, ENOBARBO, MENADE e altri capitani.

Antonio.
(A Cesare.)
È questo il modo lor: l’acque crescenti
1110
Misurano del Nil, su certa scala
Sculta nella piramide: ond’ei sannno,
Per lo segnal più alto, o basso, o medio,
Se ne verrà penuria od abbondanza.
Più cresce il fiume, e più promette: appena
1115
Il flutto si ritrae, sparge il cultore
Entro al limo il suo gran, che poi diventa
Messe in breve stagione.

Lepido.
E mostruosi
Serpi là son.

Antonio.
Sì, Lepido.

Lepido.
E il tuo serpe d’Egitto così nasce dal tuo fango, per forza del tuo sole; e, del pari, nasce il tuo cocodrillo.

Antonio.
È vero.

Pompeo.
Sedete, e si rechi altro vino. A Lepido si beva.

Lepido.
Non mi sento così bene, come dovrei, ma il mio senno io l’ho.

Enobarbo.
Ti tornerà, quand’abbi ben dormito; intanto dov’esso n’andò tu nol sai.

Lepido.
Per fermo, udii che le piramidi di Tolomeo sono stupende cose: senza dubbio, l’udii dire.

Menade.
A parte.
Pompeo,
M’ascolta.

Pompeo.
Qui, l’orecchio. Che vuoi?

Menade.
A parte.
Lascia,
1120
O duce il seggio: odi un mio detto.

Pompeo.
Un breve
Istante, sol che a Lepido io propini.

Lepido.
Che sorta di animale è il vostro cocodrillo?

Antonio.
È fatto appunto come un cocodrillo; largo quant’ha di larghezza, alto della sua altezza precisa, si move quanto glielo consente la sua struttura, e vive di ciò che lo nutre: quando poi gli elementi di che è fatto si sfanno, e’trasmigra.

Lepido.
E il colore?

Antonio.
Il suo proprio.

Lepido.
Oh lo strano mostro!

Antonio.
È vero; e versa umido pianto.

Cesare.
(Ad Antonio. ) Sarà egli pago di cotesta pittura?

Antonio.
Sì, per gli augurii che Pompeo, bevendo, a lui fa: del resto, è un vero epicureo.

Pompeo.
A parte, a Menade.
Va, maledetto, va! che mai tu dici?
M’obbedisci. – La coppa ch’io richiesi
Ov’è?

Menade.
1125
A parte.
Se udir mi vuoi, per li miei fidi
Servigi, lascia il seggio tuo.

Pompeo.
Sei folle:
Perchè?...

(Sorge, e si ritrae con Menade.)

Menade.
D’innanzi a tua fortuna, sempre
A capo chino io stetti.

Pompeo.
Grande
Fu la tua fede. Or ben? –
(Ai convitati.)
La gioja, o amici
1130
Sia con voi.

Antonio.
Bada, o Lepido, a’sabbioni:
Tu affondi.

Menade.
(A Pompeo. )
Farti vuoi signor del mondo?

Pompeo.
Che dici?

Menade.
Un’altra volta: vuoi tu farti
Signor del mondo?

Pompeo.
Esser può mai?

Menade.
Consenti:
1135
Ed io, benchè tapin, sarò colui
Che tutto il mondo a te darà.

Pompeo.
Soverchio
Non bevesti?

Menade.
No, no, Pompeo: lontano
Dalla coppa mi tenni. Esser tu puoi
Giove terreno, se l’ardisci; e quanto
1140
Abbraccia il cielo e l’oceàn misura,
Se lo vuoi, tutto è tuo.

Pompeo.
Come mai? dillo.

Menade.
Vedi, questi triumviri: costoro,
Ch’hanno tra los partito il mondo, or sono
Sulla tua nave: a me troncar consenti
1145
La gomena; e venuti in alto, ad essi
Tronchiam le gole... ed ogni cosa è tua.

Pompeo.
Ah! questo far dovevi, e non dir motto.
In me sarìa viltade; in te non era
Ch’util servigio. Che il mio proprio bene
1150
Non guida l’onor mio, ma n’è guidato,
Saper dovevi. Pèntiti, che l’opra
N’andò tradita dalla lingua tua:
Ignota a me, l’avrei laudata; or deggio
Dannarla. – Smetti il tuo pensiero, e bevi.

Menade.
1155
Da sè.
Bene sta: la caduca tua fortuna
Non seguirò. Chi cerca, indi rifiuta
Quanto a lui s’offe, più nol trova.

Pompeo.
A Lepido
Si beva!

Antonio.
In sulla piaggia ei sia recato...
Pompeo, per lui rispondo io stesso.

Enobarbo.
Mènade.
1160
A te pur!

Menade.
Sì, Enobarbo, e di buon grado.

Pompeo.
Versa, fin che trabocchi.

(Mostrando lo schiavo, che porta via Lepido.)

Enobarbo.
In ver, costui,
O Menade, è gagliardo.

Menade.
E perchè?

Enobarbo.
Un terzo
Del mondo ei porta; nol vedi?

Menade.
Brïaco
Dunque è un terzo del mondo: ove tal fosse
1165
Il mondo tutto, a rotoloni andrebbe
Ben meglio.

Enobarbo.
Bevi, e tu spingi le rote.

Menade.
Orsù!

Pompeo.
(Ad Ant.)
Ma questa non pareggia ancora
D’Alessandria le feste.

Antonio.
Ella n’è presso...
1170
Tocchiamo i nappi, olà! beviamo a Cesare!

Cesare.
Smetter vorrei: fatica mostruosa
Quest’è, ch’io lavi il mio cerèbro, solo
Per farmelo più torbo.

Antonio.
Or via, sii figlio
Dell’occasion.

Cesare.
L’acciuffa tu: prometto
1175
Venirti a paro; ma vorrei digiuno
Star quattro dì, pittosto che in un solo
Tracannar tanto!

Enobarbo.
Oh prode imperatore!
(Ad Antonio.)
Danziam l’egizio baccanale, e sia
La corona dell’orgia.

Pompeo.
Di buon grado.
1180
Prode soldato!

Antonio.
S’intreccin le mani,
Fin che il succo del grappo i nostri sensi
Vinca, e su lor difonda il molle obblìo.

Enobarbo.
Sì, le mani intrecciam: suoni agli orecchi
Echeggiante armonia. Segnar vo’intanto
1185
Il suo loco a ciascun; poi quel fanciullo
La canzone incominci; e tutti in coro,
Quanto il consenta il valido polmone,
Alto ne ridiran la consonanza.

(Suono di musica. Enobarbo dispone i convitati, colle mani intrecciate.)
CANTO.

Ragazzo.
– Su! vieni, o Libero, signor del vino,
1190
Dall’occhio splendido, più che rubino:
Nelle tue coppe gli affanni muojano,
Ed i tuoi grappoli le fronti adornino.
– Su, vieni a mescere! Su, mesci a tondo,
Fin che rotando cammina il mondo.

Cesare.
1195
Di più, che vuoi? – Lieta ti sia la notte,
Pompeo. – Lascia, o fratel, ch’io t’accompagni:
Di tanta levità le nostre gravi
Cure han dispetto. – Separiamci, amici:
Qui il vede ognun, le gote abbiam di fiamma;
1200
Ed Enobarbo, quel gagliardo, è anch’esso
Dal vin, fiaccato; ciò che la mia lingua
Dir vuol, balbetta; e tramutati quasi
N’ha quest’orgia sfrenata! – A che più dunque
Discorriam? – Buona notte! la tua destra,
1205
Antonio, dammi.

Pompeo.
Io vo’ fino alla spiaggia
Esservi scorta.

Antonio.
Bene sta: la mano
Porgimi.

Pompeo.
La magion del padre mio,
O Antonio, tua facesti... ma che giova?
Amici siam. – Scendiamo entro il battello.

Enobarbo.
1210
Bada di non cader.
(Partono Pompeo, Antonio, Cesare e seguito.)
Menade, a terra
Io non andrò.

Menade.
No, vieni alla mia stanza.
Olà, tamburi e trombe e suon di flauti!
Ed ascolti Nettuno il fragoroso
Nostro vale’ compagni. – Orsù, ribaldi,
1215
Sonate alto, sonate.

(Suono di trombe e di tamburi.)

Enobarbo.
Il mio berretto
Vedete, o voi laggiù?

Menade.
Mio duce, andiamo.

(Partono.)

Atto III

SCENA I.

Una pianura nella Siria.
Entrano VENTIDIO, in atto di vincitore, SILIO con altri Romani uffiziali e soldati: dinanzi a Ventidio è recato il corpo di PACORO, figlio del re de’ Parti.

Ventidio.
Terra de’ Parti arcieri, eccoti doma.
Della morte di Crasso or me Fortuna
Fece vendicator. – Recate voi
1220
Delle schiere al cospetto questa salma
Del regal figlio. – Orode, il tuo Pacoro
Solva il debito a noi per Marco Crasso.

Silio.
Nobil Ventidio, mentre ancor del clado
Partico sangue gronda il ferro tuo,
1225
Insegui i fuggitivi; in Media sprona
Ed in Mesopotamia, e ovunque un covo
S’apra ai vinti. Il tuo duce, il grande Antonio,
Sul carro trïonfal t’addurrà seco,
E di corone t’ornerà la fronte.

Ventidio.
1230
Silio, Silio! Abbastanza io feci. Avverti,
Chi in basso sta può far troppo grande opra.
O Silio, avverti ben: giacersi inerti
Meglio è che conquistar soverchia fama,
Quando colui, che noi serviamo, è assente.
1235
Vittorïosi fur Cesare e Antonio,
Pei duci lor, ben più che per sè stessi:
E Sossio, ch’era già locotenente
D’Antonio, in Siria, per rapido eccesso
Di fama che ad ogn’ora iva crescendo,
1240
Il suo favor perdè. Colui che, in guerra,
Sa oprar più che non possa il duce suo,
Duce diventa del suo duce; e quella
Ambizïon, ch’è del guerrier virtude,
Più d’un trionfo che offuscarla deve,
1245
Ha cara una sconfitta. Ed io potrei
Meglio Antonio giovar; ma l’opra mia
Offesa gli parrebbe, e in questa offesa
N’andrian perdute le mie geste.

Silio.
I pregi
Hai tu, Ventidio, senza cui dal suo
1250
Ferro un soldato si discerne appena.
Dimmi, ad Antonio scriverai?

Ventidio.
Vo’dirgli,
Umilemente, quanto nel suo nome,
Magico a noi grido di guerra, oprammo;
Come, co’suoi stendardi e con le schiere
1255
Bene assoldate, abbiam fugato in campo
Il cavallo de’ Parti, invitto pria.

Silio.
Or dov’è esso?

Ventidio.
Verso Atene move.
Là ci affrettiamo, quanto a noi consente
Il carco del bottin, per incontrarlo. –
1260
Orsù, in cammino.

(Partono.)

SCENA II.

Roma. – Nel palagio di Cesare.
Entrano AGRIPPA, da un lato, dall’altro ENOBARBO.

Agrippa.
E già i colleghi adunque
Si separâr?

Enobarbo.
Pompeo, fermato appena
Il patto, si partìa: del lor sigillo
I tre l’hanno munito; Ottavia piange
Di lasciar Roma; fatto mesto è Cesare;
1265
E Lepido, così Menade afferma,
Dopo il convito di Pompeo, s’accascia
E ha l’umor nero.

Agrippa.
Affè, quel degno Lepido!

Enobarbo.
Nobile spirto! E quanto affetto ei serba
A Cesare!

Agrippa.
Nè manco adora Antonio.

Enobarbo.
1270
Cesare? È il Giove de’mortali.

Agrippa.
E Antonio?
È il dio di Giove.

Enobarbo.
Di Cesare parli?
Incomparabil è.

Agrippa.
D’Antonio? È desso
Un’araba fenice.

Enobarbo.
Se dar lode
A Cesare tu vuoi, lo noma, e basta.

Agrippa.
1275
Prodigo ad ambo egli è di laudi immense.

Enobarbo.
Ama Cesare più; pur ama Antonio.
Nè cor, nè lingua v’ha, nè v’ha figura
O scriba o vate che pensar, che dire
Sappia, o estimar con cifre o canti, il grande
1280
Amor ch’ei nutre per Antonio. Eppure,
Di Cesare si parla? A terra, a terra,
E devoti ammirate.

Agrippa.
Entrambi egli ama.

Enobarbo.
L’ale son essi, ed ei lo scarabeo.
Dunque...

(Squillo di tromba.)

Agrippa.
È questo il richiamo. – Agrippa, vale.

Enobarbo.
1285
Lieta ventura, o buon soldato. – Vale.

Entrano CESARE, ANTONIO, LEPIDO e OTTAVIA.

Antonio.
Non più oltre, signor.

Cesare.
La miglior parte
Di me tu involi. – Se usi bene a lei,
A me l’usi. –
(Ad Ottavia.)
E tu sii tale una sposa
Qual già, o sorella, col pensier ti vidi
1290
Nell’alto segno in cui t’avean locata
Le mie grandi promesse. – Illustre Antonio,
Questo tesoro di virtù, cemento
Del nostro mutuo affetto, e sua colonna,
L’arïete non sia che ne percota
1295
Il saldo muro. Oh! meglio assai che questo
Novo legame al nostro amor fallisse,
Se ad ambo esser non dee sacro del pari.

Antonio.
Con la sfidanza tua non farmi offesa.

Cesare.
Dissi.

Antonio.
Per quanto ad indagar ti sforzi,
1300
La più leve cagion trovar non puoi
Che sia scusa al timor che in te m’appare.
Te veglin dunque i Numi, e de’ romani
Faccian propeso il core a’ tuoi disegni.
Separarci dobbiam.

Cesare.
Sorella amata,
1305
Vale, sì, vale. Fausti gli elementi
Ti sièno, e serbin la tua gioia intera.
Vale!

Ottavia.
Oh nobil fratello!

Cesare.
Essa ha negli occhi
Raggio d’april: d’amore la novella
Stagione è questa, e il pianto, ecco, l’irrora. –
1310
Ti consola.

Ottavia.
Signor, benigni sensi
Abbi alla casa del consorte mio:
E...

Cesare.
Che vuoi dir?

Ottavia.
Te lo dirò in segreto.

(Gli parla a voce sommesa.)

Antonio.
La lingua al cor non obbedisce, e il core
Non può avvivar la lingua sua: somiglia
1315
Alla piuma del cigno, che i marosi
Sornuota al crescer del flutto, nè mai
Da questa parte ovver da quella inchina.

Enobarbo.
(Sottovoce ad Agrippa.)
E che? Cesare piange?

Agrippa.
D’una nube
Velato ha il viso.

Enobarbo.
In lui sarìa vergogna,
1320
Se, non uom fosse, ma cavallo.

Agrippa.
Via!
Enobarbo, quel dì che Antonio vide
Giulio Cesare morto, un grido mise,
Anzi un ruggito; e quel dì che trafitto
Trovò Bruto a Filippi, ei pianse.

Enobarbo.
Un guasto
1325
Umor, quell’anno, a lui dava travaglio;
E si dolse per lor, che volentieri
Vedea caduti. Credi al pianger suo,
Quando anch’io piangerò.

Cesare.
No, dolce Ottavia:
Novelle avrai di me; nè il tempo mai
1330
Volerà innanzi al mio pensier, che sempre
Ti seguirà.

Antonio.
Non più, n’andiam: d’amarla
Noi farem forte gara. Ecco, io t’abbraccio,
Ed or te lascio: t’abbian caro i Numi.

Cesare.
Vale! Felici siate.

Lepido.
Al cammin vostro
1335
Tutti gli astri del ciel splendano amici.

Cesare.
(Baciando Ottavia.)
Vale, sorella, vale.

Antonio.
E voi, valete.

(Squilli di trombe. Partono.)

SCENA III

Alessandria. – Stanza nel palagio di Cleopatra.
Entrano CLEOPATRA, CARMIONE, IRA e ALESSI.

Cleopatra.
Dite, ov’è il messo?

Alessi.
Quasi egli spaura
Di venirte dinanzi.

Cleopatra.
Eh via! Ch’ei venga.

Entra un MESSO.

Alessi.
Buona regina, a te levar gli sguardi
1340
Non osa Erode di Giudea, se tale
Il tuo piacer non sia.

