Accademia degli Intronati

Gl'Ingannati





Texto utilizado para esta edición digital:
Accademia degli Intronati, Gl’Ingannati, Marzia Pieri (ed.), Corazzano (Pisa), Titivillus, 2009.
Marcación digital para Artelope:
  • Romeu Guallart, Luis María (Artelope)

Recitatori della comedia

GHERARDO, vecchio
VIRGINIO, vecchio
CLEMENZIA, balia
LELIA, fanciulla
SPELA, servo di Gherardo
SCATIZZA, servo di Virginio
FLAMMINIO, innamorato
PASQUELLA, fante di Gherardo
ISABELLA, fanciulla
GIGLIO, spagnuolo
CRIVELLO, servo di Flamminio
MESSER PIERO, pedante
FABRIZIO, giovinetto figliuolo di Virginio
STRAGUALCIA, servo del pedante
AGIATO, oste
FRULLA, oste
FANCIULLINA, figliola della balia

Atto I

Scena 1

Gherardo e Virginio vecchi.

GHERARDO
Fa’ adunque, Virginio, se desideri in questa cosa farmi piacere, come hai detto, che quanto più presto sia possibile si faccino queste benedette nozze; e cavami una volta di così intrigato laberinto nel quale non so come disavedutamente son corso. E, se pur qualche cosa ti tenesse, come il non aver danari per le veste (ché ben so che ‘l tutto perdesti nel miserabil sacco di Roma) e paramenti per la casa, o per aventura ti trovasse male agiato di proveder per le nozze, dimelo senza rispetto: ché a tutto provederò io. Né mi parrà fatica, purché questa cosa segua un mese prima, per cavarmi questa cosa segua un mese prima, per cavarmi questa voglia, spendere undici scudi più, ché, per grazia di Dio, so dove sono. E ben cognosci tu che ormai niun di noi è più erba di marzo, ma si ben di maggio e forse… E quanto più si va in là più si perde tempo. Né ti maravigliar, Virginio, che tanto te ne importuni, ch’io ti do la mia fede che, perch’io sono entrato in questa girandola, non dormo la metà della notte; e, che sia vero, guarda a che ora mi son levato questa mattina, e sappi che, prima ch’io venissi a te per non destarti, avevo udita la prima messa a duomo. E se forse avessi mutata fantasia e paresseti che con gli anni di tua figliuola non s’affacesseno i miei, che già sono agli «anta» e forse gli passano, dimmelo arditamente, perché a tutto provederò voltando i pensieri altrove e te e me liberarò in un punto di fastidio, ché ben sai s’ io son ricerco d’imparentarmi con altri.

VIRGINIO
Né questo né altro rispetto mi terrebbe, Gherardo, se fusse in arbitrio mio di poterti fare oggi sposar mia figliuola, ch’io non lo facesse. Ed avenga che quasi ogni mia facultà perdesse nel sacco, ed insieme Fabrizio, quel mio benedetto figliuolo, pur, grazia di Dio, mi è rimasto ancor tanto di patrimonio ch’io spero poter vestire e far le nozze di mia figliuola senza gravare alcun che mi sovenga. Né pensar ch’io mi sia per mutare di quel ch’io t’ho promesso, quando la fanciulla se ne contenti, ché ben sai tu che non sta benne a’ mercatanti mancar di quello ch’una volta promettono.

GHERARDO
Cotesta è una cosa, Virginio, che più si sente in parole che non si truova in fatti fra’ mercatanti de’ nostri tempi. Ben credo che non sia tu di quelli; nondimeno, il vedermi menar d’oggi in domane, e di domane nell’altro, mi fa sospettar non so che; né ti cognosco io per così da poco che, quando vorrai, non facci far tua figliuola a tuo modo.

VIRGINIO
Ti dirò. Tu sai che m’accadde l’andare a Bologna per saldar la ragione d’un traffico che aveamo insieme messer Buonaparte Ghisilieri, il cavalier da Casio ed io; e perch’io sono in casa solo ed abitavo in villa, non volsi lasciar mia figliuola in man di fantesche; ma la mandai nel monister di San Crescenzio, a suor Camilla sua zia, ove è ancora, ché sai ch’io tornai iersera. Ora io ho mandato il famiglio a dirgli che la torni.

GHERARDO
Sai tu certo ch’ella sia nel monistero e ch’ella non sia altrove?

VIRGINIO
Come, s’io il so? Dove vuo’ tu ch’ella sia? Che domanda è questa?

GHERARDO
Dirotti. Son stato certe volte là per mie facende ed honne domandato; e mai non l’ho potuta vedere; e alcune mi hanno detto ch’ella non v’è.

VIRGINIO
Gli è perché quelle buone madri la vorrebon far monaca per redare, dopo la morte mia, questo poco di resto. Ma non per questo gli riuscirebbe il pensiero, ch’io non son però sì vecchio ch’io non sia atto ad avere un par di figliuoli quando io tolga moglie.

GHERARDO
Vecchio? Oh, ti prometto ch’io mi sento così bene in gambe ora come quando io ero di vinticinque anni, e massimamente la mattina, prima ch’io pisci. E, s’io ho questa barba bianca, nella coda son così verde come il poieta toscano. E non vorrei che niun di questi sbarbatelli, che van facendo il bravo per Modena col pennacchio ritto alla guelfa, con la spada alla coscia, col pugnal di dietro, con la nappa di seta, mi vincessero in cosa nissuna eccetto che nel correre.

VIRGINIO
Tu hai buono animo; non so come le forze riusciranno.

GHERARDO
Vorrò che tu ne domandi Lelia come sarà la prima notte dormita con me.

VIRGINIO
Or, col nome di Dio, ti bisogna avergli discrezione, perché l’è pure ancor fanciulla e non è buono, in principio, d’esser così furioso.

GHERARDO
Che tempo ha?

VIRGINIO
Quando fu il sacco di Roma, ch’ella ed io fumo prigioni di que’ cani, finiva tredici anni.

GHERARDO
Gli è appunto il mio bisogno. Io non la vorrei né più giovane né più vecchia. Io ho le più belle veste, e’ più bei vezzi e le più belle collane e’ più bei finimenti da donne che uom di Modena.

VIRGINIO
Sia con Dio! Son contento d’ogni suo bene e tuo.

GHERARDO
Sollecita.

VIRGINIO
Della dote, quel ch’è detto è detto.

GHERARDO
Credi ch’io mi mutasse? A Dio!

VIRGINIO
Va’ in buona ora! (Certo, che ecco la sua balia: che mi torrà fatica di mandarla a chiamare perché accompagni in qua Lelia).

Scena 2

Clemenzia balia e Virginio vecchio.

CLEMENZIA
(Io non so quel che si vorrà indovinare, ché tutte le mie galline hanno fatto questa mattina sì fatto il cicalare che pareva che mi volesser metter la casa a romore o arricchirmi d’uova. Qualche nuova cosa m’interverrà oggi, ché non mi fanno mai questa cantèpola che quel dì non senta o non m’avvenga qualche cosa mal pensata).

VIRGINIO
(Costei debbe testé parlar con gli angeli o col beato padre guardiano di Santo Francesco).

CLEMENZA
(Ed un’altra cosa m’è avvenuta, che anco di questo non so che me ne indovinare, benché ‘l mio confessore mi dica ch’io fo male a por mente a queste cose e dar fede alli auguri).

VIRGINIO
Che fai che tu parli cosi drento a te? Egli ha pur passata la Befania!