Cleopatra.
Di questo Erode
Il capo io vo’. – Ma come? Antonio, il solo
Cui chiederlo io poteva, io l’ho perduto. –
T’avvicina.

Il Messo.
O sovrana maestosa...

Cleopatra.
1345
Vedesti... Ottavia?

Il Messo.
O temuta reina,
Sì.

Cleopatra.
Dove?

Il Messo.
In Roma. – In viso ben la vidi,
Quando tra suo fratello e Marco Antonio
Movea.

Cleopatra.
Così com’io, della persona
Alta è dessa?

Il Messo.
Non già.

Cleopatra.
Parlar l’udisti?
1350
Ha voce acuta o fioca?

Il Messo.
Io ben l’udii
Parlar: fioca ha la voce.

Cleopatra.
Non è questo
Un pregio: a lungo non potrà piacergli.

Carmione.
Piacergli? oh no, per Iside, giammai!

Cleopatra.
Carmione, il credo ben: muta di voce,
1355
E nana! – E maestosa è nell’incesso?
Lo nota ben, se maestà di aspetto
Notasti mai.

Il Messo.
Ch’ella cammini o posi,
È la stessa; trascinarsi, ed un corpo,
Senza vita, ti appar; statua piuttosto
1360
Che una spirante creatura.

Cleopatra.
È certo?

Il Messo.
È certo, o ch’io veder non so.

Carmione.
L’Egitto
Tre non conta, che veggan più sottile.

Cleopatra.
Costui ben vede, ne vo certa. E in lei
Nulla v’è ancor... Quest’uomo ha retto senso.

Carmione.
1365
Senza pari.

Cleopatra.
Sai tu dirmi qual sia
L’età di lei?

Il Messo.
Vedova ell’era.

Cleopatra.
Udisti,
Carmion?... vedova.

Il Messo.
Ell’ha, cred’io, trent’anni.

Cleopatra.
Il viso suo t’è fisso in mente? è lungo,
O ritondo?

Il Messo.
Ritondo, e di soverchio.

Cleopatra.
1370
Que’ che l’hanno così, scemi son sempre.
E il color de’capegli?

Il Messo.
Bruno; e bassa
La fronte, quenato puoi bramarlo.

Cleopatra.
Prendi
Dell’oro. Tu non dêi far mal pensiero
Del primo impeto mio: vo’ rinvïarti
1375
Con messaggi: all’officio acconcio sei:
Va, ti spaccia: le lettere son pronte.

(Il Messo parte.)

Carmione.
È un uom di vaglia.

Cleopatra.
È vero; ed io mi pento
Ch’aspra gli fui. Se deggio avergli fede,
Non è colei cosa sublime.

Carmione.
È nulla.

Cleopatra.
1380
Quest’uom, cred’io, la maestà ravvisa.

Carmione.
S’ei la ravvisa? Iside buona, al tuo
Servigio ei fu sì a lungo.

Cleopatra.
Altro dovrei
Chiedergli, o mia Carmion. Ma via, non giova.
A scrivere m’affretto; e là, di nuovo
1385
Tu devi a me guidarlo. Uscir può tutto
A lieto fin.

Carmione.
Regina, io ten dò fede.

(Partono.)

SCENA IV.

Atene. – Stanza nella casa d’Antonio.
Entrano ANTONIO e OTTAVIA.

Antonio.
Nè questo, Ottavia, nè sol questo – ond’io
Potrei, siccome d’altre molte offese
Pari a questa, scusarlo, – ma di novo
1390
A Pompeo ruppe guerra, e dettar volle
Il testamento suo, di cui lettura
In pubblico egli fece: e di me appena
V’è un motto: quando a forza gli convenne
Nomarmi per onor, freddo e ritroso
1395
Mi ricordò, con la più parca e angusta
Misura dell’encomio: e quando venne,
Mai non ne colse il destro, o il fe’ soltanto
Al fior di labbra.

Ottavia.
Non dar fè, signore,
A questo; o, se così pensar tu dêi,
1400
No ti sdegnar: di tutte l’altre donne
La più misera io son, se tal discordia
Tra voi si fa. Fra le due parti avverse
Pendere, e per entrambe alzar preghiera!
M’avranno a scherno i santi Numi, ov’io:
1405
Siate propizii al mio sposo e signore,
A lor dica; e, troncando a mezzo il voto,
Oh benedite il fratel mio! pur gridi.
Fausti all’un, fausti all’altro, ahi! questo voto
Distrugge quello; nè v’ha mezzo alcuno
1410
Fra tali estremi.

Antonio.
Eleggi, o dolce Ottavia,
Con giusto affetto quella parte, a cui
Inchinar più ti giova. Se, perduto
L’onor, me stesso io perdo, è miglior sorte
Non esser tuo, ch’esserlo abbietto. Pure,
1415
Come tu chiedi, fra noi due puoi farti
Conciliatrice. Intanto io vo’ la guerra
Apparecchiar che il tuo fratello abbassi.
Affretta l’opra tua, perchè si compia
Quel che brami.

Ottavia.
Sien grazie a te, signore.
1420
Voglia Giove così ch’io, debil donna,
Ahi! debil tanto, vi rimetta in pace!
La guerra fra voi due sarebbe come
S’aprisse il mondo, e colmar tale abisso
Dovessero gli uccisi.

Antonio.
Ove a te noto
1425
Di tal sciagura sia l’autor, rivolgi
Contro a quello il tuo cruccio: i falli nostri
Non son pari così, che fra lor penda
Incerto l’amor tuo. Vanne, ed appresta
La dipartenza; i tuoi seguaci eleggi;
1430
E quanto giova a tuo talento imponi.

(Partono.)

SCENA V.

Atene. – Un’altra stanza nella stessa casa.
Entrano ENOBARBO ed ERO, da opposta parte.

Enobarbo.
Or bene amico Ero?

Ero.
Strane novelle, signore.

Enobarbo.
Che mai?

Ero.
Cesare e Lepido fanno guerra a Pompeo.

Enobarbo.
Vecchia istoria. E che n’avvenne?

Ero.
Cesare, poi che seppe valersi di Lepido contro a Pompeo, ora lo rinnega per compagno suo, nè vuole ch’egli abbia parte nell’onor dell’impresa; anzi, non pago, a lui dà colpa d’aver prima mandate a Pompeo segrete note; quindi, su tale accusa, lo fa prigione. Così il tapino triumviro fu messo all’ombra, fino a che morte lo faccia uscir di bando.

Enobarbo.
Non ti restano più che due mascelle,
O mondo. Ed or, per quanta esca lor gitti
A maciullar, digrigneranno i denti
L’un contro l’altro. Antonio ov’è?

Ero.
Passeggia
1435
Nel giardino, così, troncando il giunco
Ch’e’ si vede dinanzi, e grida: Oh stolto
Quel Lepido!... e la strozza segar vuole
Al duce che assassin fu di Pompeo.

Enobarbo.
Il nostro gran navile è pronto.

Ero.
E move
1440
Contro l’Italia e Cesare. M’ascolta,
Domizio: il mio signor t’attende; e in altra
Ora darti io dovea queste novelle.

Enobarbo.
Per un nulla sarà: non giova. Andiamo,
Ad Antonio mi guida.

Ero.
Orsù, mi segui.

SCENA VI.

Roma. – Stanza nel palagio di Cesare.
Entrano CESARE, AGRIPPA e MECENATE.

Cesare.
1445
Di Roma in onta, tutto questo ei fece,
E più ancora. – Ciò avvenne, al suo costume,
In Alessandria. In mezzo al foro, ei stesso
E Clëopatra, in seggi d’oro assisi
Come in trono, accogliean pubblico omaggio
1450
Dall’argentea tribuna: era a’lor piedi
Cesarïon, che figlio al padre mio
Nomano, e dopo lui quanti bastardi
In lor lascivia han generati. Ei diede
D’Egitto le provincie a Clëopatra,
1455
E sovrana assoluta della bassa
Siria la fe’, di Cipro e della Lidia.

Mecenate.
E questo, a tutti in faccia?

Cesare.
Sì, nel marzio
Campo, dove s’addestrano le schiere.
E re dei re nomando i figli suoi,
1460
La gran Media donò, l’Armenia e i Parti
Ad Alessanndro; a Tolomeo la Siria
Con la Cilicia e la Fenicia. Ed essa,
La regina, vestita apparve come
La diva Iside: accôrre in tale ammanto
1465
Chi a lei venìa sovente usò.

Mecenate.
Che Roma
Il sappia.

Agrippa.
E di cotal protervia sua
Roma già sazia, gli torrà ben tosto
Ogni affetto.

Cesare.
Già tutto il popol seppe,
E udì l’accusa sua.

Agrippa.
Chi accusa ei dunque?

Cesare.
1470
Cesare – perchè tolta la Sicilia
Al figliuol di Pompeo, non gliene cesse
La parte sua; soggiunge ch’ei mandommi
Certe navi in ajuto, a lui non rese:
Move querela infin, perchè deposto
1475
Fu Lepido trïumviro, e serbato
Tutto il reddito suo siccome nostro.

Agrippa.
E risponder tu devi.

Cesare.
Il feci: e il messo
È già in cammino. Dissi lor che Lepido,
Abusando il poter, troppo crudele
1480
S’è fatto, e meritò la sua caduta:
Che parte cedo a lui de’ miei conquisti,
Pur che d’Armenia a me, come degli altri
Regni ch’egli occupò, serbi una parte.

Mecenate.
Non ei consentirà.

Cesare.
Nè fia ch’io ceda.

Entra OTTAVIA.

Ottavia.
1485
Salve, o Cesare: o mio Cesare Salve!

Cesare.
Nomarti ripudiata io dovea dunque?

Ottavia.
Così giammai non mi nomasti, e alcuna
Cagion non n’hai.

Cesare.
Perchè giunger ti miro
Inavvertita? Tu non vieni, come
1490
La sorella di Cesare: a sua scorta,
Un esercito aver dovria la sposa
D’Antonio, e di corsieri alto nitrito
Annunziarla da lunge; e d’aspettanti
Gli arbori del cammino apparir carchi;
1495
E, per l’indugio in aspettar, gli accorsi
Languire; e fino al ciel nembi di polve
Dietro al corteggio popolar levarsi.
E a Roma or giungi tu, come al mercato
Femmina della plebe, e in noi previeni
1500
L’accoglienze d’amor, che, non palese,
Spesso vien manco. Per terra e per mare
Noi venuti saremmo ad incontrarti,
Porgendo ad ogni sosta un novo omaggio.

Ottavia.
Costretta a te non torno; il mio volere
1505
Libera, o mio signor, qui mi conclusse.
Marc’Antonio, in udir che a nova guerra
T’apparecchi, all’afflitto orecchio mio
Recò tal nuova: ond’io di qui tornarne
Grazia gli chiesi.

Cesare.
E tosto ei la concesse;
1510
Poichè se’ tu, fra sue lascivie e lui,
Un inciampo.

Ottavia.
Oh, non dir così!

Cesare.
Ben fissi
Ho gli occhi in esso; ed il vento mi porta
D’ogni atto suo l’annuncio. Ov’è, tu il sai?

Ottavia.
In Atene, signor.

Cesare.
Non già, oltraggiata
1515
Sorella mia! Lo richiamò d’un cenno
Clëopatra. Egli die’ l’impero suo
Ad una prostituta: ed ambo all’armi
Tutti i re della terra or van chiamando
Bocco, signor di Libia, ed Archelao
1520
Di Cappadocia; Filadelfo il rege
Di Paflagonia, e quel di Tracia Adalla
Egli raccolse; e Marco il re d’Arabia,
E il re del Ponto; Erode di Giudea,
E Mitridate re di Comagene,
1525
Il re di Medìa e quel di Licaonia,
Polemone ed Aminta; e d’altri scettri
Schiera più lunga.

Ottavia.
Ohimè! misera donna,
Che ha il cor diviso fra’ suoi due congiunti
Onde l’un l’altro preme.

Cesare.
Benvenuta
1530
Sii tu. Con le tue lettere indugiasti
Tal discordia, finchè su te versato
Non vidi il vitupero, e della nostra
Incuria il danno. Or l’animo rintègra,
Nè ti conturbi la stagion che tanto
1535
Cumulo di sventure erge sul tuo
Primo contento, e lascia che l’immoto
Destin conduca per sua via le cose.
O tu, a me cara tanto, benvenuta
In Roma or vieni. Oltre ogni umana idea,
1540
Tradita fosti; e noi , del par che tutti
Cui diletta sei tu, di lor giustizia
Ministri fanno i sommi Iddii. T’allieta,
E il tuo venir sia fausto sempre.

Agrippa.
Salve,
Signora nostra.

Mecenate.
Ottavia, salve! In Roma
1545
Ogni cor t’ama e a te compiange: solo
Quell’adultero Antonio, ne’ suoi ciechi
Abbominandi eccessi, or ti rinnega,
E ad una druda il suo poter concede,
Che contro noi sorge e minaccia.

Ottavia.
È vero?

Cesare.
1550
Nulla più certo. – Ben qui giunga: oh serba
La pazïenza tua, sorella amata.

(Partono.)

SCENA VII.

Il campo d’Antonio, presso il promontorio d’Azio.
Entrano CLEOPATRA ed ENOBARBO.

Cleopatra.
Che mi soverchi tu? Giammai.

Enobarbo.
Ma come?
Perchè? Perchè?

Cleopatra.
Di teco unirmi in questa
Guerra m’hai divietato, e inopportuno
1555
Lo dicesti.

Enobarbo.
E che sia, che sia tu credi?

Cleopatra.
Tal non è forse? Fu intimitata a noi;
Ed esser qui non devo io stessa?

Enobarbo.
(In disparte.)
Farti
Risposta ben saprei. – Se in campo usciamo
Con cavalli e giumente in una, è certo
1560
Che i cavalli sarian come perduti:
Soma sarian del paro alle giumente
Fanti e cavalli.

Cleopatra.
Che di’ tu?

Enobarbo.
Restando,
Poni inciampo ad Antonio; e dal suo core,
Dal suo senno, dal tempo a lui concesso,
1565
Quel ch’ei gittar non può, rapisci. Accusa
D’uom lieve già gli è data; e Roma dice
Che l’eunuco Fotino e le tue donne
Guidan l’impresa.

Cleopatra.
Crolli Roma, e tutte
Peran le lingue contro a noi vibranti!
1570
Di questa guerra il pondo anch’io sopporto;
E, di mie terre reggitrice, or voglio
Qui, com’uom, apparir. Non più contrasto:
Io non m’arretro.

Enobarbo.
Ho detto: ecco s’avanza
L’imperator.

Entrano ANTONIO e CANIDIO.

Antonio.
Canidio, ch’ei, sì ratto
1575
Da Taranto e da Brindisi movendo,
Solchi l’ionio mar, Taurina occùpi,
Strano non è? –
(A Cleopatra.)
L’udisti, o mia diletta?

Cleopatra.
Pronta opra non è mai tanto ammirata
Che da ozïoso spirto.

Antonio.
Argutto motto,
1580
Che al meglio accorto onor farebbe, e punge
La noncuranza mia. – Canidio, in mare
Afrontar lo vogliamo.

Cleopatra.
Ove il potresti,
Se non in mar?

Canidio.
Perchè così decidi?

Antonio.
Perchè sfidarci egli osa.

Enobarbo.
E lui, del paro,
1585
A pugna singolar tu disfidasti.

Canidio.
Campal battaglia, a Farsalo, gli offrivi,
Dove Cesare a fronte ebbe Pompeo:
Ma non utile a lui parve l’invito,
E nol tenne. Tu pur, rifiuta il suo.

Enobarbo.
1590
Non è ben rifornito il tuo navile:
Mulattieri, coloni a forza accolti,
Ne son la ciurma. Marinai, che contro
Pompeo pugnâr, di Cesare han le navi:
Le sue rapide e pronte, e , per gran mole,
1595
Lente le tue; se in mar nieghi affrontarlo,
Onta non hai, mentre lo attendi in terra.

Antonio.
In mare, in mar!

Enobarbo.
Così, il vigor securo
Che in terra han le tue schiere andrà perduto;
E l’esercito tuo, che d’agguerriti
1600
Fanti ha gran nerbo, così tu dividi;
E quell’esperta tua guerriera mente
Lasci inerte; così del buon successo
Perdi le vie, gittando ogni più ferma
Certezza in man del caso e del periglio

Antonio.
1605
In mar combatterò.

Cleopatra.
Sessanta vele
Io m’ho ancor; nè può Cesare vantarne
Di migliori.

Antonio.
Arderò del mio navile
Tutto il soverchio; e, con quanto rimane
Bene armato, saprem dal capo d’Azio
1610
Cesare rincacciar, dove s’appressi:
Se mal rïesca, sosterremo in terra
Lo scontro.

Entra un MESSAGGERO.

Antonio.
O tu che rechi?

Il Messo.
Grave e vera
Novella: in vista è l’inimico; Cesare
Prese Taurina.

Antonio.
Che di’ tu? egli stesso?
1615
Ch’ei già in Taurina sia con le sue schiere,
Esser non può. – Camidio, delle nostre
Diecinove legioni e de’ cavalli
A te il comando. Noi saliam la nave. –
Vien, mia Teti. –
(A Cleopatra.)
Entra un SOLDATO.
Qual rechi annunzio, o prode?

Il Soldato.
1620
Illustre imperator, non affidarti
Su impuditri legni ad uno scontro
Sul mare. – A questo ferr, a queste mie
Ferite credi tu? Fenicj, egizii
Diguazzar lascia: noi pugnam, vinciamo,
1625
Il terren conquistando a passo a passo.

Antonio.
N’andiam, non più.

(Partono Antonio, Cleopatra ed Enobarbo.)

Il Soldato.
Per Ercole, io non fallo.

Canidio.
Soldato, il ver tu di’; ma l’opra sua
Al voler non risponde. Altri conduce
Il duce nostro; e qui, noi siam guerrieri
1630
Di femmine.

Il Soldato.
Al tuo cenno non son tutte
Le legioni e i cavalli?

Canidio.
Marco Ottavio,
E Publicola e Celio, e Marco Giustio
Comandano sul mar: noi tutte quante
Le milizie di terra. Una venuta
1635
Di Cesare sì pronta, ogni credenza
Soverchia.

Il Soldato.
Quando in Roma ei stava ancora,
Le sue forze, a manipoli inviate,
Tutti ingannâr gli esploratori.

Canidio.
E noto
T’è il suo locotenente?

Il Soldato.
Un che si noma
1640
Tauro, cred’io.

Canidio.
Ben io costui conosco.

Entra un MESSAGIERO.

Il Messag.
L’imperator Canidio attende.

Canidio.
Il tempo
Gravido è d’alti fatti; nè minuto
Passa, senza che alcun non sia maturo.

(Partono.)

SCENA VIII

La pianura vicino ad Azio.
Entrano CESARE, TAURO, uffiziali ed altri.

Cesare.
Tauro.

Tauro.
Signor!

Cesare.
Non avanzarti in terra:
1645
Le tue posse raccogli, e in campo aperto
Non scender, pria che la naval battaglia
Non sia finita: nè per te si ecceda
Il cenno ch’è qui scritto. – Da un supremo
Cimento pende la fortuna nostra.

Entrano ANTONIO ed ENOBARBO.

Antonio.
1650
Da quel lato del colle sian locate,
De le forze di Cesare a riscontro,
Le nostre squadre: numerar le navi
Di là potremo, e oprar qual più ne torni.

(Partono.)
Entra CANIDIO, conducendo l’esercito di terra, da una parte della scena: dall’altra Tauro, con le milizie di Cesare. Dopo il passagio di queste, s’ode lo strepito di una battaglia navale.
Squilli di trombe. – Ritorna ENOBARBO.

Enobarbo.
Tutto perduto!... ahi tutto, tutto! A tale
1655
Vista non reggo: rivolta la prora,
L’Antonïade, l’egizia capitana,
Fugge con ben sessanta vele: ed io
Cieco divenni nel mirarle.

Entra SCARO.

Scaro.
O Numi,
O Dive! o sacro Olimpo!

Enobarbo.
Un tale affanno
1660
Ond’è mai?

Scaro.
Della terra andò perduta
La miglior parte, per l’inerzia nostra:
De’ baci a noi rapîr provincie e regni.

Enobarbo.
Qual è l’aspetto della pugna?

Scaro.
Ahi! mostra
Dal nostro lato pestilenti impronte,
1665
Nunzie di morte: divori la lebbra
Questa laida giumenta dell’Egitto!
Allor che, in mezzo della mischia, eguali
Pendean le sorti, a paro di gemelle,
E più adulta parea la nostra – a un tratto,
1670
Qual da estivo tafano una giovenca
Ferita, al vento apre le vele e fugge.

Enobarbo.
Ben lo vidi; e le mie pupille, inferme
A cotal vista, non potean più a lungo
Sostenerla.

Scaro.
Ebbe appena il timon vôlto,
1675
Che, delle sue malìe vittima illustre,
Antonio stese l’ale sue marine,
Com’anitra smarrita, e la battaglia
Lasciando, appo lei fugge. Mai cotanta
Vergogna non vid’io: virile onore,
1680
Guerresca esperïenza a sè giammai
Non recâr tanto oltraggio.

Enobarbo.
Oh miserando!

Entra CANIDIO.

Canidio.
Già il respir manca alla nostra fortuna,
E va sommersa in mar. Se il duce nostro
Nella mischia apparìa, qual era un giorno,
1685
Vincitori saremmo. Ei ne die’, primo,
Di troppo vile fuga il vile esempio.

Enobarbo.
(Fra sè.)
A tal veniste? – Or ben, tutto è finito.

Canidio.
Verso il Peloponneso ei van fuggendo.

Scaro.
È facile la via: colà, gli eventi
1690
Attenderò.

Canidio.
Con le legioni mie
E coi cavalli a Cesare m’arrendo:
Della sommissïon già m’additâro
Sei regi il calle.

Enobarbo.
Benchè il vento spiri
Di mia raggione avverso a me, pur voglio
1695
Seguir d’Antonio la ferita sorte.

(Partono.)

SCENA IX

Alessandria. – Stanza nel reale palagio.
Entra ANTONIO, con alcuni SEGUACI.

Antonio.
Oh! la terra non vuol ch’io più la calchi,
Chè di portarmi si vergogna! – Amici,
Venite. Ahi! Tanto mi indugiai nel mondo,
Chè per sempre ho perduto il mio cammino. –
1700
Carco d’oro un naviglio a me rimane;
Vel cedo, il dividete: ite a far pace
Con Cesare! fuggite.

I Seguaci.
Fuggir noi?
No.

Antonio.
Non son io fuggito? Agli altri io primo
Ad esser vile, ed a voltare il tergo
1705
Non appresi?.. Oh! partite, amici: io sono
A tal via risoluto, che mestieri
Di voi non ho. Partite, il mio tesoro
Sta nella rada: è vostro. Io corsi dietro
A ciò che di rossor, solo a mirarlo,
1710
Or mi copre: il mio crine si solleva;
E fan rampogna i capei bianchi a’ bruni
Di loro audacia, e questi a quei di tanta
Ignavia e codardìa. – Qui mi lasciate.
Lettere avrete per gli amici miei,
1715
Che al vincitor v’apran la via. Ven prego,
Non v’attristate nè mi fate inciampo;
Quel consiglio, che a voi la disperata
Mia sorte addita, l’accogliete; e sia
Colui, che s’abbandona, abbandonato.
1720
Ratti, al lido: il possesso della nave
E de’ tesori suoi vi do: sol prego,
Sol vi scongiuro, mi lasciate alquanto.
Vedete, d’imperar perduto ho il dritto,
Ond’io prego! – Verrò, fra poco, a voi.

(Siede.)
Entrano ERO, CLEOPATRA, appoggiata a CARMIONE, ed IRA.

Ero.
1725
A lui vieni, o regina; e tu il conforta.

Ira.
Sì, diletta regina.

Carmione.
E ch’altro puoi?

Cleopatra.
Ch’io m’assida. – O dea Giuno!...

Antonio.
No, no, vanne
No, no!

Ero.
Vedi, signor.

Antonio.
Via, via!

Carmione.
Regina!

Ira.
O buona imperatrice!

Ero.
O signor, vedi.

Antonio.
1730
Sì, vedi, vedi! – Egli, a Filippi, il ferro,
Come un mimo tenea, quand’io percossi
Quel Cassio magro e pien di rughe; io fui
Che al suo fin trassi il folle Brutto: e intanto,
Ignaro d’ogni forte opra di guerra,
1735
Cesare, de’ suoi duci usava l’arte:
Ed or... ma nulla giova.

Cleopatra.
(Alle sue donne.)
Vi scostate.

Ero.
Signor, deh! mira la regina.

Ira.
(A Cleopatra.)
Oh! a lui
Vien, gli parla: per l’onta, ei perde il senno.

Cleopatra.
Ahi lassa! mi reggete.

Ero.
O signor, sorgi:
1740
La reina s’appressa; il capo inchina,
Morte ha nel cor: solo un accento, e puoi
Far che riviva.

Antonio.
Alla mia fama oltraggio
Io stesso feci. Oh fuga vile!

Ero.
Mira,
È la regina.

Antonio.
A che fin per te venni,
1745
O egizia?... A te celar la mia vergogna
Sol poss’io, riguardando alle reliquie
Del mio caduto onor.

Cleopatra.
Deh! tu perdona
Alle mie vele, per terror fuggenti:
Che seguito m’avresti io non credea.

Antonio.
1750
Troppo, o egizia, sapevi che il cor mio
Da più tenaci nodi alle tue prore
Era avvinto, e t’avria seguìto ovunque;
Sapevi in tua balìa tutta quest’alma,
Che al cenno tuo la volontà de’ Numi
1755
Avrebbe infranta.

Cleopatra.
Oh perdona!

Antonio.
Or m’è forza
Invïar preghi umìli a quel garzone,
E di viltade per le oblique vie
Strisciarmi, io che a trastullo pallegiava
Metà del mondo, io che le sorti altrui
1760
Creava, o disfacea! Sapevi quanto
Fossi captivo a te, quanto cotesta
Spada, fiaccata dall’affetto mio,
T’obbedirebbe.

Cleopatra.
Oh perdona, perdona!

Antonio.
Non versare una lagrima, ti dico!
1765
Una lagrima tua val tutto quanto
Fu già vinto e perduto. Un bacio dammi:
A compensarmi basta. – Al precettore
De’ nostri figli diedi il carco... E ancora
Non torna? – Dolce amor, grave qual piombo
1770
Ho il capo. – Olà, del vin: la cena è presta?
Più Fortuna minaccia, e più la spregio.

(Partono.)

SCENA X

Il campo di Cesare in Egitto.
Entrano CESARE, DOLABELLA, TIREO e altri.

Cesare.
L’inviato d’Antonio a me s’avanzi.
(A Dolabella.)
Il conosci?

Dolabella.
È il maestro de’ suoi figli.
Cesare, vedi a quale stremo ei venne,
1775
Poi che dell’ali sue questa ei ti manda
Misera piuma, ei che per messi avea
Monarchi e prenci, poche lune or sono.

Entra EUFRONIO.

Cesare.
T’appressa, e parla.

Eufronio.
A te mi manda Antonio,
Qual io mi sia, benchè sì picciol dianzi
1780
Fossi agli intenti suoi, com’è per questo
Ampio mar stilla di rugiada, in seno
D’una foglia di mirto.

Cesare.
E sia: m’esponi
Il tuo messaggio.

Eufronio.
Antonio in te saluta
Il signor di sua sorte, e viver chiede
1785
In Egitto: se il nieghi, ei meno ancora
A te chiede; ed invoca che tu il lasci
Fra un cielo e terra respirar, siccome
Uom privato in Atene: e ciò per esso. –
Poi, Clëopatra, che la tua grandezza
1790
Confessa e accetta il tuo sovran potere,
Domanda, a prò de’ suoi figliuoli, il serto
De’ Tolomei, ch’ora è in tua mano.

Cesare.
È chiuso
L’orecchio mio d’Antonio alla richiesta.
Ad udir la regina e ad appagarla
1795
Presto io son, purchè dessa fuor d’Egitto
Scacci il suo drudo inonorato, o il tolga
Di vita. Ove per lei questo sia fatto,
Invan non pregherà. Risposi ad ambo.

Eufronio.
Te guidi la fortuna!

Cesare.
Ei sia per mezzo
1800
Le nostre schiere ricondotto. –
(Eufronio parte.)
(A Tireo.)
È l’ora,
Che l’eloquenza tua s’adopri. Or vanne:
Disgiungi Antonio e Clëopatra: a lei
Quanto brama prometti, ed altre unisci
Profferte, a grado tuo: femmina mai
1805
Salda non regge, in lieta sorte: misera,
Diverrebbe spergiura una vestale
Non mai contaminata. Or dêi, Tireo,
Far di te saggio: poi, per tuo compenso,
L’editto scrivi tu che a noi fia legge.

Tireo.
1810
Cesare, io parto.

Cesare.
Nota come Antonio
Regga alla sua caduta; e tutti spia
I moti, ond’ei riveli i suoi disegni.

Tireo.
Io t’obbedisco, Cesare.

(Partono.)

SCENA XI.

Alessandria. –¬ Stanza nel reale palagio.
Entrano CLEOPATRA, ENOBARBO, CARMIONE e IRA.

Cleopatra.
Enobarbo,
A far che resta a noi?

Enobarbo.
Pensar, morire.

Cleopatra.
1815
Nostra è colpa, o d’Antonio?

Enobarbo.
Antonio solo
Dêssi accusar, che fe’ ragion soggetta
Al suo desir. Che importò la tua fuga
Da quella vasta fronte di battaglia,
Onde un’armata all’altra era spavento?
1820
Perchè seguir ti volle? Non dovea
Pungerlo sì l’amor, che spento in lui
Fosse il dover di duce, in quel supremo
Istante che le due metà del mondo
Cozzavano, e cagion della gran lite
1825
Era ei solo. Vergogna, al danno pari,
Gli era seguire i tuoi pennon fuggenti,
Le atterrite sue navi abbandonando.

Cleopatra.
Deh taci!

Entrano ANTONIO ed EUFRONIO.

Antonio.
(Ad Eufronio.)
È questa la risposta?

Eufronio.
È questa.

Antonio.
Dritto avrà la regina al favor suo,
1830
Purchè di noi faccia rifiuto.

Eufronio.
Il disse.

Antonio.
Ch’ella lo sappia. –
(A Cleopatra.)
Questo grigio capo
Manda al fanciullo Cesare, e di regni
Piene ei farà tue voglie.

Cleopatra.
Questo capo,
Signor?...

Antonio.
(Ad Eufronio.)
Ritorna a lui; digli ch’ei porta
1835
Le rose ancor di giovinezza in viso,
Che da lui vuol qualche grand’opra il mondo:
Auro, navi, legioni, quant’è suo,
Esser può d’ogni vile; e vincer ponno
I suoi ministri al cenno d’un fanciullo,
1840
Come a quello di Cesare. Per questo,
A dispogliar le sue splendenti mostre
Lo sfido; e, ferro contro ferro, ei solo,
Contra me solo, già negli anni inchino,
A misurarsi. – Or, questo io scrivo. Vieni.

(Partono Antonio ed Eufronio.)

Enobarbo.
1845
Eh via! Che si disarmi il trïonfante
Cesare della sua lieta fortuna,
E a specttacolo scenda, e al paragone
D’un battagliero? Il veggo, il senno umano
Non è che parte dell’umana sorte,
1850
E si muta con lei: le cose esterne
Menan le interne facoltà con seco
Nella caduta. E sognar può costui,
In sua piena ragion, che a lui sì gramo
L’avventurato Cesare risponda? –
1855
Cesare, hai vinto anche il suo senno.

Entra un SEGUACE.

Il Seguace.
Un messo
Di Cesare.

Cleopatra.
Senz’altra riverenza? –
Vedete, ancelle mie, come le nari
Turan dinanzi alla sfiorita rosa,
Color che all’aprir suo s’eran prostrati. –
1860
Il messo venga.

Enobarbo.
Fra sè.
Già con me s’adirà
L’onestà mia. – Devota ai folli, è anch’essa
Follìa la fede. Pur, chi tanto è forte,
Che fedel segua il suo signor caduto,
Il vincitor di lui vince, e sorvive
1865
Nella storia.