CLEMENZA
Oh, buon dì, Virginio! Se Dio m’aiuti, ch’io mi venivo a stare un pezzo con voi! Ma voi vi sète levato molto per tempo; voi siate il ben venuto!

VIRGINIO
Che dicevi cosi fra’ denti? Pensavi forse di cavarni di mano qualche staiuol di grano, o qualche boccal d’oglio, o qualche pezzo di lardo, come è tua usanza?

CLEMENZA
Sì certo! (Oh che liberalaccio da cavargli di mano! E forse che fa massarizia pei suoi figliuoli?)

VIRGINIO
Che dicevi, dunque?

CLEMENZA
Dicevo ch’io non sapevo pensare quel che si volesse dire che una gattina bella, ch’io ho, che l’ho tenuta quindici dì perduta, questa mattina è tornata; e poi ch’ella ebbe preso un topino nel mio camerin buio, scherzando con esso, mi riversciò un fiasco do Tribiano che me lo aveva dato il predicator di San Francesco perch’io gli fo le boccate.

VIRGINIO
Cotesto è segno di nozze. Ma tu vuoi dir ch’io te ne desse un altro, è vero?

CLEMENZA
Cotesto è vero.

VIRGINIO
Or vedi s’io so’ indivino! Ma che è di Lelia, la tua allieva?

CLEMENZA
Eh, povera figliuola! Quanto era meglio ch’ella non fusse mai nata!

VIRGINIO
Perché?

CLEMENZA
Perché, dici, eh? Gherardo Foiani non va dicendo per tutto che gli è sua moglie e che gli è fatto ogni cosa?

VIRGINIO
Dice il vero. Perché? Non ti par forse ch’ella sia bene allogata, in una casa onorevole, a un ricco ben fornito di tutti i beni, senza avere niuno in casa, che non avrà a combattere né con suociara né con nuora, né con cognate, che sempre stanno come cani e gatte, e trattralla da figliuola?

CLEMENZA
È contesto il male: ché le giovani vogliono essere trattate da mogli e non da figliuole, e voglion chi le strani, chi le morda e chi l’accenci ora per un verso e ora per un altro, e non chi le tratti da figliuole.

VIRGINIO
Tu credi che tutte le donne sien come te? Ché sai che ci conosciamo. Ma e’ non è così, benché Gherardo, ha un buono animo di trattarla da moglie.

CLEMENZA
E come, che ha degli anni passati cinquanta?

VIRGINIO
Che ‘mporta cotesto? Io so’ pur quasi al medesimo, e tu sai pur s’io son buon giostrante o no!

CLEMENZA
Oh, de’ par vostri se ne trovan pochi! Ma s’io credesse che voi glie la desse, prima l’affogarei.

VIRGINIO
Clemenzia, io perdei ciò ch’io avevo; ora mi bisogna fare il meglio ch’io posso. Se Fabrizio, un dì, si trovasse ed io avesse dato ogni cosa a costei, si morrebbe di fame, che non vorrei. Ora io la marito a Gherardo con condizione che, se Fabrizio non si truova infra quattro anni, abbi mille fiorini di dote; se tornasse, ne abbi aver solamente dugento, e del resto la dota egli.

CLEMENZA
Povera figliuola! (So che, se la farà a mio modo…)

VIRGINIO
Che n’è? Quant’ ha che tu non l’hai veduta?

CLEMENZA
Son più di quindici giorni. Oggi volevo andarla a vedere.

VIRGINIO
Intendo che quelle monache la voglion far monaca e dubito che non gli abbin messo qualche grillo nel capo, come è lor costume. Va’ fin là, tu, e digli da parte mia che ella se ne venga a casa.

CLEMENZA
Sapete? Vorrei che mi prestasse due carlini per comprare una soma di legna, ché non n’ho stecco.

VIRGINIO
Diavolo, empiela tu! Orsù! Va’, ché te le comprarò io.

CLEMENZA
Voglio andare prima alla messa.

Scena 3

Lelia da ragazzo chiamata per finto nome Fabio e Clemezia balia.

LELIA
(Gli è pure un grande ardire il mio, quando io il considero, che, cognoscendo i disonesti costumi di questa scorretta gioventù modanese, mi metta sola in questa ora a uscir di casa! Oh come mi starebbe bene che qualcun di questi gioveni scapestrati mi pigliasse per forza e, tirandomi in qualche casa, volesse chiarirsi s’io son maschio o femina e così m’insegnasseno a uscir di casa, così di buona ora! Ma di tutto questo è cagione l’amore ch’io porto a questo ingrato e a questo crudel di Flamminio. Oh che sorte è la mia! Amo chi m’ha in odio, chi sempre mi biasma; servo chi non mi cognosce ed aiutolo, per più dispetto, ad mare un’altra – che, quando si dirà, nissun sarà che lo creda – senza altra speranza che di poter saziare questi occhi di vederlo un dì a mio modo. Ed infino a qui è andato assai ben fatto ogni cosa. Ma, da ora innanzi, come farò? Che partito ha da essere il mio? Mio padre è tornato; Flamminio è venuto ad abitar nella città; e qui non poss’io stare senza esser conosciuta: il che se avviene, io resto vituperata per sempre e divento una favola di tutta questa città. E per questo sono uscita fuora a questa ora per consigliarmi con la mia balia, che da la finestra ho veduta venire in qua, ed insieme con lei pigliarci quel partito che giudicaremo il migliore. Ma prima vo’ vedere s’ella in questo abito mi cognosce).

CLEMENZIA
(In buona fé, che Flamminio debbe essere tornato a stare in Modena, ch’io veggio l’uscio suo aperto. Oh, se Lelia lo sapesse! Gli parrebbe mill’anni di tornare a casa di suo padre. Ma chi è questo fraschetta che tante volte m’attraversa la strada, questa mattina?) Ché pur mi ti metti fra’ piei? Ché non mi ti levi dinanzia? Ché pur ti vai attorniando? Che vuoi da me? Se tu sapesse come i tuoi pari mi piacciono…

LELIA
Dio vi dia il buon dì, mana Scrocca-il-fuso.

CLEMENZIA
Va’. Dàllo pure a chi tu debbi aver dato la buona notte.

LELIA
Se ad altri ho data la buona notte, a voi darò il buon di’, se lo vorrete.

CLEMENZIA
Non mi rompare il capo, ché tu mi faresti, questa mattina… ti so dir io.

LELIA
Sète forse aspettata dal guardian di San Francesco? o pure andate a trovar fra Cipollone?

CLEMENZIA
Doh! che te venga la febre ben ora! Che hai a cercar tu i fatti miei, né dov’io vo, né dov’io stia? Che guardiano? Che fra Cipollone?

LELIA
Oh! Non v’adirate, mona Molta-mena-e-poco-fila.

CLEMENZIA
(Per certo, io conosco costui e non so dove mi pare averlo veduto mille volte). Dimmi, ragazzo: e dove mi cognosci tu che vuoi saper tanto delle cose mie? Levati un poco questa cappa dal volto.

LELIA
Orsù! Fai vista di non mi cognoscere, eh?

CLEMENZIA
Se stai nascosto, né io né altri ti cognoscerà.

LELIA
Tirati un poco più in qua.

CLEMENZIA
Ove?

LELIA
Più in qua. Ora cognoscimi?

CLEMENZIA
Se’ tu forse Lelia? Dolente a la mia vita! Sciagurata a me! Sì, che gli è essa. Oimè! Che vuol dir questo, figliuola mia?