Entra TIREO.

Cleopatra.
Che vuol Cesare?

Tireo.
L’odi
Segretamente.

Cleopatra.
Qui non son che amici.
Libero parla.

Tireo.
Forse ei son, del paro,
D’Antonio amici.

Enobarbo.
E n’ha mestier di tanti
Quanti Cesare n’ha: se no, qui nulla
1870
Opriam per lui. Volente il signor nostro
All’amistà di Cesare si dona,
Se tale è il piacer suo. Di noi, t’è noto
Che siam di lui ch’ei segue: ond’è che tutti
Noi saremo di Cesare.

Tireo.
Tal sia. –
1875
Odi dunque, o regina. Te scongiura
Cesare, che, in quest’ora a cui venisti,
Tutto, fuor ch’egli è Cesare, tu scordi.

Cleopatra.
Segui: è regal parola.

Tireo.
Ei sa che avvinta
Ad Antonio sei tu, non dall’affetto,
1880
Dal terrore.

Cleopatra.
Ah!...

Tireo.
Pietà quindi lo mosse
Degli oltraggi ch’ei fece all’onor tuo,
Opre di violenza, e non mertate.

Cleopatra.
Egli è un nume, ed il ver conosce e vede:
Non cedei l’onor mio, ma fu conquiso.

Enobarbo.
1885
(Fra sè.)
Perchè certo io ne sia, chieder vo’ questo
Ad Antonio: Signor, sì rotto il fianco
Ha la tua nave, che a noi sol rimane
Lasciar che affondi: se chi t’è più caro
T’abbandona. –

(Enobarbo parte.)

Tireo.
Degg’io quel che tu brami
1890
A Cesare annunziar? ch’egli ha costume
Di consigliar quanto conceder brama.
Lieto ei sarà, se della sua fortuna
Ti fai sostegno; ma l’udir che Antonio
Tu lasci, e attendi dal signor del mondo
1895
Il tuo schermo, sarà fiamma al suo spirto.

Cleopatra.
Qual ti nomi?

Tireo.
Tireo.

Cleopatra.
Messo cortese,
Al gran Cesare reca che la sua
Trïonfal mano, per tuo mezzo, io bacio.
Digli che pronta a’ piedi suoi depongo
1900
La mia corona, e a lui mi prostro: digli
Che, dal supremo alito suo, d’Egitto
Attendo il fato.

Tireo.
La più saggia via
Così tu eleggi. Se tra lor fan guerra
Sapïenza e fortuna, e quella appena
1905
Ardisce ciò che può, nulla giammai
La crollerà. Su la tua man mi lascia
Depor l’omaggio mio.

Cleopatra.
Spesso, di regni
Il conquisto sognando, i labbri impresse
Su questa indegna mano, e piovve baci
1910
Del tuo Cesare il padre.

(Gli porge la mano.)
Ritornano ANTONIO ed ENOBARBO.

Antonio.
Pel Tonante!
Tai grazie?... Chi sei tu, ribaldo?

Tireo.
Io sono
Colui che del signor più grande, e degno
D’obbedienza, il cenno adempie.

Enobarbo.
Via!
Alle sferze costui!

Antonio.
Sparviero ingordo!
1915
Tu! – Per il Cielo e per l’Averno! Il mio
Poter fugge da me. Quand’io, pur ora,
Olà! gridava, quai fanciulli a stormo,
Correano i re sclamando: Che desiri? –
Non han più orecchi? Antonio ancor son io.

Entrano alcuni SERVI.

Antonio.
1920
S’afferri questo vil. Ch’e’ sia sferzato!

Enobarbo.
Meglio d’un lïoncin l’ira, che quella
D’un antico lion quando si muore.

Antonio.
Per la luna e per gli astri! e’ sia sferzato,
Fosser ben anco venti e de’ più grandi
1925
Tributarj di Cesare sì audaci
Per aver tocca la man di costei. –
Qual nome è il suo, da che non è Cleopatra? –
Sì, lo sferzate, insin ch’io ’l vegga, come
Fanciullo, raggrinchiarse e metter guai.
1930
Via di qui!

Tireo.
Marc’Antonio...

Antonio.
Via! poi, quando
Provato abbia le sferze, qui ritorni:
Questo schiavo di Cesare un messaggio
Per me gli apporti.

(I Servi con Tireo partono.)

Antonio.
(A Cleopatra.)
Quand’io te conobbi,
Mezzo sfatta eri tu! Ah, potei dunque
1935
L’origlier mio nuzïal lasciare in Roma
Non tocco, giusta prole rifiutando
Da quella gemma infra le donne, solo
Per trarmi all’esca di cotesta druda
Che i servi adocchia?

Cleopatra.
Mio signor...

Antonio.
Bugiarda
1940
Ingannatrice fosti ognor. – Ma quando,
Ahi miseria! s’indura il vizio in noi,
Ci serran le pupille i saggi Numi,
E, caduto in quel lezzo il nostro senno,
Ci fan mancipii all’error nostro; e mentre
1945
A rovina corriam superbi, a loro
Siam r iso.

Cleopatra.
A tal si venne?

Antonio.
Io ti trovai
Della mensa di Cesare rifiuto,
Anzi di quella di Pompeo, le laide
Ore non noverando d’altro foco,
1950
Che volgar fama non ha scritte. – Oh certo
Indovinar tu puoi, non dir che sia
Virtù di continenza!

Cleopatra.
Oh! perchè questo?

Antonio.
Che un vile nato a mendicar mercede,
E a dire: Il ciel te ne rimerti, or vegna
1955
Dimestico così con la compagna
Del mio piacer, con la tua man, con questa
Regale impronta, de’ più alti cori
Mallevadrice!... Oh di Basàn foss’io
Sul giogo a urlar, misto al cornuto armento,
1960
Chè n’ho fera cagione; e in guisa umana
Ridirla, sarìa far come il dannato,
Che della fune che il serra alla strozza
Rende grazie al carnefice. –

Ritornano i Servi con TIREO.

Antonio.
Sferzato
Ei fu?

1º Servo.
Sì, fieramente.

Antonio.
E gridò forte,
1965
E mercede invocò?

1º Servo.
Sì, grazia chiese.

Antonio.
(A Tireo.)
Se hai vivo il padre, ei si dorrà che nato
Non sii fanciulla: e tu dovrai pentirti
Che, a Cesare seguace in suo trionfo,
Fosti per ciò dato alla sferze. Ormai,
1970
La bianca man d’una donna mirando,
Tu dêi per febbre abbrividir... Va, riedi
A Cesare; gli espon come t’accolsi;
Digli, e il rammenta, ch’ei m’accese all’ira,
Perchè, meco sì altero e disdegnoso,
1975
Ricanta quel ch’io son, nè quel che fui
Ripensa più: quindi, nel tempo istesso
Che più facil m’adiro, egli m’aizza
Or che gli astri, a me un dì propizia guida,
Si disvîar da’ cerchi lor, scagliando
1980
Le amiche fiamme in fondo degli abissi.
E se il mio dir l’offende, o quel ch’io feci,
Gli aggiungi che in sua mano Ipparco ei tiene,
Il mio liberto, e a grado suo può darlo
A torture, a flagelli, od alle forche,
1985
Per aver suo ricambio. Insisti pure;
E, coi segni sul tergo, intanto vanne!

(Parte Tireo.)

Cleopatra.
Tutto dicesti?

Antonio.
Ahi! la terrena luna
Già per noi s’ecclissò: quest’è presagio
Che Antonio cade.

Cleopatra.
Aspetto che si compia.

Antonio.
1990
Così, per piaggiar Cesare, tu alterni
Furtivi sguardi con un vil, che allaccia
I suoi fermagli?

Cleopatra.
Nè ancor mi conosci?

Antonio.
Cor di ghiaccio per me?...

Cleopatra.
Se tale io sono,
S’è di ghiaccio il mio core, avvelenata
1995
Grandine vi si addensi, e di mia vita
Ingombri le sorgenti e la dissolva!
E Cesarion ne sia percosso; e quanti
Son memoria del mio grembo fecondo,
E in un gli egizii tutti, il riversante
2000
Uragano tranghiotta, ed insepolti
Giaccian, finchè del Nil gl’insetti a sciami
Calino a divorarli.

Antonio.
Ora son pago.
Ad Alessandria Cesare s’accampa:
Colà il suo fato affrontar voglio. A terra
2005
Le nostre schiere fur valenti; il nostro
Navil disperso si raccoglie, e in sua
Minaccia il mar risolca. – Ove n’andaste,
O miei spirti? – Odi, o donna! Se dal campo,
Per baciar questa bocca un’altra volta
2010
Io qui ritorno, di sangue coverto
Apparirò. Questa mia spada ed io
Conquisterem la storia. Ancora io spero.

Cleopatra.
È desso il prode signor mio!

Antonio.
Le posse
Del mio cor, de’ miei nervi e del respiro
2015
Addoppierò, pugnerò a morte! Quando
A me l’ore fuggìan vaghe e gioconde,
Con un motto i captivi avean’ ricompra
Da me lor vita: or caccerò, con fiero
Serrar di denti, all’Orco ognun che attenti
2020
Di placarmi. – Su via, trascorra in festa
Un’altra notte; gli afflitti miei duci
Vegnan tutti, ricolminsi le coppe!
Ed al cupo sonar di mezzanotte,
Ridiamo ancora!

Cleopatra.
È il dì del mio natale.
2025
Povere feste io m’attendea: ritorna
Antonio il signor mio, sarò Cleopatra.

Antonio.
Tutto per bene.

Cleopatra.
A lui qui vengan dunque
I suoi nobili duci.

Antonio.
Udiste? Ad essi
Io parlerò: vo’ che Lieo rinsaldi
2030
Le cicatrici loro, in questa notte.
Andiamo, mia regina!... Ancor c’è vita.
Fra poco, quando un’altra volta in campo
Io scenda, amante mia farò la morte;
Sarò il rival della sua orrenda falce.

(Partono Antonio, Cleopatra e i Servi.)

Enobarbo.
2035
La folgore offuscar costui presume,
Esser furente, e fuggir per terrore
Dal terror: per tal guisa, la colomba
Può lo struzzo affrontar. Tal è: di nuovo,
Scemando il senno, ricovra il suo core
2040
Il duce nostro. E al valor, se vien manco
Ragione, il ferro che brandìa si spezza. –
Or, di lasciarlo io cercherò la via.

(Parte.)

Atto IV

SCENA I.

Il campo di Cesare ad Alessandria.
Entrano CESARE, leggendo uno scritto; AGRIPPA, MECENATE e altri.

Cesare.
Fanciul mi chiama e mi rimbrotta, quasi
Fuor d’Egitto cacciarmi egli potesse.
2045
Il messaggiere mio diede alle verghe,
E me disfida a singolar battaglia;
Cesare contro Antonio! – Or sappia il vecchio
Ribaldo che a morir ben altre vie
Restanmi: alle sue sfide, intanto, io rido.

Mecenate.
2050
Cesare pensi che, se cede all’ira
Un uom sì grande, ciò vuol dir che al suo
Tramonto ei volge. – E tu, non darli tregua;
Ma degl’impeti suoi ti giova. Mai
Il furore non è schermo a sè stesso.

Cesare.
2055
Che di tante battaglie avrem domani
Combattuta l’estrema, i nostri duci
Sappiano: molti, che testè d’Antonio
Empìan le file, or son fra i nostri, e presti
A stargli a fronte. Fa che questo avvegna,
2060
E festeggiar lascia le schiere: abbiamo
Di viveri gran copia; a tale sciupo
Dritto acquîstar. – Povero Antonio!

(Partono.)

SCENA II.

Alessandria. – Stanza nel palagio.
Entrano ANTONIO, CLEOPATRA, ENOBARBO, CARMIONE, IRA, ALESSI e altri.

Antonio.
Dunque,
O Domizio, la sfida ei non accetta?

Enobarbo.
No.

Antonio.
Perchè mai?

Enobarbo.
Di te più fortunato
2065
Venti volte, arrischiar venti contr’uno
Egli estima.

Antonio.
Assalirlo in terra e in mare,
Domani io vo’, soldato: o alla battaglia
Io sopravvivo, o nel sangue sommersa
La mia gloria morente a nova vita
2070
Ritornerà. – Combatter vuoi?

Enobarbo.
Ferire,
Gridar: Senza mercè!

Antonio.
Ben dici. Andiamo
I servi chiama di mia casa.

Entrano i SERVI.

Antonio.
(Ai Servi.)
In questa
Notte, d’imbandigioni la mia mensa
Ribocchi. – La tua man dammi – fedele
2075
Ognor fosti – e la tua. – Tu pur, tu pure:
A me faceste buon servigio sempre;
E re v’eran compagni.

Cleopatra.
In disparte, a Enobarbo.
Che dir vuole?

Enobarbo.
Motto bizzarro è questo, che dall’alma
Scocca il dolor.

Antonio.
Fido del par tu sei
2080
Oh spartir mi potessi in altrettanti
Quanti voi siete, e in un Antonio solo
Voi tutti unir, per rendervi quel fido
Servigio che a me deste!

I Servi.
Il ciel lo tolga!

Antonio.
Or bene, m’assistete in questa notte,
2085
Nè siate, o amici, di mie coppe scarsi:
Usate meco, come allor che tutto
L’impero mio v’era compagno, e pronto
Obbediva al mio cenno.

Cleopatra.
E che presume?

Enobarbo.
Gli amici suoi far piangere.

Antonio.
La vostra
2090
Opra mi date in questa notte; forse
L’ultima ell’è del servir vostro; forse
Più non mi rivedrete, o sol vedrete
Il mio fantasma mutilato, e servi
Doman sarete d’un signor novello.
2095
Io vi riguardo, come quei che dona
L’ultimo vale. O miei fidi, licenza
Non vi do: signor vostro, io feci mio
L’util vostro servigio, e fino a morte
Lo terrò: questa notte, sol per due
2100
Ore, siate con me: di più non chiedo
E i Numi a voi ne dian mercè.

Enobarbo.
Signore,
Che fai? Perchè così nello sconforto
Li getti? – Vedi, ei piangono; a me pure,
Scemo ch’io sono, goccian gli occhi: è un’ontà;
2105
Non ci mutare in femmine!

Antonio.
Via, via!
Ch’io sia dannato, se così pensai.
Germini il gaudio là, dove cadute
Queste lagrime son. Diletti amici,
Un troppo tristo senso a mie parole
2110
Voi date: io volli confortarvi; solo
D’incender con le faci io vi chiedea
La buia notte! O del mio cor diletti,
Nella domane ha buona speme: in campo
Vi guido ancor, perchè vittoria e vita,
2115
Non morte e fama aspetto. Ora, alla cena;
Ne’ calici s’affoghi ogni consiglio.

(Partono.)

SCENA III.

Alessandria. – Dinanzi al palagio.
Entrano due SOLDATI, messi a guardia.

1º Soldato.
Buona notte, fratel: domani è il giorno...

2º Soldato.
Che di noi si decide. – Non udisti
Strane novelle per le vie?

1º Soldato.
Nessuna.
2120
Che v’ha?

2º Soldato.
Forse, non è più che un susurro...
Vale.

1º Soldato.
Vale.

Entrano due altri SOLDATI.

2º Soldato.
Soldati a scolta.

3º Soldato.
A scolta
Voi pure. Addio.

(I primi due Soldati si pongono a guardia, a’ loro posti.)

4º Soldato.
Noi, qui.
(Gli altri si pongono a guardia sul davanti.)
Se mai, domani,
Resiste il navil nostro, ho buona speme
Che terran ferme anch’esse le milizie
2125
Di terra.

3º Soldato.
Son valenti, e risolute.

(Suoni flebili sotto la scena.)

4º Soldato.
Silenzio.
Qual mai suono?

1º Soldato.
Ascolta.

2º Soldato.
Ascolta.

1º Soldato.
Nell’aria un’armonia.

3º Soldato.
Vien di sotterra.

4º Soldato.
Fausto presagio, non è ver?

3º Soldato.
No.

1º Soldato.
Zitti.
Che mai vuol dir?

2º Soldato.
D’Ercole il nume, a cui
2130
Tanto amor serbò Antonio, or l’abbandona.

1º Soldato.
Procediamo, a veder se all’ altre scolte
Il romor giunse.

(Avanzandosi verso le altre guardie.)

2º Soldato.
Or ben, compagni?

Diversi soldati.
(Insieme.)
Udiste?

1º Soldato.
Sì, non è strano?

3º Soldato.
Udite, amici? Udite?

1º Soldato.
Questo suono dobbiam fin presso al campo
2135
Seguir?... Vedrem, se cessa.

I Soldati.
Andiamo, è strano.

(Partono.)

SCENA IV.

Alessandria. – Una stanza nel palagio.
Entrano ANTONIO e CLEOPATRA, CARMIONE e altri li seguono.

Antonio.
Ero, a me l’armi, Ero!

Cleopatra.
Deh! Vogli alquanto
Dormir.

Antonio.
No, mia vezzosa! – Ero t’affreta:
Ero, a me l’armatura.

Entra ERO, con le armi.

Antonio.
Amico, vieni,
E di ferro mi vesti. – Se fortuna
2140
Non ci sorride, in questo dì, gli è solo
Perchè noi la sfidiam. – Su dunque.

(Ero si fa ad armarlo.)

Cleopatra.
Anch’io
T’ajuterò. – Questo ove il poni?

Antonio.
Oh lascia,
Lascia! – Armare il mio cor, quest’è tua vece.
Tu falli, falli: qui, qui.

Cleopatra.
Attendi: io posso
2145
Darti mano. Così, così.

Antonio.
Va bene.
Non mancherà il successo. – Or, vanne, amico:
L’armi indossa tu ancor.

Ero.
Sì, tosto.

Cleopatra.
Forse
Non è bene affibbiata?

Antonio.
In modo egregio.
Chi scioglierà questi fermagli, pria
2150
Che noi per riposar sfibbiamo l’armi,
Una tempestà dovrà udir. – Tu fai,
Ero, a tenton: la mia regina è, in vero,
Scudier più destro assai. Ti sbriga. – O mio
Amor, potessi tu mirarmi in mezzo
2155
Alla mischia, in tal dì, presente sempre
All’opre mie regali! Oh sì! vedresti
Qual artefice io sia.

Entra un UFFIZIALE armato.

Antonio.
Salve; ben giungi.
Tu vieni, come quei che un fier messaggio
Reca di guerra: per l’opra, a noi cara,
2160
Sôrti siamo con l’alba, ed a compirla
Festosi andiam.

1º Uffiziale.
Mille guerrieri in armi
Stanno, o signor, benchè sia presta l’ora;
E, rinchiusi nell’armi, appo le porte
Ti aspettan.

(Acclamazioni e suono di trombe.)
Entrano altri UFFIZIALI e SOLDATI.

2º Uffiziale.
Bello il mattin sorge. Salve,
2165
O duce.

Tutti.
O duce, salve!

Antonio.
Il dì, compagni,
Ben s’apre, innanzi l’ora, come spirto
Di buon garzon, che fama alta promette. –
Così, così; presto – in tal foggia – bene.
Vale, o donna; e di me sia pur che puote.
(A Cleopatra, baciandola)
2170
È il bacio d’un guerrier; ma d’alto biasmo,
D’aspre rampogne sarei degno, s’io
Di studïate dipartenze indugio
Facessi qui: com’uom tutto di ferro,
Io ti lascio. – Chi vuol pugnar di voi,
2175
Mi segua: all’opra vi son guida. Addio.

(Partono Antonio, Ero, Uffiziali e Soldati.)

Carmione.
Ritrarti alle tue stanze or vuoi?

Cleopatra.
Mi guida.
Da valoroso ei parte. – Oh almen decisa
Fra lui si fosse e Cesare, in battaglia
Singolar, la gran lite! – Antonio allora...
2180
Ma ormai... N’andiamo.

(Partono.)

SCENA V.

Il Campo d’Antonio, presso Alessandria.
– Squilli di trombe. –
Entrano ANTONIO ed ERO: un soldato va loro incontro.

Il Soldato.
Fausto giorno i Numi
Concedano ad Antonio.

Antonio.
Oh almen tu pria
M’avessi spinto a dar battaglia a terra,
Con le tue cicatrici!

Il Soldato.
Se quest’era,
I re, che or son ribelli, ed il soldato
2185
Che in questa mane ti lasciò, trarrestri
Dietro a’ tuoi passi ancor.

Antonio.
Chi m’ha diserto
Questa mane? –

Il Soldato.
Chi? Alcun, che presso sempre
Ti fu: Enobarbo appella; ei più non t’ode,
O dal campo di Cesare risponde:
2190
Non son de’ tuoi.

Antonio.
Che dici?

Il Soldato.
Egli, o signore,
È con Cesare.

Ero.
Pur, qui stanno ancora
I suoi tesori, e quanto è suo.

Antonio.
Partito?

Il Soldato.
È certo.

Antonio.
Vanne tosto, e i suoi tesori,
Ero, gli rendi; nè del suo pur serba
2195
Un obolo, io lo vieto: ed una nota
Con un vale cortese a lui tu scrivi,
Ed io soscriverò; digli che augurio
Io fo, ch’altra cagion non vegna mai
Perch’ei muti signore. – Onesti molti
2200
Ohimè! corruppe la fortuna mia.
Ero, t’affretta.

(Partono.)

SCENA VI.

Il Campo di Cesare, dinanzi Alessandria.
– Suono di trombe. –
Entra CESARE, seguito da AGRIPPA, da ENOBARBO e da altri.

Cesare.
Agrippa, va: cominci
La pugna. – Annunzia il mio voler, che Antonio
Sia preso vivo.

Agrippa.
T’obbedisco.

(Agrippa parte.)

Cesare.
Un tempo
Di pace universal già s’avvicina:
2205
Se fausto è il dì, sull’orbe tripartito
Con larga fronda spunterà l’ulivo.

Entra un MESSO.

Il Messo.
Antonio in campo scende.

Cesare.
Vanne, e reca
Ad Agrippa l’incarco che dispieghi
D’Antonio a fronte i disertori, ond’egli
2210
Sovra sè stesso il suo furor disfoghi.

(Cesare parte col seguito.)

Enobarbo.
Ribelle è Alessi che, in Giudea mandato
Per sostegno d’Antonio, il grande Erode
A disposar di Cesare la parte
Süase, abbandonando il signor suo:
2215
E Cesare strozzar, per la sua pena,
Indi lo fece. E se Canidio e gli altri
Che l’han seguito ottenner gradi e uffici,
Non ebber fè onorata. – Ah! ch’io mal feci,
E ne reco a me stesso accusa amara,
2220
Nè gioja avrò mai più.

Entra un SOLDATO di Cesare.

Il Soldato.
Tutti, o Enobarbo,
Ti rende Antonio i tuoi tesori, e copia
Di sua larghezza aggiugne. Il messo venne,
Sotto la scorta mia: nella tua tenda
Depone intanto delle mule il carco.

Enobarbo.
2225
A te il cedo.

Il Soldato.
Di me non farti gioco.

Enobarbo.
A te il ver dissi, e ti giova
Fuor del campo scortar quell’inviato:
Se alla mia vece tornar non dovessi,
Io l’avrei fatto. Il vostro imperadore,
2230
Invero, è un Giove.

(Il Soldato parte.)

Enobarbo.
Io solo, io della terra
Sono il più scellerato, e primo il sento.
Qual dell’opra fedel m’avresti dato
Miglior mercede, o Antonio, d’alta grazia.
Largitor, che coroni di quest’oro
2235
Il vitupèro mio? Sento che il core
Mi si gonfia: a spezzarlo, se il rimorso
Non val, varrà più vïolento colpo.
No, basterà il rimorso, il sento... Ch’io
Contro a te pugni? Ah no! Cerco una fossa,
2240
Ove morir: per questo vile avanzo
Di vita, la miglior fia la più immonda.

(Parte.)

SCENA VII.

Campo di battaglia, fra i due eserciti.
– Strepito di guerra. Timpani e trombe. –
Entrano AGRIPPA e altri.

Agrippa.
Tropp’oltre spinti, di ritrarci è forza.
Cesare anch’esso si travaglia; è grande,
Ben più che non s’attese, era il contrasto.

(Partono.)
– Strepito di guerra. –
Entrano ANTONIO e SCARO: questi ferito.

Scaro.
2245
O imperador, questo è pugnar da forti.
Se tali eran da pria le prove nostre,
Rincacciati li avremmo a lor quartieri,
Ravvolti il capo di cenci.

Antonio.
Il tuo sangue
Scorre in copia.

Scaro.
La mia ferita avea
2250
Forma d’un T, or l’ha d’un H.

Antonio.
Indietro
Ei vanno.

Scaro.
Caccieremli entro le tane:
Qui, per sei squarci ancor v’è spazio.

Entra ERO.

Ero.
In fuga,
Signor, son essi: una vittoria vale
Per noi questo successo.

Scaro.
A lor le terga
2255
Cincischiam, gl’incalziamo al par di lepri:
È gran diletto mazzerar chi fugge.

Antonio.
Per l’animo giocondo avrai mercede,
E a più doppi l’avrai pel tuo valore.
Or meco vieni.

Scaro.
A pie’ zoppo io ti seguo.

(Partono.)

SCENA VIII.

Sotto le mura d’Alessandria.
– Strepito d’armi. –
Entrano ANTONIO: SCARO e l’esercito lo seguono.

Antonio.
2260
Incalzato l’abbiam fin dentro al campo:
Gli ospiti nostri ad annunziar correte
Alla regina. E le domane, pria
Che il sol ci veda, verserem quel sangue
Ch’oggi da noi sfuggì. Tutti ringrazio:
2265
Nerbo di braccio avete tutti; e in questo
Giorno, non già qual di mia causa servi,
Ma qual se fosse di ciascun la causa,
Da forti combatteste, e siete tutti
Pari ad Ettorre. Nelle mura entrate,
2270
Delle donne all’amplesso e degli amici;
Narrate lor le vostre geste; intanto
Ei laveran delle ferite i grumi
Col pianto della gioja, e l’onorate
Piaghe vi bacieranno. – La man dammi,
2275
O Scaro.

Entra CLEOPATRA, col suo seguito.

Antonio.
Vo’annuziar le tue grandi opre
Alla maga possente che a noi viene.
E dalla sua mercè sii benedetto –
(A Cleopatra.)
Luce del mondo, il tuo braccio incateni
Questo mio collo dell’acciar vestito:
2280
Ti slancia a me, senza curar l’usbergo,
E cadi sul mio cor, che ti sollevi
In questa ebbrezza del trionfo.

Cleopatra.
O grande
Eroe sovrano degli eroi, fuggito
Dai laci della terra, a noi ritorni
2285
Col riso nell’aspetto?

Antonio.
Sì, mio dolce
Usignuol, noi li abbiam fino a’ lor corvi
Incalzati.
(Abbracciandola.)
O fanciulla, benchè un poco
Sia misto il grigio sl brun, questa mia chioma
Nunzia un cerèbro che i nervi m’afforza,
2290
Sì che gl’imberbi io domi. –
(Additando Scaro.)
Quest’uom guarda:
Tua grazïosa mano a’ labbri suoi
Concedi: E tu, la bacia, o mio guerriero! –
Oggi ei pugnò, qual se un Iddio, nemico
Degli umani, la sua forma vestisse
2295
A sterminar.

Cleopatra.
D’un’ armatura d’oro,
Che fu d’un re, tu avrai compenso, o amico

Antonio.
L’ornassero i carbonchi, come il sacro
Carro di Febo, ei n’è degno. – La destra
Porgimi, e d’Alessandria per le vie
2300
In trionfo passiam, recando i nostri
Scudi, sfregiati al par di chi gl’imbraccia.
Se capace abbastanza il maggior nostro
Palagio fosse ad albergar le schiere,
Tutti insieme sedendo ad un convito,
2305
Faremmo augurio al dì venturo, nunzio
Di regali perigli. – Alto le trombe
Squillando, assordin la cittade intera,
E vi risponda il fragor de’ timballi:
Il grande applauso empia la terra e il cielo.

(Partono.)

SCENA IX.

Il campo di Cesare.
È notte. Scolte, a distanza. Entra ENOBARBO.

1º Soldato.
2310
Se scambio non ci dan, passata un’ora,
Torneremo al presidio. Come splende
Questa notte! E’ si dice che nel campo
Uscir dovrem di nuovo, alla seconda
Vigilia del mattino.

2º Soldato.
Aspra per noi
2315
Fu la giornata.

Enobarbo.
A me sii testimone,
O, notte!

3º Soldato.
Chi è costui?

2º Soldato.
Taci, accostiamci.

Enobarbo.
E tu sii testimone, o santa luna,
Quando i venturi gitteran sul nome
Dei traditor l’infamia, che dinanzi
2320
Al raggio tuo, l’infelice Enobarbo
Pentissi.

1º Soldato.
Egli? Enobarbo?

3º Soldato.
Udiam: silenzio.

Enobarbo.
D’alta malinconia regina e diva,
Odimi tu! Le avvelenate stille
Notturne spremi sul mio capo, e questa
2325
Ribelle al mio voler vita odïosa
Più non m’allacci: questo core all’aspro
Macigno dell’error che mi travolse
Tu frangi, e fatto per dolore in polve,
Tutti i cupi pensieri abbian con esso
2330
Fine per sempre. A me perdona, o Antonio,
Tu grande e buono, più che infame io sia!
Perdona tu! Poi scriva pure il mondo
Tra i felloni e i codardi il nome mio.
Oh Antonio, Antonio!...

(Muore.)

2º Soldato.
A lui parliam.

1º Soldato.
No, pria
2335
Stiamo in orecchi: dir cose ei potrebbe
A Cesare importanti.

3º Soldato.
Sì... ma ei dorme.

1º Soldato.
Svenuto forse?... chè preghiera mai
Non fe’ sì trista uom che s’addorme.

2º Soldato.
Or via,
Appressiamci.

3º Soldato.
Ti desta! su, ti desta!
2340
E rispondi.

2º Soldato.
Odi tu?

1º Soldato.
La man di Morte
Lo prese. – Ascolta, il tuo suon de’ timballi
(Suoni di guerra da lontano.)
Solenne or chiama le dormenti schiere.
Al presidio il rechiamo: egli è, per certo,
Un uom di vaglia. – La custodia nostra
2345
Finì.

3º Soldato.
N’andiamo; ei rinvenir può forse.

(Partono, trasportando via il cadavere.)

SCENA X.

Spazio fra i due accampamenti.
Entrano ANTONIO e SCARO; li seguono milizie in marcia.

Antonio.
Per un certame in mar fanno apparecchio:
Non hanno grado di scontrarci in terra.

Scaro.
E in terra e in mar si pugnerà.

Antonio.
Deh fosse!
E nell’aere e nel foco, ov’io del paro
2350
Assaltar li vorrei. Ma bada: accolti
Su quell’altura alla cittade attigua
I pedoni con noi restarsi denno:
Al navile il comando è dato, e omai
Si staccò dalla piaggia. Orsù, moviamo
2355
Al punto, ove scovrir meglio si possa
Gli ordini della pugna, e gli andamenti.

(Partono.)
Entra CESARE con le sue schiere in marcia.

Cesare.
Fermi teniamo in terra, se assaliti
Non siam; nè lo sarem, cred’io, servendo
Le migliori sue forze alle galee.
2360
Scendiamo a valle, ov’è il terren più adatto.

(Partono.)
Ritornano ANTONIO e SCARO.

Antonio.
Non vennero all’attacco. – Ed io, dall’alto,
Ove sorge quel pino, il campo tutto
Scoprirò: tosto a dir qui torno come
Volgan le sorti.

(Parte.)

Scaro.
Le rondini han posto
2365
Di Clëopatra entro le vele i nidi:
Van gli aùguri iterando che non sanno
Dire, nè ponno: han tetro aspetto, ed osi
Non son di fare aperti i lor pensieri.
Prode è Antonio, e smarrito: lo sospinge
2370
Dalla speme al terror la combattuta
Sorte, per quanto egli ha, per quanto perde.

(Romore lontano di una battaglia navale.)
Ritorna ANTONIO.