LELIA
Di’ piano. Tu mi pari una pazza, a me. Io m’andarò con Dio se tu gridi.

CLEMENZIA
Parti forse che si vergogni? Saresti mai diventata femina del mondo?

LELIA
Sì, che io son del mondo. Quante femine hai tu vedute fuor del mondo? Io, per me, non ci fu’ mai, ch’io mi ricordi.

CLEMENZIA
Adunque, hai tu perduto il nome di vergine?

LELIA
Il nome no, ch’io sappi, e massimamente in questa terra. Del resto si vuol domandarne gli spagnuoli che mi tenner prigiona a Roma.

CLEMENZIA
Questo è l’onor che tu fai a tuo padre, a la tua casa, a te stessa ed a me che t’ho allevata? che ho voglia di scannarti con le mie mani. Entrami innanzi, veh, ch’io non voglio che tu sia più veduta in questo abito.

LELIA
Oh! Abbi un poca di pazienzia, se tu vuoi.

CLEMENZIA
Oh, non ti vergogni d’esser veduta così?

LELIA
So’ io forse la prima? N’ho vedute a Roma le centinaia. In questa terra, quante ve ne sono che ogni notte vanno in questo abito ai fatti loro!

CLEMENZIA
Coteste son ribalde.

LELIA
Oh! Fra tante ribalde non ne può andare una buona?

CLEMENZIA
Io vo’ saper perché tu vi vai e perché sei uscita del monistero. Oh! Se tuo padre il sapesse, non t’uccidarebbe, povara a te?

LELIA
Mi cavarebbe d’affanni. Tu credi forse ch’io stimi la vita un gran che?

CLEMENZIA
Perché vai così? Dimmelo.

LELIA
Se m’ascolti io tel dirò, e, a questo modo, intenderai quanta sia la disgrazia mia e la cagion per ch’io vada in questo abito fuor del monistero e quel ch’io voglio che in questa cosa tu faccia. Ma tirati più in qua, ché, se alcun passasse, non mi cognoscesse, per vedermi ragionar con teco.

CLEMENZIA
Tu mi fai consumare. Di’ presto, ch’io morrò disperata. Oimè!

LELIA
Sai che, dopo il misarabil sacco di Roma, mio padre, perduta ogni cosa e, insieme con la robba, Fabrizio mio fratello, per non restar solo in casa, mi tolse dai servizi della signora marchesana con la quale prima m’aveva posta; e, costretti dalla necessità, ce ne tornamo a Modana in casa nostra per fuggir quella fortuna ed a viver di quel poco che avevamo. E sai che, per esser mio padre tenuto amico del conte Guido Rangon, non era molto ben veduto da alcuni.

CLEMENZIA
Perché mi dici tu quel ch’io so meglio di te? E so che, per questa cagion, andaste a star di fuore al vostro podere del Fontanile; ed io ti feci compagnia.

LELIA
Ben dici. Sai anco quanto, in que’ tempi, fu aspra e dura la mia vita e, non pur lontana dai pensieri amorosi, ma quasi da ogni pensiero umano, pensando che, per essere io stata in mano di soldati, che ognuno m’aditasse; né credevo poter vivere sì onestamente che bastasse a far che la gente non avesse che dire. E tu ‘l sai, ché tante volte me ne gridasti e mi confortasti a tener vita più allegra.

CLEMENZIA
Se io lo so, perché mel dici? Segue.

LELIA
Perché, se questo non t’avesse ridetto, non potresti saper quel che segue. Avvenne che, in que’ tempi, Flamminio Carandini, per esser de la parte che noi, prese stretta amicizia con mio padre; e, ogni giorno, ogni giorno, veniva in casa; ed alcuna volta molto segretamente mi mirava; poi, sospirando ancora, abbassava gli occhi. E fusti cagion tu di farmene accorgere. A me cominciarono a piacere i suoi costumi, i suoi ragionamenti e i suoi modi molto più che da principio non facevano; ma non però pensavo ad amore. Ma, durando la pratica del suo venire in casa, ed ora uno atto ed ora un segno amoroso facendomi, sospirando, sollecitando, mirandomi, m’accorsi che costui era preso di me non poco; talché io, che non avevo mai più provato amore, parendomi egli degno dov’io potesse porre i mie’ pensieri, m’invaghii sì fieramente che altro ben non avevo che di vederlo.

CLEMENZIA
Tutto questo ancor sapevo.

LELIA
Sai ancor che, essendo partiti li soldati di Roma, volse mio padre tornar là per veder se niente del nostro fusse salvato, ma, molto più, per veder se nuova alcuna sentiva del mio fratello; e, per non lassarmi sola, mi mandò a stare alla Mirandola, fin che tornava, con la zia Giovanna. Quanto mal volentieri mi separasse dal mio Flamminio tu lo puoi dire, che tante volte ne asciugasti le lagrime. Alla Mirandola stei uno anno. Poi, essendo tornato mio padre, sai ch’io tornai a Modena e più che prima innamorata di colui che, essendo il mio primo amore, tanto mi era piaciuto, pensandomi che ancor egli m’amasse come prima aveva mostrato.

CLEMENZIA
Pazzarella! E quanti modanesi hai tu trovati che durin d’amare una donna sola un anno e che in un mese non dien la berta a questa e un mese a quell’altra?

LELIA
Trovailo che tanto appunto si ricordava di me quanto se mai veduta non m’avesse; e, ch’è peggio, ch’ogni suo animo, ogni sua cura ha posta in acquistar l’amor d’Isabella di Gherardo Foiani, come quella che oltre ch’è assai bella, è unica a suo padre, se quel vecchio pazzo non piglia moglie e faccia altri figliuoli.

CLEMENZIA
Egli si crede certo d’averte; e dice che tuo padre te gli ha promesso. Ma questo che tu m’hai detto non fa a proposito del tuo andar vestita da maschio e del tuo essere uscita del monistero.

LELIA
Se mi lassi dire, vedrai che gli è a proposito. Ma, rispondendo a quel di prima, dico che me non averà egli. Tornato che fu mio padre da Roma, gli accade il cavalcare a Bologna per certi intrighi di conti; e, non volendo io più tornare alla Mirandola, mi messe nel monistero di San Crescenzio in compagnia di suor Amabile, nostra parente, finché tornasse, che si pensò di tornar presto.

CLEMENZIA
Tutto questo sapevo.

LELIA
Ivi stando, né d’altro che d’amor ragionare sentendo a quelle reverende madri del monistero, m’assicurai ancor io di scoprire il mio amore a suor Amabile de’ Cortesi. Ella, che ebbe pietà di me, non finò mai ch’ella fece venire più volte Flamminio a parlar seco e con altre acciò che io, in questo tempo, che nascosta dopo quelle tende mi stava, pascesse gli occhi di vederlo e l’orecchie d’udirlo; che era il maggior desiderio ch’io avesse. Venendovi un dì fra gli altri, sentii che molto si rammaricò d’un suo allievo che morto gli era, e molto diceva delle lode e ben servire suo, soggiungendo che, se un simile ne trovasse, si terrebbe più contento del mondo e che gli porrebbe in mano quanto teneva.

CLEMENZIA
(Meschina a me! Io dubito che questo ragazzo non mi facci vivere scontenta!)

LELIA
Subbito mi corse nell’animo di voler provare se a me potesse venir fatto d’esser questo aventuroso ragazzo e, partito ch’ei si fu, conferii questo pensiero con suor Amabile, e, poi che Flamminio non stava per stanza a Modena, veder se seco per servidore acconciar mi potesse.

CLEMENZIA
(Non diss’ io che questo ragazzo… Disfatta a me!)

LELIA
Ella me ne confortò e amaestrommi del modo ch’io avevo a tenere, e accommodommi di certi panni che nuovamente s’aveva fatti per potere ella ancora, alcuna volta, come l’altre fanno, uscir fuor di casa travestita a fare i fatti suoi. E così, una mattina per tempo me ne uscii in questo abito fuor del monistero che, per esser fuor della terra come gli è, mi de’ molto animo e fu molto a proposito. E andamene al palazzo ove Flamminio abitava, che sai che non è molto discosto dal monistero; ed ivi mi fermai tanto che gli usci fuora. E, in questo, non posso se non lodarmi della fortuna, perché subito Flamminio mi voltò gli occhi adosso e molto cortesemente mi domandò se alcuna cosa domandavo e d’onde io era.

CLEMENZIA
È possibil che tu non cadesse morta della vergogna?

LELIA
Anzi, aiutandomi Amore, francamente gli risposi ch’io ero romano, che, per essere rimasto povero, andavo cercando mia ventura. Mirommi più volte dal capo ai piedi, talché quasi ebbi paura che non mi cognoscesse. Poi mi disse che, se mi fusse piaciuto di star seco, mi terrebbe volentieri e mi trattaria bene e da gentile uomo. Io, pur vergognandomi un poco, gli risposi di sì.

CLEMENZIA
Io non vorrei esser nata, sentendoti. E che util ne vedesti, per te, di far questa pazzia?

LELIA
Che utile? Part’egli che poco contento sia d’una innamorata veder di continuo il suo signore, parlargli, toccarlo, intenderei suoi segreti, veder le pratiche che gli ha, ragionar seco ed esser sicura, almeno, che, se tu nol godi, altri nol gode?

CLEMENZIA
Queste son cose da pazzarelle; e non è altro ch’agiugner legna al fuoco, se non sei certa che, facendolo, piaccino al tuo amante. E di che ‘l servi tu?

LELIA
Alla tavola, alla camera. E cognosco essergli venuta, in questi quindici dì ch’io l’ho servito, in tanta grazia che, se in tanta gli fusse nel mio vero abito, beata a me!

CLEMENZIA
Dimmi un poco: e dove dormi tu?

LELIA
In una sua anticamera, sola.

CLEMENZIA
Se, una notte, tentato dalla maladetta tentazione, ti chiamasse ché tu dormisse con lui, come andarebbe?

LELIA
Io non voglio pensare al mal prima che venga. Quando cotesto fusse, ci pensarei e risolvereimi.

CLEMENZIA
Che dirà la gente quando questa cosa si sappia, cattivella che tu sei?

LELIA
Chi lo dirà, se non lo dici tu? Or quello ch’io vorrei che tu facesse è questo: perch’io ho veduto che mio padre tornò iersera e dubito che non mandi per me, che tu facesse sì che, fra quattro o cinque giorni, non ci mandasse o gli desse ad intendere ch’io sono andata con suor Amabile a Roverino e, fra questo tempo, tornarò.

CLEMENZIA
E questo perché?

LELIA
Ti dirò. Flamminio, com’ io tu dissi poco fa, è innamorato d’Isabella Foiani e spesso spesso mi manda a lei con lettere e con imbasciate. Ella, credendo ch’io sia maschio, si è sì pazzamente innamorata di me che mi fa le maggior carezze del mondo; ed io fingo di non volerla amare se non fa sì che Flamminio si levi dal suo amore; ed ho già condotta la cosa a fine, e spero, fra tre o quattro giorni, che sarà fatto e che egli la lasciarà.

CLEMENZIA
Dico che tuo padre m’ha detto ch’io venga per te, e ch’io voglio che tu ne venga a casa mia, ché mandarò pe’ tuo’ panni; e non voglio che sia veduta così, se non che ogni cosa a tuo padre.

LELIA
Tu farai ch’io andarò in luogo che mai più mi vedrete, né tu né egli. Fa’ a mio modo, se tu vuoi. Ma non ti posso finir di dire ogni cosa. Sento che Flamminio mi chiama. Signore! Aspettami fra un’ora in casa, ché ti verrò a trovare. E sai? Abbi avertenzia che, domadandomi, mi chiami Fabio degli Alberini, ché così mi fo chiamare; sì che non errare. Vengo, signore! A Dio!

CLEMENZIA
In buona fé, che costei ha veduto Gherardo che viene in qua; e però s’è fuggita. Or che farò io? Di costei non è cosa da dire al padre e non è da lasciarla star qui. Tacerò fin che di nuovo gli parli.

Scena 4

Gherardo vecchio, Spela suo servo e Clemenzia balia.

GHERARDO
Se Virginio fa quanto m’ha promesso, io mi vo’ dare il più bel tempo ch’uom di Modena. Che ne dici Spela, non farò bene?

SPELA
Credo che molto meglio fareste a far qualche bene ai vostri nepoti, che stentano, ed a me, che v’ho servito tanto tempo e non mi so’ pure avanzato un par di scarpe; ch’io ho paura che questa moglie non vi mandi qui o che la vi faccia… So ben io.

GHERARDO
Vorrò che tu vegga s’ella si terrà ben pagata da me.

SPELA
Credolo: ché, dove un altro la pagarebbe di grossi e di cinquine, voi la pagarete di doppioni e di piccioli.

GHERARDO
Ecco la sua balia. Tace, ch’io voglio astutamente domandare che è di Lelia.

CLEMENZIA
(Oh che bel giglio d’orto da voler moglie si tenera! Credi che fusse ben condotta, quella povera figliuola, nelle man di questo vecchio rantacoso? Alla croce di Dio, che io la strozzerei prima che voler ch’ella fusse data a questo vieto, muffato, baboso, rancido, moccioso. Io ne voglio un poco di pastura. Lassamigli accostare). Dio vi dia il buon dì e la buona mattina, Gherardo. Voi mi parete, questa mattina, un cherubino.

GHERARDO
E a te ne dia centomila e altri tanti ducati.

SPELA
Cotesti starebbon meglio a me.

GHERARDO
O Spela, quanto sarei stato contento s’io fusse costei!

SPELA
Perché avreste, forse, provati molti mariti, ove non avete provato se non una moglie? O pur il dite per altro?

CLEMENZIA
E quanti mariti ho io provati, Spela? che Dio te faci spelar da le mosche! Hai tu forse invidia di non esser stato un di quelli?

SPELA
Sì, per Dio! ché la gioia è bella almanco.

GHERARDO
Tace, bestia, ché non lo dico per cotesto, io, no.

SPELA
Perché lo diceste adunque?

GHERARDO
Perché arei tante volte abbraciata, baciata e tenuta in collo la mia Lelia dolce, di zuccaro, d’oro, di latte, di rose, di non so che mi dire.

SPELA
Oh! ohu! Padrone, andiamo a casa. Su! Presto!

GHERARDO
Perché?

SPELA
Voi avete la febbre e vi farebbe male lo star qui a questa aria.

GHERARDO
Io ho il malan che Dio ti dia. Che febbre! Io mi sento pur bene.

SPELA
Dico che voi avete la febbre: lo conosco ben io, certo e grande.

GHERARDO
So ch’io mi sento bene.