Antonio.
Tutto è perduto! Quella turpe Egizia
Mi tradì! Le mie navi all’inimico
S’arrendeano. – Là, vedete! In alto scagliano
2375
I berretti, e tra lor siccome amici
Per gran tempo divisi e’ van cioncando. –
Tre volte prostituta! A quell’imberbe
Tu mi vendesti, tu! Cosí, il mio core
A te sola or fa guerra. –
(A Scaro.)
A tutti imponi
2380
Che fuggano. – Quand’io di questa maga
Vendicato sarò, tutto è finito!...
Fuggan pur! Vanne.
(Scaro parte.)
O sole, il sorger tuo
Io non vedrò mai più. Qui van divisi
La Fortuna ed Antonio, qui la mano
2385
Noi ci serriam l’ultima volta. – Or dunque
A tal si venne? – I cor’ che il mio calcagno
Lambìan strisciando, e ch’io colmai di doni,
Si distemprano, e versan sul fiorente
Cesare i lor profumi: ignudo e brullo
2390
Il cedro sta, che tutti li coverse.
Tradito io sono!... O falsa alma d’Egitto,
Malïarda fatal, che me alla pugna
Scagliar sapevi, o alla magion ritrarmi
Col mover del tuo ciglio, onde il supremo
2395
Mio fine, ed il mio serto un dì cercai
Nel seno tuo! Verace lamia, al centro
Di questo abisso tu, con l’arti inique,
Mi gittasti. – Ero, olà!

Entra CLEOPATRA

Antonio.
Tu, fattucchiera?...
Lasciami, va!

Cleopatra.
Deh, qual mia furia accese
2400
Il mio signor contro l’amata sua?

Antonio.
Sparisci, o ch’io ti renderò il tuo merto,
Di Cesare al trionfo onta recando.
Ch’ei ti meni captiva, e della plebe
T’offra a’ clamori! Va, segui il suo carro,
2405
E del tuo sesso il maggior vitupero
Sia questo! Egli, per vile obolo, t’offra
Qual portentoso mostro agli ozïosi,
E aguzzi l’ugne a lacerarti il viso
La pazïente Ottavia. –
(Cleopatra parte.)
Che lontano
2410
Tu fugga, è ben, se pure è un ben la vita!
Pur meglio era per te del mio furore
Vittima qui restar, chè te salvata
Da mille morti avria solo una morte.
Ero! di Nesso la tunica io sento
2415
Sopra di me. – Spira, o grand’avo Alcide,
Nelle mie vene il tuo furor! Ch’io possa
Lica scagliar nella cornuta luna;
Indi, con questa man che sì gran clava
Brandì, me stesso anco distrugga! – Oh deve
2420
Quella maga morir!... Per lei venduto
Al giovincel di Roma, io per sua fraude
Muojo. Essa ancor, dunque, morrà. – Vieni, Ero.

(Parte.)

SCENA XI.

Alessandria. – Sala nel palazzo di Cleopatra.
Entrano CLEOPATRA, CARMIONE, IRA e MARDIANO.

Cleopatra.
Soccoretemi, ancelle... Oh! più d’Ajace
Per lo scudo d’Achille, ei vien furente:
2425
Nè il Tessalo cinghial spumò di rabbia
Più di lui.

Carmione.
Ti rifuggi al Mausoleo:
Là ti rinserra, e l’annuncio gl’invia
Che sei morta. Il cader della grandezza
Non è strazio minor di quel dell’alma
2430
Che dal corpo si parte.

Cleopatra.
Al Mausoleo!
Va, Mardiano: gli reca che trafitta
Io mi son; digli che la mia suprema
Parola Antonio fu! Che il tuo racconto
Lo impietosisca. Corri, e a dirmi torna
2435
Come l’annuncio di mia morte il tocchi. –
Al monumento!

(Partono.)

SCENA XII.

Alessandria. – Un’altra stanza.
Entrano ANTONIO ed ERO.

Antonio.
Ero, mi vedi ancora?

Ero.
Sì, mio signor.

Antonio.
Talvolta, per lo cielo
Nube veggiamo che un dragon somiglia;
Vapor, che ha d’orso, o di lïone aspetto,
2440
Mura turrite, o pendente scogliera,
Un irto monte, un promontorio azzurro,
D’arbori rivestito – che alla terra
Fan cenno, e a’ nostri sguardi aereo inganno!
Questi segni hai veduti, che del tetro
2445
Vespero son corteggio.

Ero.
È ver, signore.

Antonio.
Quel ch’è un destriero, tu vi pensi appena,
Lo sface il nembo; e, com’onda nell’onda,
Più nol distingui.

Ero.
Sì, tal è.

Antonio.
Buon Ero,
È tale duce tuo! tal’è mia forma.
2450
Qui, sono Antonio; ma cotesta mia
Visibil forma, Ero, serbar non posso.
Combattei per l’Egitto; e la regina –
Quella ond’io posseder credeva il core,
Com’essa il mio! sì, questo cor che a mille
2455
A mille conquistati altri ne avria,
Ora ahi! perduti – la regina, o fido
Ero, gittò per Cesare le sorti,
E truffò col trïonfo d’un nemico
La gloria mia. – Non piangere, o mio dolce
2460
Ero! Noi stessi per finir noi stessi,
Ecco quel che ci resta.

Entra MARDIANO.

Antonio.
Oh l’infamata
Regina tua, che mi rapì il mio ferro!

Mardiano.
No, Antonio! Te la mia regina amava,
E congiunta ha la sua con la tua sorte.

Antonio.
2465
Via, sozzo eunuco! Colei m’ha tradito,
E di morte morrà.

Mardiano.
Debito è morte,
Che una volta e non più sconta: ed ella
Tal debito pagò. Ciò che tu stesso
Volevi, è fatto: l’ultima sua voce
2470
Antonio fu, nobile Antonio! E questo
Nome, ch’era tra il cor diviso e il labbro,
Uno schianto le ruppe allor nel petto;
L’anima rese, e il nome tuo sepolto
In lei restò.

Antonio.
Morta, dunque?

Mardiano.
Sì, morta.

Antonio.
2475
Ero, toglimi l’armi: il lungo giorno
Finì! dormir dobbiamo. –
(A Mardiano.)
Esci pur salvo:
È buon compenso di tua pena. Vanne.
(Mardiano parte.)
(Ad Ero, che lo disarma.)
Via, strappa via!
No, reprimer del mio
Core il pulsar nemmen potrìa d’Ajace
2480
Il settemplice scudo... Ti disloca,
O fianco mio! Sii tu più forte, o core,
Della compage che ti serra, e spezza
Il tuo fragil viluppo! – Presto, oh presto,
Ero... Un soldato io più non sono. – Via,
2485
Ferrei frantumi, itene! in degna guisa
Io vi portai. – Lasciami.
(Ero parte.)
Io vo’, Cleopatra,
Venirti appresso, vo’ plorar mercede.
È forza! Ogni altro indugio èmmi tortura:
Poi che spenta è la face, ci corchiamo,
2490
Nè più a dilungo andiam. Tutta fatica
Or guasta l’opra sua: la forza istessa
Nella forza s’impiglia: orsù, il suggello
Poniam: tutto è finito. – Ero! – A te vengo
O mia regina! – Ero! – Oh m’attendi! dove
2495
Si posano gli spirti in grembo ai fiori,
N’andremo insiem, giunte le mani, e l’ombre
Abbagliando di nostra alma parvenza:
Schiera non avran più Dido ed Enea,
E trarrem dietro a noi tutte le larve. –
2500
Ero, Ero!

Ritorna ERO.

Ero.
Signor mio.

Antonio.
Dopo che morta
È Cleopatra, tal vivo inonorato,
Che in odio ai Numi son, per mia viltade.
Io che il mondo spartii col ferro, e tante
Sul verde tergo di Nettuno alzai
2505
Città co’ miei navigli, ora m’accuso,
Chè d’una donna in me l’ardir non sento:
Nè il grande spirto aver posso di lei,
Che a Cesare dicea, col suo morire:
Sol per me vinta io sono. – Ero, giurasti
2510
Che, al venir di quell’ora... ed é venuta...
Che dietro a me l’inevitabil fato
Dell’infamia sorgesse e dell’orrore,
Ucciso tu m’avresti. – Or ben, m’uccidi:
L’ora è questa. – Non me, Cesare in vece
2515
Tu percuoti. Richiama sul tuo viso
Il colore vital.

Ero.
Tolganlo i Numi! –
Io far ciò che le partiche saette
Mai non potean finor, ben che nemiche?

Antonio.
Ero, vorresti dunque, da una loggia,
2520
Nella gran Roma là, vedere il tuo
Signor che passa con le avvinte braccia,
Curvo il domato collo, inchino il viso
Per profonda vergogna, mentre altero
Del fortunato Cesare il rotante
2525
Carro precede, schernitor di quella
Viltà che dietro a sè tragge captiva?

Ero.
No, mirar nol vorrei.

Antonio.
Dunque, t’appressa.
Che mi risani una ferita è forza:
Snuda quel ferro onesto, che sì bene
2530
Per la tua terra usasti.

Ero.
O signor mio,
Mercè!

Antonio.
Allor ch’io ti diedi libertade,
Di’, non giuravi che fatto l’avresti,
Quand’io te l’imporrei? Farlo tu devi,
E tosto: o quanti a me servigi hai reso
2535
Altro non fûr che involontarii casi. –
Il ferro snuda, e vieni.

Ero.
Oh! da me volgi
Quella fronte, su cui par che respiri
La maestà del mondo.

Antonio.
Ecco!

(Volgendo la faccia.)

Ero.
Il mio ferro
È sguainato.

Antonio.
Non più: quell’atto or compi
2540
Per che il traesti.

Ero.
Signor mio diletto,
Mio duce e imperator! Lasciami, pria
Che discenda il fatal colpo sanguigno,
Lasciami dirti addio!

Antonio.
Già è detto, amico:
Addio!...

Ero.
Sì, addio, gran duce. – E ferir devo?

Antonio.
2545
Sì, adesso.

Ero.
Or, vedi.
(Cade sulla propria spada.)
In tal guisa, al dolore
Di dar morte ad Antonio io fuggo.

Antonio.
O amico!
O di me ben più grande, che m’apprendi
Quel ch’io far deggio, e a me far non potesti,
O nobil Ero! – Con eroico esempio
2550
M’han desta del valor la ricordanza.
La mia regina ed Ero. – Un fidanzato
Esser vo’ nel morir; correrò a morte,
Qual dell’amata al letto. – Ero, tu vedi:
Discepolo a te muore il signor tuo.
2555
Questo m’apprendi tu.
(Gittandosi sulla sua spada.)
Nè posso ancora
Morir? Nè muojo?... Oh soldati! Alcun venga
Che mi finisca.

Entra DERCETA e alcune GUARDIE.

1º Soldato.
Qual romor?

Antonio.
Mal feci.
Io cominciai; finite, o amici, l’opra.

2º Soldato.
L’astro cadde.

1º Soldato.
E il suo giro or compie il tempo.

Tutti.
2560
Oh sciagura, oh dolor!

Antonio.
Chi di più mi ama,
Mi dia morte.

1º Soldato.
Non io.

2º Soldato.
Ned io.

3º Soldato.
Nè alcuno.

Derceta.
Fuggono la tua fine e le tue sorti
I tuoio seguaci. – A Cesare recando,
Con tal novella, questa spada, io m’apro
2565
Fino a lui buon cammino.

Entra DIOMEDE.

Diomede.
Dov’è Antonio?

Derceta.
Là, Dïomede.

Diomede.
Vivo? – Non rispondi?

(Derceta parte.)

Antonio.
Tu, Dïomede? – Oh! traggi il ferro, e dammi
Tal colpo che mi spenga.

Diomede.
O sommo duce,
Clëopatra m’invia, la mia regina.

Antonio.
2570
E quando t’invïò?

Diomede.
Pur ora.

Antonio.
Ed essa,
Ov’è?

Diomede.
Nel sepolcro chiusa. – Avea
Di quel che avvene una presaga tema;
E te veggendo (con pensiero ingiusto)
Sospettar ch’ella die’ patti segreti
2575
A Cesare, e che insano ti rendea
Cotesto tuo furor, ti mandò annuncio
Che morta ell’era. Ora, per me, temendo
Del messaggio l’effetto, il ver ti scopre:
E tremo sol, che troppo tardi io giunsi.

Antonio.
2580
Sì, troppo tardi, buon Diomede. – Appella
Le mie guardie.

Diomede.
Olà, guardie! olà vi chiama
Il vostro imperator.

Entrano alcune GUARDIE.

Antonio.
Dove s’è ascosa
Clëopatra, recatemi, o miei fidi:
Questo io chieggo da voi servigio estremo.

1º Guardia.
2585
Quale angoscia, che a tutti i tuoi seguaci
Non sorvivi, oh signor!

Tutti.
Giorno nefasto!

Antonio.
Del dolor vostro non s’allieti, o miei
Compagni, il fato iniquo: a noi venga
Il punitor nemico, e sia punito
2590
Dall’incuranza nostra. – Oh, mi reggete!
Vi guidai spesso; or me portate voi
Fedeli amici, e la mercè n’abbiate.

(Le guardie partono, trasportando Antonio.)

SCENA XIII.

Alessandria. – Dinanzi al Mausoleo.
Entrano, a un piano superiore del monumento, CLEOPATRA, CARMIONE e IRA.

Cleopatra.
Carmione, io qui starò per sempre.

Carmione.
O mia
Signora, ti conforta.

Cleopatra.
No, non voglio!
2595
Tutti i più feri e più tremendi casi
Accetto e invoco, ma il conforto io sprezzo.
Perchè risponda a sua cagione, immenso
Come questa esser deve il dolor mio.

Entra DIOMEDE.

Cleopatra.
Che rechi?... morto egli è?

Diomede.
Morte lo preme,
2600
Ma non è spento. Dall’ opposto fianco
Del mausoleo riguarda: i suoi guerrieri
Qui lo recano.

Entra ANTONIO, portato dalle sue guardie.

Cleopatra.
O sole, ardi e consuma
La vasta orbita tua! buio ricopra
Dell’universo la mutabil faccia!
2605
Oh Antonio, oh Antonio! – Carmïon, m’aita:
Ira, tu ancor! Di là, voi tutti, o amici,
Lo sorreggete, a me il recato in alto.

Antonio.
Silenzio! – Non di Cesare il valore
Travolse Antonio: egli sè stesso vinse.

Cleopatra.
2610
Esser questo dovea; domare Antonio
Niun potè fuor che Antonio. – Pur, qual grande
Sciagura fu!

Antonio.
Vedi, o donna d’Egitto,
Morente io son, morente; e un sol da morte
Istante impetro, ond’io di mille e mille
2615
Baci l’estremo sul tuo labbro posi.

Cleopatra.
Non oso, o mio diletto, – deh perdona!
Scender di qui non oso; ch’io sarei
Fatta captiva. La superba pompa
Del fortunato Cesare giammai
2620
Non s’ornerà di me. Se i ferri han punta,
Se han dardo i serpi, opra i veleni, io sono
Secura! Ottavia, la consorte tua,
Dagli atti schivi e dal ritroso ciglio,
Mai d’affisarsi in me non avrà il vanto. –
2625
Ma vieni, Antonio, oh vieni! – Ancelle, aita!
Qui dobbiam ricovrarlo – oh m’assistete,
Amici!

(Gittando dall’alto delle corde, a cui le guardie attacano Antonio.)

Antonio.
Oh presto!... io vengo meno. –

Cleopatra.
(Traendo a sè le corde.)
Un’ardua
Prova, inver! Quanto è grave! – Ohimè! già tutta
La mia lena s’effuse in questo affanno
2630
Che mi preme. Foss’io potente al paro
Di Giuno, te recato avria Mercurio
Su le forti ale sue di Giove al fianco.
Oh vieni!... Chi desìa, vaneggia spesso.
Ancora un breve sforzo! Oh vieni, vieni.
(Antonio è levato in alto: essa lo abbraccia.)
2635
Ben venuto sei qui!... Qui muori, dove
Hai vissuto. Oh ti rendano la vita
I baci! Se potessi a te ridarla
Con le mie labbra, strugger le vorrei
Baciandoti.

Tutti.
Oh fatal vista!

Antonio.
Morire
2640
Io mi sento morir!... Di vino un sorso
Mi date; e ch’io ti parli un poco.