SPELA
Duolvi il capo?

GHERARDO
No.

SPELA
Lasciatemivi toccare un poco il polso. Duolvi lo stomaco o pur sentite qualche fumo andare al cervello?

GHERARDO
Tu mi pari una bestia. Vuo’ mi far Calandrino, forse? Io dico ch’io non ho altro male che di Lelia mia, delicata, inzuccarata.

SPELA
Io so che voi avete la febbre e state molto male.

GHERARDO
A che te ne accorgi tu?

SPELA
A che? Non vi accorgete che voi sète fuor di gangari, farneticate, affannate e non sapete che vi dire?

GHERARDO
Gli è Amor che vuol così, non è vero, Clemenzia? Omnia vincit Amor!

SPELA
(Ohu! Che bel detto da napoletani! Facetis manim, brigata! Mai più fu detto).

GHERARDO
Quella crudelina, traditorina di tua figliana…

SPELA
(Questa non sarà febbre, ma scemamento di cervello. Ohu! Povero a me! come farò?).

GHERARDO
O Clemenzia, mi vien voglia d’abracciarti e di bacciarti mille volte.

SPELA
(Qui bisognaranno le funi, dissi ben io).

CLEMENZIA
Di cotesto guardatevi molto bene, ch’io non voglio esser bacciata da vecchi.

GHERARDO
Paioti così vecchio?

SPELA
(Che credi? Al mio padrone non sono ancor caduti gli occhi fuor di bocca… volsi dire, i denti).

CLEMENZIA
In ogni modo, non avete il tempo che si crede, veggo ben io.

GHERARDO
Dillo a Lelia. E sai? Se mi metti in sua grazia, ti vo’ donare un mongile.

SPELA
(Ehi, liberalaccio! E a me che darete?).

CLEMENZIA
Tanto fusse voi in grazia del duca di Ferrara quanto voi sète in grazia di Lelia, che buon per voi! Ma sì! Voi la dileggiate: ché, se voi gli volesse bene, non la terreste in queste trame, né cercaresti di tuorgli la sua ventura.

GHERARDO
Come torgli la sua ventura? Io cerco di darglila, non di torgliela.

CLEMENZIA
Perché la tenete, tutto questo anno, in su le pratiche di volerla o di non volerla?

GHERARDO
Che pensasi Lelia? Che rimanga da me, adunque?S’io non sollecito ogni dì suo padre, se non è la maggior voglia ch’io abbi al mondo, s’io non volesse che si facesse più presto oggi che domane, che tu mi vegga, fra pochi dì sovr’una bara.

CLEMENZIA
E questo non mancarà, se a Dio piace. Io gli dirò ogni cosa. Ma sapete? La vi vorrebbe vedere andare altramenti, ché così gli parete un pecorone.

GHERARDO
Como «un pecorone»? che gli ho io fatto?

CLEMENZIA
No. Ma perché voi andate sempre avviluppato ne le pelli.

SPELA
(Sarà buon, dunque, che per amor suo si faccia scorticare o che, almanco, corra ignudo per questa terra. Ha’ veduto?)

GHERARDO
Io ho più be’ panni ch’uom di Modena, ho caro che me l’abbi detto. Vorrò che, di qua a un poco, mi vegga altrimenti. Ma dove la potrei vedere? Quando tornerà dal monistero?

CLEMENZIA
Alla porta Bazzovara. Or ora voglio andare a trovarla.

GHERARDO
Ché non mi lassi venir con te, che andarem ragionando?

CLEMENZIA
No, no. Che direbben le genti?

GHERARDO
Io muoio! Oh amore!

SPELA
(Io scoppio. Oh bastone!)

GHERARDO
Oh beata a te!

SPELA
(Oh pazzo che tu se’!)

GHERARDO
Oh Clemenzia avventurata!

SPELA
(Oh bestia mal cignata!)

GHERARDO
Oh latte ben contento!

SPELA
(Oh capo pien di vento!)

GHERARDO
Oh Clemenzia felice!

SPELA
(Oh, in culo avestù una radice!)

GHERARDO
Orsù, Clemenzia, a Dio! Viene, Spela, ch’io mi voglio ire a raffazzonare. Ho deliberato di vestirmi altrimenti per piacere alla mia moglie.

SPELA
L’andarà male.

GHERARDO
Perché?

SPELA
Perché già cominciate a fare a suo modo. Le brache saran pur le sue.

GHERARDO
Vanne alla buttiga di Marco profumiere e comprami un bossol di zibetto, ch’io voglio andare in su l’amorosa vita.

SPELA
I denari ove sono?

GHERARDO
Eccoti un bolognino. Va’ presto. Io m’avvio a casa.

Scena 5

Spela servo e Scatizza servo di Virginio

SPELA
Se ad alcuno venisse voglia di racchiuder tutte le sciocchezze in un sacco, mettivi il mio padrone, ché sarà fatto a punto quanto e’ vuole. E magiormente, or che gli è entrato in questa frenesia d’amore, egli si spela, si pettina, passeggia intorno alla dama, va fuor la notte a’ veglini con la squarcina, canticchia tutto ‘l di con una voce rantacosa, ribalda e con un leutaccio più scordato di lui. E èssi dato, infino, a far le fistole (che gli venghino!) e i sognetti e i capogirli, gli strenfiotti, i materiali e mill’altre comedie: cosa da far creppar di ridere gli asini, nonché i cani. Or vuol portare il zibetto. Al corpo di Dio, che c’impazzerebben le palle! Ma ecco Scatizza che debbe tornar da le monache.

SCATIZZA
(Ti so dir che questi padri che fan le lor figliuole monache debbono esser di que’ buoni uomini del tempo antico di Bartolommeo Coglioni. E forse che non si credono ch’elle stien sempre dinanzi al Crocefisso a pregare Iddio che facci del bene a chi ve l’ha messe? È ben vero che pregano Dio e ‘l diavolo; ma che gli faccia rompare il collo a chi è cagion ch’elle ci sieno).

SPELA
(Voglio intender questa novella).

SCATIZZA
(Com’io bussai alla ruota, subito tutta la stanza s’empì di suore, e tutte giovane e tutte belle come angeli. Comincio a domandar di Lelia. Chi ride di qua, chi sghignazza di là; tutte si facevan beffe del fatto mio, come se io fosse stato un zugo melato).

SPELA
A Dio, Scatizza. E donde si viene? Oh! Tu hai delli zuccarini. Dammene.

SCATIZZA
Il cancar che ti venga, a te e quel pazzo di tuo padrone!

SPELA
Lasciame andare e tira a te. Donde vieni?

SCATIZZA
Dalle monache di Santo Crescenzio.

SPELA
Or be, che è di Lelia? È tornata a casa?

SCATIZZA
La forca tornarà per te! Po’ fare Iddio che quel mentecatto di tuo padrone se la crede avere?

SPELA
Perché? Non lo vuole?

SCATIZZA
Credo di no, io. Parti ch’ella sia carne da suo’ denti?

SPELA
Ella ha ragione, in fine; ma che dice?

SCATIZZA
Niente non dice. Che vuoi ch’ella dica, quando io non l’ho potuta vedere? ché, come io giunsi là e domanda’ la, quelle sgherracce di quelle monache volevan la pastura di me.

SPELA
Altro volevan che la pastura! Più presto il pastorale. Tu non le congnosci bene.

SCATIZZA
Le cognosco meglio di te, così lo’ venisse il cancaro! Vo’ che tu vegga. Chi mi domandava s’io ne sto male, chi si la torrei per moglie, chi diceva ch’ell’era in molle in dormetorio, che s’asciugava, chi ch’ell’era in soppresso nel chiostro. Un’altra mi disse: - Tuo padre ebbe figliuoli maschi? – Oh! – io fui per dire: - Ebbe un ca… cameto. – Tanto che pur m’accorsi che m’uccellavano, ché non volevano ch’io le parlasse.

SPELA
Tu fosti un da poco. Dovevi entrar dentro e dir che la volevi cercar tu.

SCATIZZA
Cancaro! Entrar dentro solo? Va’, là, va’ là: tu mi conciaresti! Oh! Non c’è stallone in Maremma che ci regesse col fatto loro, solo! Monache? Cancaro! Ma io non so posso star più con te, ché ho da rispondere al mio padrone.

SPELA
Ed io ho a comprare il zibetto a quel pazzo del mio.


Atto II

Scena 1

Lelia da ragazzo sotto nome di Fabio e Flamminio giovene innamorato.

FLAMMINIO
Gli è pure una gran cosa, Fabio, che in fino a qui non abbi potuto cavare una buona risposta da questa crudele, da questa ingrata d’Isabella. E pur mi fa creder il vederti dare sempre grata audienzia e l’accoglierti sì volentieri ch’ella non m’abbi in odio; però ch’io non gli feci mai cosa, ch’io sappi, che le dispiacesse. Tu ti potresti accorgere, ne’ suoi ragionamenti, di ch’ella si dolga di me. Ridimmi, di grazia, Fabio: che ti disse ella, iersera, quando v’andasti con quella lettera?

LELIA
Io ve l’ho già replicato vinti volte.

FLAMMINIO
Oh! Ridimelo un’altra volta. Questo che importa a te?

LELIA
Oh! Che m’importa? Importami, ch’io veggo che voi ne pigliate dispiacere; il che così duole a me come a voi. Essendovi, com’io vi sono, servidore, non doverei cercare altro che di piacervi; ché, forse, di queste risposte ne volete poi male a me.

FLAMMINIO
Non dubitar di questo, il mio Fabio, ch’io t’amo come fratello. Cognosco che tu mi vuoi bene e però sia certo ch’io non so’ per mancarti mai; e vedrallo col tempo. Prega Iddio e basti. Ma che diss’ella?

LELIA
Non ve l’ho detto? che il maggior piacere che voi le potiate fare al mondo è di la lasciarla stare e non pensar più a lei, perché l’ha vòlto l’animo altrui; e che, insumma, la non ha occhi con che la vi possi pur guardare; e che voi perdete il tempo e quanto fate in seguirla, perché, alla fine, vi trovarete con le mani piene di vento.

FLAMMINIO
E pare a te, Fabio, che queste cose le dica di cuore o pur ch’ella abbia qualche sdegno con esso me? Ché pur soleva, qualche volta, farmi favore, da un tempo in là. Né posso creder ch’ella mi voglia male, accettando le mie lettere e le mie imbasciate. Io so’ disposto di seguirla fino alla morte. Ben vo’ vedere quel che n’ha da essere. Che ne dice, Fabio? non ti pare?

LELIA
A me no, signore.

FLAMMINIO
Perché?

LELIA
Perché, s’io fusse in voi, vorrei ch’ella l’avesse di grazia ch’io la mirasse. Forse ch’a un par vostro, nobile, virtuoso, gentile, delle bellezze che sète, mancaranno dame? Fate a mio modo, padrone. Lasciatela e attacatevi a qualcun’altra che v’ami; ché ben ne trovarete, sì, e forse di così belle come ella. Ditemi: non avete voi nissuna che avesse caro che voi l’amasse, in questa terra?

FLAMMINIO
Come s’io n’ho? Ve n’è una, fra l’altre, chiamata Lelia (che mille volte ho voluto dire che ha tutta l’effigie tua) tenuta la più bella, la più accorta e la più cortese giovane di questa terra (che te la voglio un di mostrare), che si terrebbe per beata pur ch’io le facesse una volta un poco di favore; ricca e stata in corte; ed è stata mia innamorata presso a uno anno, che mi fece mille favori, di poi s’andò con Dio alla Mirandola. E la mia sorte mi fece innamorar di costei: che tanto m’è stata cruda quanto quella mi fu cortese.

LELIA
Padrone, e’ vi sta bene ogni male perché, se aveti chi v’ama e non gli apprezzate, è ragionevol cosa che altri non apprezzi voi.

FLAMMINIO
Che vuo’ tu dire?

LELIA
Se quella povera giovane fu prima vostra innamorata, ed anco più che mai v’ama, perché l’avete abbandonata per seguire altri? Il qual peccato non so se Iddio ve lo possa mai perdonare. Ahi, signor Flamminio! Voi fate per certo un gran male.

FLAMMINIO
Tu sei ancora un putto, Fabio, e non puoi conoscere la forza d’amore. Dico ch’io son forzato ad amar quest’altra ed adorarla; e non posso, né so, né voglio pensare ad altri che a lei. E però tornagli a parlare e vede se gli puoi cavare di bocca destramente quel ch’ella ha con me, ch’ella non mi vòl vedere.

LELIA
Voi perdete il tempo.

FLAMMINIO
E perder questo tempo mi piace.

LELIA
Voi non farete nulla.

FLAMMINIO
Pazienzia!

LELIA
Lasciatela andar, vi dico.

FLAMMINIO
Io non posso. Va’là, ch’io te ne prego.

LELIA
Io andarò; ma…

FLAMMINIO
Torna con la risposta, subito. Io andarò fino in duomo.

LELIA
Com’ io veggo el tempo, non mancarò.

FLAMMINIO
Fabio, se tu fai questa cosa, buon per te!

LELIA
(A tempo si parte, ché ecco Pasquella che mi viene a trovare).

Scena 2

Pasquella fante di Gherardo e Lelia da ragazzo detto Fabio.

PASQUELLA
(Io non credo che nel mondo si truovi il maggior affanno né il maggior fastidio che servire, una mie pari, una giovane innamorata; e massimamente a quella che non ha d’aver timore di madre, di sorelle o d’altre persone, quale è questa padrona mia che, da certi dì in qua, è intrata in tanta frega e in tanta smania d’amore che né dì né notte ha posa. Sempre si gratta il pettinicchio, sempre si stroppiccia le cosce; or corre in su la loggia, or corre a le finestre, or di sotto, or di sopra; né si ferma altrimenti che s’ella avesse l’ariento vivo in tu piedi. Gesù, Gesù, Gesù! Oh! I’ so’ pure stata giovana ed innamorata la mia parte, ed ho fatto qualche cosetta; e pur mi posavo, talvolta. Almanco si fusse messa a voler bene a qualche uomo di conto, maturo, che sapesse fare i suo’ fatti e gli cavasse la pruzza! Ma la s’è imbarbugliata d’un fraschetta, che a pena credo che, quando gli è sdilacciato, si sappia allacciare s’altri non gli aita. E, tutto ‘l di, mi manda a cercar questo drudo, come s’io non avesse che fare in casa. E forse che ‘l suo padrone non si crede che facci l’ambasciate per lui? Ma gli è per certo questo che viene in qua. Ventura!) Fabio, Dio ti dia il buon dì. Vezzo mio, ti venivo a trovare.