Cleopatra.
Ah taci!
Parlar me lascia: vo’ scagliar tali onte
A Fortuna, la perfida noverca,
Che dessa franga, per furor, la ruota.

Antonio.
2645
Una sola parola, o mia regina!
L’onor tuo rendi in un salvo e la vita,
Apo Cesare. Ahi!...

Cleopatra.
L’un non va con l’altra.

Antonio.
M’odi, o gentil: fra quanti son devoti
A Cesare, t’affida a Proculeio.

Cleopatra.
2650
Al mio braccio m’affido, all’alma mia,
Non di Cesare a’ ligii.

Antonio.
Il miserando
Mutamento del mio fine supremo
Non lagrimar: consola i tuoi pensieri,
Con lor tornando alle propizie sorti
2655
De’ primi dì, quando il più grande io fui
Signor dell’universo. – Ed ora, io muojo,
Ma non vil, non abbietto: il mio cimiero
A un cittadin della mia patria rendo.
Roman, me vince un forte eroe romano.
2660
L’alma mia fugge... Io manco.

(Muore.)

Cleopatra.
Come, o grande,
Puoi morir? Nè di me cura più senti?
Devo aver stanza in questo tetro mondo,
Che, te partito, non è più che lezzo? –
O mie fide, vedete! la corona
2665
Della terra è disfatta. – O signor mio! –
Appassì il lauro della guerra, cadde
Del soldato il vessillo; or vanno a paro
D’uomini le fanciulle e i garzonetti:
Altezza più non v’ha! Nulla di grande
2670
Sotto la luna!

(Sviene.)

Carmione.
Oh calmati, regina!

Ira.
Ahi! la signora nostra anch’essa muore.

Carmione.
O signora, signora!

Ira.
Deh regina!...

Carmione.
O nostra alma signora...

Ira.
O imperatrice
D’Egitto!

Carmione.
Ira, deh taci!

Cleopatra.
Omai non sono
2675
Più chuna femminetta, obbedïente
Agli affetti del cor, pari all’ancella
Che munge il latte, e l’opre vili adempie.
Lo scettro mio scagliando a’Numi avversi,
Gridar dovrei che simile all’Olimpo
2680
Era il mondo, pria ch’essi una tal gemma
N’avessero divelta. – Or tutto è un nulla:
È stoltezza il soffrir; giova a rabbioso
Cane l’impazïenzia. È colpa adunque
Nella fonda piombar casa di Morte,
2685
Pria ch’osi Morte a noi venir? – Che fate,
O ancelle?... deh, vi torni il core! – Via,
Buona Carmion! – Dilette mie, vedete:
Manca alla nostra lampa l’alimento...
Più non è! –
(Alle guardie che stanno al basso.)
Ripigliate il cor, miei fidi.
2690
Noi gli daremo tomba; il grande e forte
Atto poi compirem, siccome vuole
L’alto roman costume; e morte fia
Di possederci altera. Andiam, scendiamo!
Questo della sua vasta alma involucro
2695
Già è freddo. – Il nostro gran disegno, o donne,
È il fin più pronto... amico altro non resta.

(Partono, recando con loro il corpo d’Antonio.)

Atto V

SCENA I.

Il campo di Cesare dinanzi ad Alessandria.
Entrano OTTAVIO CESARE, AGRIPPA, DOLABELLA, MECENATE, GALLO, PROCULEIO, e altri.

Cesare.
Va Dolabella, e ch’ei s’arrenda imponi:
Digli che, omai frustrato d’ogni cosa,
L’indugiar suo c’irride.

Dolabella.
T’obbedisco.

(Dolabella parte.)
Entra DERCETA, recando la spada d’Antonio.

Cesare.
2700
Che dir vuol? Chi se’ tu che a noi dinanzi
Osi apparir?

Derceta.
Derceta è il nome mio,
E servii Marco Antonio, l’uom più degno
Del più fido servigio. Fin ch’ei stette,
Fin che parlò, fu signor mio; nè cara
2705
M’ebbi la vita, che per farne getto
Contro i nemici suoi: dove a te piaccia
Fra’ tuoi servi contarmi, e tu m’avrai
Qual fui per esso. Se nol vuoi, mia vita
È tua.

Cesare.
Che vai dicendo?

Derceta.
Io dico a Cesare:
2710
Morto è Antonio.

Cesare.
Il cader di questo grande
Recar dovea crollo più grande; e, tutta
Scompigliata la terra, per le urbane
Strade balzar lïoni, e a le caverne
I cittadini. – D’Antonio la morte
2715
Non è d’un solo il fato. Era in quel nome
Metà del mondo.

Derceta.
O Cesare, egli è morto:
Ma nol percosse il gladio della legge,
Od un compro pugnal: sì, con la mano,
Con quella stessa man che tanta gloria
2720
Nelle sue geste ha scritto, egli animoso,
Come il cor gli spirava, il cor s’aperse.
Il ferro è questo, ch’io dalla sua piaga
Involai; mira, del più nobil sangue
Ancor bagnato.

Cesare.
Alla tristezza, o amici,
2725
Cedete pur. Mi dannino i Celesti,
Se non dee questo annunzio empir di pianto
Le pupille dei re.

Agrippa.
Così natura
Ci sforza a lamentar quel ch’era pria
Il più atteso successo.

Mecenate.
Il merto in lui
2730
E il disonor pendeano in equa lance.

Agrippa.
L’umana nave mai non resse spirto
Più raro: ma voi, Numi, ne lasciate
Qualche fralezza, che noi faccia accorti
Ch’uomini siamo. – Cesare è commosso.

Mecenate.
2735
Quando innanzi gli sta specchio sì vasto,
Convien ch’ei vi si miri.

Cesare.
O Antonio! A tanto
Io ti condussi. Ma in noi son malori
Che il ferro dee sanar. Ben era forza
Fossi tu spettator di mia ruina,
2740
Ovver io della tua; loco non era
All’uno e all’altro insiem nell’universo.
Pur, ch’io, con quelle lagrime supreme
Che sanguinan dal cor, pianga il tuo fato!
Tu fratello, consorte in ogni impresa,
2745
Tu nell’impero a me collega, e amico
In faccia alle battaglie, tu mio saldo
Braccio, tu cor, donde nel mio s’accese
Ogni grande pensier! Perchè le nostre
Stelle dovean, tra lor così nemiche,
2750
Correre opposta via? – M’udite, amici.
Ma di ciò noi diremo in miglior tempo...

Entra un MESSAGGIERO.

Cesare.
Or di quest’uom l’aspetto alcun messaggio
Ne arreca. – Diamgli orecchio. Onde ne vieni?

Il Messo.
Povero egizio io son. La mia regina
2755
E signora, dall’ultimo confine
Che a lei riman, la tomba sua, mi manda
Esplorator de’ tuoi disegni; ond’ella
S’apparecchi alla via ch’elegger deve.

Cesare.
Dille che il cor rinfranchi: in breve, noto
2760
Per alcun nostro fido a lei faremo
Qual le serbiamo degna e orrevol sorte:
Poi che Cesare in petto ingenerosa
Alma non ha.

Il Messo.
Te faccian salvo i Numi.

(Parte.)

Cesare.
Odimi, Proculeio: t’affretta, e dille
2765
Che farle ingiuria non vogliam; conforto
Le dona, come il suo patir richiede:
Tal ch’essa non s’attenti, per disdegno,
Con un colpo mortal tôrsi per sempre
Di nostra mano. Se trarla vivente
2770
N’è dato in Roma, avrem trïonfo eterno.
Vanne, e, più ratto che tu il puoi, ne reca
Ciò ch’ella dice, e qual ne fai pensiero.

Proculeio.
Cesare, t’obbedisco.

(Proculeio parte.)

Cesare.
Il segui, o Gallo. –
Dolabella dov’è, che lo secondi?

(Gallo parte.)

Agripa. e Mecenate.
2775
Dolabella!

Cesare.
No, no: sovvienmi a quale
Incarco lo mandai; quand’è mestieri,
Verrà. Nella mia tenda mi seguite;
Vo’ dirvi come astretto a questa guerra
Co riluttanza io fui: quale pacato
2780
Spirto, quanta mitezza in ogni mio
Scritto serbai; venite, e lo vedrete.

(Partono.)

SCENA II.

Alessandria. – L’interno del monumento.
Entrano CLEOPATRA, CARMIONE e IRA, sue ancelle.

Cleopatra.
Lo sconsolato cor vita ripiglia.
Esser Cesare, ahi sorte abbominata!
Ei non è la Fortuna, ei n’è lo schiavo,
2785
Di sue voglie è il ministro. Invece, è cosa
Alta e grande compir l’atto che chiude
Ogni opra umana, l’atto che incatena
Gli eventi, che insepolcra ogni vicendi,
Che per sempre ne assonna, e dell’abbietto
2790
Fango ne fastidisce, ove del paro
Cesare ed il mendico hanno la cuna.

Entrano PROCULEIO, GALLO e soldati, fermandosi alla porta del monumento.

Proculeio.
D’Egitto alla regina invia salute
Cesare; e le profferte, ch’essa brama
Vedere accolte, a ripensar la invita.

Cleopatra.
2795
Qual’ è il tuo nome?

(Dall’interno.)

Proculeio.
Proculeio.

Cleopatra.
Sovvienmi
Che Antonio mi dicea d’averti fede:
Ma ch’altri mi tradisca, in ver, non curo;
Chè l’altrui fè più non mi giova. Riedi
Al signor tuo; se di veder gli aggrada
2800
Mendìca una regina, essa non meno
D’un regno deve mendicar da lui,
Per la propria grandezza. Questo digli;
E se a lui piace il conquistato Egitto
Darmi pel figlio mio, di tal suo dono,
2805
Parte de’ miei possessi, a lui prostrata
Renderò grazie.

Proculeio.
Ti conforta; in mano
Di gran prence caduta, aver non puoi
Tema alcuna, ma libera t’affida
Del mio signore al pieno arbitrio; è tanta
2810
La sua mercè, ch’egli n’è largo a ognuno
Che a lui si volga. Assenti ch’io gli rechi
La tua sommissïon: clemente e buono
Vincitor troverai, che si fa mite
A chi si prostra e mercè invoca.

Cleopatra.
(Dall’interno.)
Digli
2815
Ch’io son mancipia a sua fortuna, e tutto
A lui cedo il poter, ch’è suo conquisto.
All’obbedir, d’ora in ora, m’avvezzo:
Di vederne l’aspetto è in me desìo.

Proculeio.
Gli annunzierò il tuo voto. Abbi conforto,
2820
Signora: io so, che della tua sventura
Colui che n’è cagion pietà già sente.

Gallo.
(A’soldati.)
Ch’ella sia qui sorpresa è facil cosa.
(Proculeio, con altri due soldati, sale al Monumento, per messo d’una scala appogiatta alla loggia; e, penetrato appena, sorprende Cleopatra. I soldati levano le barre dall’ingresso.)
Vegliate, fin che Cesare sorgiunga.

(Gallo parte.)

Ira.
Oh regina!

Carmione.
Cleopatra, o mia regina,
2825
Captiva sei.

Cleopatra.
Mia mano, al ferro!

(Traendo un pugnale.)

Proculeio.
Ah ferma,
Alta regina, ferma! A te medesma
Non attentar così: non a tradirti,
A farti salva io venni.

Cleopatra.
Sì, da morte
Che sottragge al martiro anco un vil cane?

Proculeio.
2830
Non fare oltraggio, col finir te stessa,
Del mio signore alla clemenza: il mondo
La generosa applauda alma di lui;
Nè la tua morte siagli inciampo.

Cleopatra.
O morte,
Dove sei? Vieni a me, vieni, deh vieni!
2835
Molte mendichi e pargoli non vale
Una regina?

Proculeio.
Deh! ti calma.

Cleopatra.
M’odi:
Non gusterò più cibo nè bevanda;
Se dir parole vane ancor m’è forza,
Non dormirò, struggerò questa mia
2840
Veste mortal, di Cesare a dispetto.
Lo sappi, innanzi al tuo signore e a’ suoi
Non io comparirò, di ferri cinta;
N’è l’ontà vo’ patir de’ guardi alteri
Della stupida Ottavia. Estiman essi
2845
Di trascinarmi in mostra all’ululante
Feccia di Roma insultatrice? Dolce
E più cara a me fia la sepoltura
Entro un’egizia fossa, oppur del Nilo
Giacer nel loto ignuda, orribil preda
2850
Degl’insetti e de’ vermi, o di mia terra
Le piramidi aver palco di morte,
E starvi appesa alla catena mia!

Proculeio.
Gli orror, che va creando il tuo pensiero,
Mai non avran da Cesare cagione.

Entra DOLABELLA.

Dolabella.
2855
Quel che tu fêsti, o Proculeio, seppe
Il signor tuo, che a sè ti appella. Io stesso
Alla regina veglierò.

Proculeio.
Tal sia,
Dolabella: io consento. A lei sii mite. –
(Poi a Cleopatra.)
A Cesare dirò quel che tu brami,
2860
Se a lui tu m’accomandi.

Cleopatra.
Questo digli,
Ch’io vo’ morir.

(Parte Proculeio co’ soldati.)

Dolabella.
T’è noto il nome mio,
O imperatrice?

Cleopatra.
Dir nol so.

Dolabella.
Per certo,
Mi conosci.

Cleopatra.
A che giova que che udii,
Quel ch’io so? Se fanciullo o femminetta
2865
Ti narra i sogni suoi, tu ridi: forse
Un tal vezzo non hai?

Dolabella.
Non ti comprendo.

Cleopatra.
Che fu un imperador, nomato Antonio,
Sognai: perchè quel sogno a me non torna,
Ond’io rivegga il grande?

Dolabella.
Se il consenti...

Cleopatra.
2870
Splendida, come il ciel, la fronte avea,
Donde il sole e la luna, in ampio giro,
Vestian di luce il breve orbe terreno.

Dolabella.
Sovrana creatura...

Cleopatra.
Egli reggeva
Il fren dell’oceàno; il sollevato
2875
Suo braccio fu il cimier del mondo; e parve
Delle sfere armonia la sua parola,
Se agli amici sonò; l’urlo del tuono,
Quand’ei sua legge all’universo impose:
Mai sua clemenza non conobbe verno;
2880
Era un autunno, che il ricolto istesso
Vie più feconda: i piacer suoi, sembianti
A delfini che scherzano sul tergo
Del flutto dove han vita; il suo cimiero
Intrecciato di bende e di corone;
2885
E, per mercè, largiva isole e regni.

Dolabella.
O Clëopatra!

Cleopatra.
Estimi tu che visse,
O viver possa, un uom simìle a questo
Che fu mio sogno?

Dolabella.
No, gentil regina.

Cleopatra.
Menti, alla faccia de’ Celesti. O sia
2890
Tra noi vissuto, o possa apparir mai,
Tal uom soverchia ogni poter d’un sogno.
Spesso Natura al paragon non regge
Col pensiero che crea; ma pur, creando
Un Antonio, Natura assai più grande
2895
Fu del pensiero, e rincacciò nel nulla
Qualunque imaginar.

Dolabella.
M’ascolta. Pari
Alla grandezza è la sventura tua;
E a tanto pondo il tuo dolor conviene.
Sì, un bramato successo ognor mi fugga,
2900
Se qui dentro, del core alla radice,
Non ripercote questo immenso affanno.

Cleopatra.
N’abbi mercede. Sai che pensi, o voglia
Cesare far di me?

Dolabella.
M’è cruccio dirti
Quel che a te noto già vorrei.

Cleopatra.
Ten prego...

Dolabella.
2905
Ben ch’ei sia generoso...

Cleopatra.
Al suo trionfo
Trarmi ei vuole?

Dolabella.
Lo vuole; il so.

Voci.
(Di dentro.)
Sgombrate:
Ecco Cesare.

Entrano OTTAVIO CESARE, GALLO, PROCULEIO, MECENATE, SELEUCO, e molti seguaci.

Cesare.
Ov’è questa regina
D’Egitto?

Dolabella.
(A Cleopatra.)
A te l’imperator s’avanza.

(Cleopatra s’inginocchia.)

Cesare.
Sorgi: prostrarti tu non devi. – Oh! sorgi,
2910
Ten prego, o Egitto.

Cleopatra.
Tal vollero i Numi.
Obbedir deggio al signor mio.