LELIA
Ed a te mille scudi, la mia Pasquella. Che fa la tua bella padrona? e che voleva da me?

PASQUELLA
E che ti credi che la facci? Piagne, si consuma, si strugge che stamattina non sei ancor passato da casa sua.

LELIA
Oh! Che vuol ch’io ci passi innanzi giorno?

PASQUELLA
Credo ch’ella vorrebbe che tu stesse con lei tutta la notte ancora, io.

LELIA
Oh! Io ho da fare altro. A me bisogna servire il padrone. Intendi, Pasquella?

PASQUELLA
Oh! Io so ben che a tuo padron non faresti dispiacere a venirci, non. Dormi forse con lui?

LELIA
Dio il volesse ch’io fusse tanto in grazia sua! ch’io non sarei ne’ dispiaceri ch’io sono.

PASQUELLA
Oh! No dormiresti più volentieri con Isabella?

LELIA
Non io.

PASQUELLA
Eh! Tu non dici da vero.

LELIA
Cosi non fusse!

PASQUELLA
Or lasciamo andare. Dice la mia padrona che ti prega che tu venga tosto fin a lei, ché suo padre non è in casa e ha bisogno di parlarti d’una cosa ch’importa.

LELIA
Digli che, se non si leva dinanzi Flamminio, che perde il tempo: ché la sa ben ch’io mi rovinarei.

PASQUELLA
Viene a dirgliel tu.

LELIA
Io dico che ho altro da fare. Non odi?

PASQUELLA
E che hai da fare? Dacci una corsa, e tornarai subito.

LELIA
Oh! Tu mi rompi il capo, ora. Vatti con Dio.

PASQUELLA
Non vuoi venire?

LELIA
Non, dico. Non m’intendi?

PASQUELLA
In buona fede, in buona verità, Fabio, Fabio, che tu sei troppo superbo. E sai che ti ricordo? che tu sei giovinetto e non cognosci il ben tuo. Questo favore non ti durerà sempre, no. Ne verrà la barba; non arai sempre sì colorite le gotuzze né così rossette le labbra; non sarai così sempre richiesto da tutti, non. Allora cognoscerai quanta sia stata la tua pazzia; e te ne pentirai quando non sarai più a tempo. Dimmi un poco: quanti ne sono, in questa città, che arebben di grazia ch’Isabella gli mirasse? E tu, par che ti facci beffe del pane onto.

LELIA
Perché non gli mira, donque? E lasci star me che non me ne curo.

PASQUELLA
Oh Dio! Gli è ben vero che i giovani non han tutto quel senno che gli bisognarebbe.

LELIA
Orsù, Pasquella! Non mi predicar più, ché tu fai peggio.

PASQUELLA
Superbuzzo, superbuzzo, ti mancarà questo fumo! Orsù, il mio Fabio caro, anima via, vien, di grazia, presto; se non, mi rimanderebbe un’altra volta a cercarte, né crederebbe ch’io t’avesse fatto l’ambasciata.

LELIA
Orsù! Va’, Pasquella, ch’io verrò. Burlavo teco.

PASQUELLA
Quando, gioia mia?

LELIA
Presto.

PASQUELLA
Quanto presto?

LELIA
Tosto. Va’.

PASQUELLA
T’aspettarò all’uscio di casa, veh!

LELIA
Sì, sì.

PASQUELLA
Uh! Sai? Se tu non vieni, m’adirarò.

Scena 3

Giglio spagnuolo e Pasquella fante.

GIGLIO
(Por mia vida, que esta es la vieia biene avventurada que tiene la mas hermosa moza d’esta tierra per sua ama. Oh se le puodiesse io ablar dos parablas sin testigos! Voto a la virginidad de todos los prelatos de Roma que le haré io dar gritos como la gatta de heniero. Mas quiero veer se puedo, con alguna lisonia, pararme tal con esta vieia vellacca alcahueta que me aga alcanzar algo con ella). Buenos dies, madonna Pasquella galana, gentil. Donde venìs vos tan temprana?

PASQUELLA
Oh! Buon dì, Giglio. Io vengo dalla messa. E tu dove vai?

GIGLIO
Buscando mi ventura, se puedo toppar alguna muger che me haga alguna carizia.

PASQUELLA
Oh sì! In buona fé, che vi mancano a voi spagnuoli! ché non ce n’è niun di voi che non n’abbi sempre una decina a sua posta.

GIGLIO
La verdade es, che ne tengo dos; mas non puedo andarà ellas senza periglo.

PASQUELLA
Che! Son gentildonne, forse, di casa porcina, eh?

GIGLIO
Sì, a fé. Mas io querìa trovar una madre que me blancasses alguna vez las camisas me rattopasses las calzas y el giuppon y que me tenesse por fiolo; e io la serviria di buona gana.

PASQUELLA
Cerca, cerca, ché non te ne mancarà, non; ché chi ha le gentildonne, come tu, non gli mancan le fantesche.

GIGLIO
Ya trobada sta, se voi volite.

PASQUELLA
Chi è?

GIGLIO
Voi misma.

PASQUELLA
Eh! Io son troppo vecchia per te.

GIGLIO
Vieia? Voto alla Virgen Maria di Monsurat que me parecceis una moza di chinze o veinte annos. Vieia, non le digais mas, per vostra vida, que non lo puedo soffrir. Vedite più presto se volite farmi qualche piazer, que vederite se vos trattaré da giovane o da vieia.

PASQUELLA
No, no. Galli, via! Non mi voglio impacciar con spagnuoli. Sète tafani di sorte che o mordete o infastidite altrui; e fate come il carbone: o cuoce o tegne. V’aviam tanto pratichi oramai che guai a noi! E vi cognosciamo bene, Dio grazia; e non c’è guadagno coi fatti vostri.

GIGLIO
Guadagno? Giuro a Dios que più guadagnarite con a mi que con el primo gentil ombre de esta tierra; y, aunque vos paresque così male aventurado, io son de los buenos y bien nascidos ydalgos de toda Spagna.

PASQUELLA
Un miracolo non ha detto signore o cavaliere! poi che tutti gli spagnuoli che vengon qua si fan signori. E poi mirate che gente!

GIGLIO
Pasquella, tomma mia amistade, que buon para ti.

PASQUELLA
Che mi farai? signora, eh?

GIGLIO
Non quiero se non que seays mia matre. E io quiero ser vostro figliolo, y, allas vezes, aun marido, se vos verrà bien.

PASQUELLA
Eh lasciami stare!

GIGLIO
(Reióse: eccha es la fiesta).

PASQUELLA
Che dici?

GIGLIO
Que vi voglio donare un rosario para dezir quando es la fiesta.

PASQUELLA
E dove è?

GIGLIO
Veiolo aqui.

PASQUELLA
Oh! Questa è una corona. Ché non me la dài?

GIGLIO
Se volite ser mia madre, io vos la daré.

PASQUELLA
Sarì ciò che tu vuoi, pur che tu me la dia.

GIGLIO
Quando podremos ablar giuntos una hora?

PASQUELLA
Quando tu vuoi.

GIGLIO
Dove?

PASQUELLA
Oh! Io non so dove.

GIGLIO
Non tenì in casa algun logar donde me possa poner io a questa sera?

PASQUELLA
Sì, è. Ma se ‘l padron lo sapesse?

GIGLIO
E que! Non saprà nada, no.

PASQUELLA
Sai? Vedrò stasera se ci sarà ordine. Tu passa dinanzi a casa, e io ti dirò se potrai venire o no. Or dammi la corona. Oh! Gli è bella!