Cesare.
Pensieri
Non ascoltar sì avversi: ben che scritto
Col sangue nostro il sovvenir ne sia,
L’onte che al sangue nostro fur recate,
2915
Opre solo del caso, altro non sono.

Cleopatra.
Solo signor del mondo, io non potrei
Con la parola mia, far di me giusta
Difesa; ma, il confesso, alle fralezze
Ahi! già troppo io cedea, che al sesso nostro
2920
Fan vergogna sovente.

Cesare.
O Clëopatra,
Più ne aggrada scemar, che crescer pondo
A quanto avvene. Al nostro intento cedi,
Che benigno t’è molto; e miglior frutto
A te verrà dalla mutata sorte:
2925
Ma se gravarmi d’un atto crudele
Cerchi, e l’esempio seguir vuoi d’Antonio,
Del mite voler mio tu perdi il bene,
E i figli esponi, che vorrei far salvi,
Ad estrema ruina. Udisti; prendo
2930
Da te commiato.

Cleopatra.
Se a te piace, ir puoi
Per tutto il mondo; è tuo: noi qui restiamo
Noi, tua spoglia ed insegna di conquista,
Al loco che tu additi. – O signor mio,
Prendi.

(Gli porge un rotolo.)

Cesare.
(Ai duci.)
Di quanto a lei convien, consiglio
2935
Voi mi darete.

Cleopatra.
Scritto in queste note
Vedrai l’oro, i gioielli, e quanto un giorno
Fu mio possesso: fuor d’alcuna inezia,
Tutto è preciso. – Ov’è Seleuco?

Seleuco.
Al tuo
Cenno, signora.

Cleopatra.
Ecco de’ miei tesori
2940
Il custode. A lui chiedi, sul suo capo,
Se la parte più lieve io n’ho serbata.
Parla il vero, Seleuco.

Seleuco.
Pria vorrei
Suggellate le mie labbra per sempre,
Che, sul mio capo, dir cosa non vera.

Cleopatra.
2945
E che nascosi io mai?

Seleuco.
Quanto al riscatto
Basta di quel che festi noto.

Cesare.
Or via,
Non arrosir, Cleopatra; approvo il tuo
Accorto senno.

Cleopatra.
Vedi, oh vedi come
L’uom va dietro al trïonfo! Ora i miei fidi
2950
Tuoi sono, e se il destin nostro mutasse,
A me verrìano i tuoi. L’ingrato core
Di quel Seleuco di sdegno m’accende,
O, di venale amor non meno infido,
Vile schiavo! – T’arretri? Va, mi sfuggi;
2955
S’anco abbi l’ale, vo’ gli occhi strapparti,
O veltro senza cor, ribaldo abbietto!

Cesare.
Cedi, o buona regina, al pregar nostro.

Cleopatra.
Cesare, oh quanto vitupero! Appena
Vistarmi tu degni, e questa umìle
2960
Onorar pensi con la tua grandezza,
Costui, mio servi, delle mie sciagure,
Con la perfidia sua, la soma accresce!
Buon Cesare, sia pur ch’io mi serbassi
Pochi donneschi vezzi, inutil fregio,
2965
Minuti segni che talor ne piace
Agli amici donar; sia ch’altra cosa
Ponessi a parte, come don più degno
Per Livia e Ottavia, onde propizie averle,
Disvelarmi dovea questo codardo
2970
Per me nudrito? Oh Numi! oh fiero colpo
Che m’atterra più ancor!
(A Seleuco.)
Dagli occhi miei,
Ti togli, vanne, pria che non divampi
Sotto al cenere suo dell’ira il foco! –
Pietà di me, se un uom tu fossi, avresti.

Cesare.
2975
Seleuco, va!

(Seleuco parte.)

Cleopatra.
Questo si sappia; noi
Grandi e possenti, sopportiamo il biasmo
Dell’opre altrui: caduti, delle colpe
Non nostre il pondo sovra noi ricade.
Oh, inver, di pietà degni!

Cesare.
Clëopatra,
2980
Di quanto per te serbi, o festi noto,
Nulla comprender vo’ tra l’altre spoglie
Della conquista; tutto è tuo; disponi
Qual più n’hai grado. Cesare, lo credi,
Mercatante non è, che ponga a prezzo
2985
Cose cui vende il mercatante. Or dunque,
Ti fa cor; non crearti nel pensiero
Un carcere, o regina. È nostro intento
La sorte tua fissar, col tuo consiglio.
Va, ti ciba, e riposa. Tu ne induci
2990
A tal mercè, che tutta a te fidiamo
L’amistà nostra. Vale.

Cleopatra.
O signor mio!

Cesare.
Così non dirmi: vale.

(Parte Cesare, col suo seguito.)

Cleopatra.
Ei mi blandisce,
Ei mi blandisce, o ancelle, perch’io manchi
Al mio grande disegno. – Odi, Carmione.

(Parla, a voce sommessa, a Carmione.)

Ira.
2995
Non più, nobil signora: il chiaro giorno
Cade, e la tenebrosa ora sorviene.

Cleopatra.
(A Carmione.)
Non indugiar: già diedi il cenno; a tutto
Provvidi; va, t’affretta.

Carmione.
T’obbedisco.

Ritorna DOLABELLA.

Dolabella.
La regina dov’è?

Carmione.
(Parte.)
Signor, la vedi.

Cleopatra.
3000
Dolabella?

Dolabella.
A quel giuro che volesti,
E cui l’affetto d’obbedir m’impone,
Fedel qui torno. Cesare t’annunzia
Che alla Siria rivolge il suo viaggio;
E, fra tre giorni, a sè dinanzi ei vuole
3005
Te inviar, co’ tuoi figli. Ora, a te giovi
Tal cenno: il tuo desir, la mia promessa
Così ho compiuto.

Cleopatra.
Ed io mercè ten devo.
O Dolabella.

Dolabella.
No; tuo servo io sono.
Vale, buona regina: far ritorno
3010
A Cesare m’è forza.

Cleopatra.
Amico, vale.
(Dolabella parte.)
Ira, che pensi or tu? – Pupa d’Egitto,
Segnata a dito, al par di me, tu andrai:
E vili artieri, dal crasso grembiule,
Con la squadra e col maglio ci alzeranno
3015
Alla vista di tutti: i densi fiati,
Per rancid’esca olenti, di lor sozzo
Vapor n’avvolgeran.

Ira.
Tolganlo i Numi!

Cleopatra.
È certo, Ira, ben certo. Di procaci
Littori, al par di prostitute, l’acre
3020
Rimbrotto udir, di cantatori osceni
Esser lo scherno, e scorger mimi impronti
Imitarci, e le feste alessandrine
Simular su la scena! Ebbro vedranno
Antonio comparir, vedrò pur io
3025
Da stridulo garzon la gran Cleopatra
Contrafatta posar, come bagascia.

Ira.
O Numi!

Cleopatra.
È certo.

Ira.
Ed io nol vedrò mai:
Il giuro, di questi occhi son più forti
L’ugne mie.

Cleopatra.
Sì, quest’è la via, che spezzi
3030
Ciò ch’ei vanno apprestando, e che travolga
Gli assurdi lor disegni. – Or ben, Carmione?

Entra CARMIONE.

Cleopatra.
Come regina, voi m’ornate, o ancelle;
Recatemi le mie vesti più liete:
Antonio ad incontrar sul Cidno io movo. –
3035
Presto, Ira, va. – Carmione mia, ben tosto
Tutto avrà fin: quando per te compiuta
Fia questa cura, ti darò commiato
Fino al supremo dì. – Recate, or via,
La mia corona, e tutto. – Ond’è tal suono?

(Ira parte. Strepito di dentro.)
Entra una SCOLTA.

La Scolta.
3040
Un villico è qui fuor, che della tua
Regal presenza non soffre il rifiuto:
Ei t’apporta de’ fichi.

Cleopatra.
Ei venga.
(La Scolta esce.)
Quale
Nobil fatto si può, con umil mezzo,
Compir talora! Ei libertà m’apporta.
3045
Il mio proposta è fisso; omai di donna
Più nulla è in me: già dalla fronte al piede
Marmo insensibil sono, e più non fia
La volubile luna il mio pianeta.

Ritorna la SCOLTA con un VILLICO, che reca un canestro.

La Scolta.
Eccoti l’uom.

Cleopatra.
Ti scosta, e qui lo lascia. –
3050
Teco hai del Nilo l’aspide leggiadro,
Che uccide e non dà pena?

Il Villico.
Sì, l’ho meco: ma, per certo, non vorrei farti invito di toccarlo, poichè il suo dente è immortale: chi n’è ferito, è morto, e di rado, o mai, ne rinviene.

Cleopatra.
Alcuno?
Ricordi tu, che sia morto per esso?

Il Villico.
Uomini molti, e donne: anche ieri udii raccontar d’una fra l’altre, onesta benchè fosse un poco mendace, e tale una donna non dovrebb’esser mai, se non in tutta onestà... Intesi, come ne fu morta, e qual doglia ne sentì. Or bene, ella diede assai buon conto del serpentello. Però, chi voglia metter fede in parola di donna poco speri d’uscir salvo da quel ch’essa fa. Potrei fallire, ma certo è che il serpe è un serpe raro.

Cleopatra.
Or vanne, addio.

Il Villico.
T’auguro lieta prova col serpe.

Cleopatra.
Addio.

(Il Villico depone il canestro.)

Il Villico.
Rammenta bene che il picciol serpe obbedisce al suo istinto.

Cleopatra.
3055
Sì, sì, vale.

Il Villico.
E poni mente che non dev’esser fidato a mani incaute; pensa che davvero non è in esso buona natura.

Cleopatra.
Eh via! non ti curar: n’avrem pensiero.

Il Villico.
Nè dargli esca, ten prego; chè non vale cibarlo.

Cleopatra.
Si ciberà di me?

Il Villico.
Non son già così scemo, credo, che anche un dimonio non la vorrebe un’ esca così gentile: cibo degno de’ Celesti è la donna, se un demone non l’acconcia. Ma l’inferno è così ladro, che nelle femmine reca gran dannaggio agl’Idii, e loro ne ruba cinque su dieci.

Cleopatra.
Parti; non più! Vale.

Il villico.
Sì, sì, a te sia propizio il serpe.

(Parte.)
Ritorna IRA, recando un ammanto regio e una corona.

Cleopatra.
Dammi la veste; sul capo mi posa
3060
La mia corona. D’immortal desire
Ardo: non fia mai più che questo labbro
D’egizio grappo gusti il succo. – Or bene?
T’affretta Ira, t’affretta. – Parmi udire
Antonio che m’appella: ecco, io lo veggo
3065
Che si leva, che plaude al mio grand’atto:
Schernir l’odo di Cesare la sorte,
Sorte concessa dagli Dei talora,
Perchè a’ lor sdegni sia velame. – O sposo,
A te vengo! Sia dritto al dolce nome
3070
Il forte animo mio. – Già più non sono
Che foco ed aëre, in più bassa chiostra
L’altre essenze lasciai. – Così: Finisti?
Vieni, e l’estremo calor del mio labbro
Raccogli tu! – Buona Carmione, addio!
3075
Ira, un lungo mio bacio...
(La bacia: Ira vacilla, e cade morta).
In sulla bocca
L’aspide ho forse? Oh! cadi? – Se tu puoi
Far da natura sì gentil partita,
Morte non è che un amplesso d’amante,
Che fere e si desia. – Tu giaci immota?
3080
Oh! se così tu passi, al mondo dici
Ch’ei non è degno d’un saluto.

Carmione.
O dense
Nubi, stillate voi, perch’io dir possa
Ch’anco i Celesti piansero!

Cleopatra.
Il suo fato
M’accusa vile: s’ella prima incontri
3085
Nella sua nube Antonio, di me certo
Le chiederà, donandole quel bacio
Ch’è per me il cielo.
(All’aspide, ch’ella si pone al seno.)
O apportator di morte,
Vieni, e disnodi l’acuto tuo dente
Questo della mia vita arduo viluppo!
3090
T’irrita, o picciol rettile, e il mortale
Tosco distilla. – Oh tu parlar potessi!
E t’udissi nomar stupido bruto
Il gran Cesare!

Carmione.
O stella d’Orïente!

Cleopatra.
Silenzio, deh silenzio! Non lo vedi
3095
Il pargol mio, che va suggendo il seno
Della nutrice che l’addorme?

Carmione.
Ah cessa,
Finisci!

Cleopatra.
Come balsamo è soave,
E dolce come l’aëre... Oh Antonio! – Il mio
Braccio a te ancor.
(A un altro aspide da cui si lascia cingere il braccio.)
Restarmi a che dovrei?...

(Cade sovra un letto, e spira.)

Carmione.
3100
Qui, nel mondo deserto? – Or dunque, addio!
Inogoglisci, o Morte! Ecco possiedi
Incomparabil creatura. –
(Le chiude gli occhi.)
O voi,
Velati occhi, chiudetevi per sempre!
Pupilla sì regal mai più non miri
3105
L’aureo Febo. – Scomposta è la corona,
Io la rilevo; e por da te mi parto.

Entrano alcuni SOLDATI, accorrendo.

1º Soldato.
La regina dov’è?

Carmione.
Sommeso parla,
Che non si desti.

1º Soldato.
Cesare ne invia...

Carmione.
Messaggier troppo lento.
(Ponendosi un aspide al seno.)
Oh vien, t’affretta!
3110
Io già ti sento.

1º Soldato.
Accorrete! Sventura!
Cesare fu tradito.

2º Soldato.
Dolabella
Qui, per cenno di Cesare, sorgiunge:
Il chiamate.

1º Soldato.
Che fu? Qual opra è questa,
O Carmione?

Carmione.
Grand’opra, e di sovrana,
3115
Da tanti re discesa, opra ben degna.
Ah soldato!

(Muore.)
Entra DOLABELLA.

Dolabella.
Che mai qui accade?

1º Soldato.
Mira;
Tutte morte.

Dolabella.
Così, quel che temesti,
O Cesare, s’avvera. E qui, tu giungi
Per veder già compiuto il caso orrendo
3120
Che prevenir volesti.

Voci
(di dentro.)
Il passo date
A Cesare.

Entra OTTAVIO CESARE col suo seguito.

Dolabella.
Signor, troppo verace
Augure fosti. Quel che pria temevi,
Avvenne.

Cesare.
Eroica fine! Il nostro intento
Previde; e da regina ell’è partita,
3125
Per la più degna via. – Come son morte?
Sangue non veggo qui.

Dolabella.
Chi mai da loro
Ultimo si staccò?

1º Soldato.
Villico ignoto,
Che a lei porse de’ fichi. Ecco il canestro.

Cesare.
Avvelenati frutti!

1º Soldato.
Era pur dinanzi
3130
Questa Carmione in vita, e su reggea
E parlava: io la vidi il dïadema
Sul capo della sua morta signora
Racconciar: tremò tutta, e d’improvviso
Traboccò al suolo.

Cesare.
O sublime fralezza!
3135
Se trangugiato avesser tosco, esterna
Ne vedremmo la traccia: ma dormente
Par Clëopatra ad un novello Antonio
Far dolce invito con la grazia sua.

Dolabella.
Qui, sovra il seno, una riga di sangue,
3140
Ed un live gonfior; gl’istessi segni
Al braccio.

1º Soldato.
Son di un aspide le traccie:
Queste foglie di fico hanno il bavoso
Umore, che le serpi entro gli spechi
Lascian del Nilo.

Cesare.
Esser ben può che morte
3145
Così cercasse: senza fin tentate
Esperïenze fûr da lei, me’l disse
Il suo medico istesso, onde morire
Più dolcemente. – Or via, la deponete
Sul suo letto: da questo mausoleo
3150
Escan le ancelle. Ell’abbia tomba al fianco
D’Antonio suo: nè sì famosa coppia
Chiuderà mai nessun sepolcro al mondo.
Alti casi su lor che li han compiuti
Ricadono; e vivran nelle pietade
3155
De’ tempi, e nella fama di colui
Che li condusse a così mesta fine.
Le schiere tutte, con solenne mostra,
Ne seguiranno il funeral corteggio:
Indi, a Roma. – Tu stesso, o Dolabella,
3160
Vigila e guida questa eccelsa pompa.

(Partono.)