GIGLIO
Orsù! Io starò avvertido allas vintiquattr’oras.

PASQUELLA
Or sì, eh! ma dammi i paternostri.

GIGLIO
Io los portarò con me quando verrò aglià, que los quiero primiero far un poghetto profumar.

PASQUELLA
Non mi curo di tante cose. Dammegli pur così: io non gli voglio più profumati.

GIGLIO
Vedi achì: esto flocco sta gasto. Io ci arò metter un poco de oro e questa sera ve los darò. Vòi tu altro se non que sarà la tuya?

PASQUELLA
Mia sarà quand’io l’arò. È da far gran fondamento nelle parole degli spagnuoli, alla fede! Non diss’io che voi sète formiche di sorbo, che non uscite per bussare?

GIGLIO
Que dezis, matre?

PASQUELLA
Io voglio andare in casa, ché la padrona me aspetta.

GIGLIO
Espeta un pochitto! Vos teneis una gran priessa. Que teneis de azer con vostra padrona?

PASQUELLA
Oh! che ti credi? Che ‘l diavol mi porti, se le fanciulle d’oggi non son prima innamorate che gli abbino asciutti gli occhi e se prima non volesseno il puntaruolo che l’aco.

GIGLIO
Que quereis dezir?

PASQUELLA
Chiachiare? è non son miga chiachiare! La vorrebbe far da vero.

GIGLIO
Pos dimmi, de grazia, de quien es innamorada, que non es possible, que es aun troppa gioven.

PASQUELLA
Così non fusse, o almen si fusse messa con un par suo!

GIGLIO
Dimme, por tu vida: quien es?

PASQUELLA
E’ non si vuol dire. Vedi, fa’ che tu non ne parli. Non cognosci quel ragazzo di Flamminio de’ Carandini?

GIGLIO
Quien? aquel mucciaccio qu’es todo vestido de blanco?

PASQUELLA
Sì, cotesto.

GIGLIO
Vàleme Dios! Es possibile? Que quiere azer d’aquel, ch’es megior per ser sanado que per sanar?

PASQUELLA
E tu odi.

GIGLIO
Y el mucciaccio, quiere ben à la gioven?

PASQUELLA
Eh! Così, così.

GIGLIO
Mas el patre d’ella non s’accorge d’esta trama?

PASQUELLA
Non pare, a me. Anzi, l’ha trovato due volte in casa ed hagli fatto mille carezze, presolo per la mano, toccato sotto ‘l mento, come se fusse suo figliuolo. E dice che gli par che s’assomigli a una figliuola di Virginio Bellenzini.

GIGLIO
Ah, reniego del putto! Vieio, puerco, vellacco! Ya, ya, sé io lo que quiere.

PASQUELLA
Uh! Tu m’hai tenuta troppo; me ne voglio ire.

GIGLIO
Mira que verrò a esta nocce. Non te scordar della promessa.

PASQUELLA
Né tu di portar la corona.

Scena 4

Flamminio, Crivello suo servo e Scatizza servo di Virginio.

FLAMMINIO
Tu non sei ito a veder se tu vedi Fabio; ed egli non viene. Non so che mi dire di questa sua tardanza.

CRIVELLO
Io andavo; e voi mi richiamaste indietro. Che colpa è la mia?

FLAMMINIO
Va’ adesso e, caso che ancor fusse in casa d’Isabella, aspettalo fin che gli esca e fallo poi venir subito.

CRIVELLO
Oh! Che saprò io se v’è o se non v’è? volete forse ch’io ne domandi alla casa di lei?

FLAMMINIO
Mira che asino! Parti che cotesto stesse bene? Credelo a me ch’io non ho servidore in casa che vaglia un pane altro che Fabio. Iddio mi dia grazia ch’io gli possa far del bene. Che borbotti? che dici, poltrone? non è vero?

CRIVELLO
Che volete ch’io dica? Dico di sì, io. Fabio è buono, Fabio è bello, Fabio serve bene, Fabio con voi, Fabio con madonna… Ogni cosa è Fabio; ogni cosa fa Fabio. Ma…

FLAMMINIO
Che vuoi dir «ma…»?

CRIVELLO
…non sarà, sempre buona robba.

FLAMMINIO
Che dici tu di robba?

CRIVELLO
Che non è da fidargli così sempre la robba. Sì, ché gli è forestiero e potrebbe, un dì, caricarvela.

FLAMMINIO
Così fidati fusse voi altri! Domanda un poco lo Scatizza, che è là, se l’avesse veduto. E io sarò al banco de’ Porini.

CRIVELLO
Scatizza, a Dio. Ha’ tu veduto Fabio?

SCATIZZA
Chi? quella vostra buona robba? Oh cagnaccio! Tu ti dài il bel tempo.

CRIVELLO
Ove andavi?

SCATIZZA
A trovare il mio grimo.

CRIVELLO
Gli è passato di qui or ora.

SCATIZZA
Dove è andato?

CRIVELLO
In qua. Su, viene, ché ‘l trovaremo. Eh viene! chè t’ho da contare una facezia che m’è intervenuta con la mia Caterina, la più bella del mondo.

Scena 5

Spela servo di Gherardo, solo.

SPELA
Può esser peggio al mondo che servire a un padron pazzo? Gherardo mi manda a comprare il zibetto. Quando lo domandai al profumiere e dissi ch’io non avevo più d’un bolognio, cominciò a dire ch’io non avevo tenuto a mente e che Gherardo doveva aver detto un bossol d’onguento da rogna, ch’e n’aveva bisogno, ché sapeva che non usava zibetto. Comincia’ gli a dire, acciò che lui mel credesse, di questo suo amorazzo, e fu per crepar di ridere con certi giovani che eran li. E voleva pur ch’io gli portasse un bossol d’assafetida; talché, così dileggiato, me ne parti’. Or, se ‘l padrone il vuole, diemi più quattrini.

Scena 6

Crivello, Scatizza, Lelia da ragazzo e Isabella.

CRIVELLO
Oh hai inteso. E se tu vuoi venire, mi basta l’animo di trovarne una per te ancora.

SCATIZZA
Fa’ una poca di pratica, ch’io ti prometto che, se tu trovi qualche fantesca che mi piaccia, che noi ci daremo il più bel tempo del mondo. Io ho la chiave del granaio, della cantina, della dispensa, delle legna; e, s’io avesse dove poter scaricar le some a piano, mi bastarebbe l’animo che noi faremmo una vita da signori. In ogni modo, da questi padroni non se ne cava altro.

CRIVELLO
Io t’ho detto; io ‘l vo’ dire a Bita che ti provegga di qualche cittona acciò che tutti a quattro insieme possiam darci buon tempo in questo carnovale.

SCATIZZA
Oh! Noi siamo all’ultimo.

CRIVELLO
Darencelo questa quaresima, mentre ch’i padroni saranno alla predica a vagheggiare. Ma sta’, ché l’uscio di Gherardo s’apre. Tìrate un poco più qua.

SCATIZZA
Perché?

CRIVELLO
Oh! Per buon rispetto.

LELIA
Orsù, Isabella! Non vi dimenticate di quanto m’avete promesso,

ISABELLA
E voi non vi dimenticate di venirmi a vedere. Ascoltate una parola.

CRIVELLO
(S’io fusse in questa fregàgnuola, so che ‘l padrone mi perdonarebbe).

SCATIZZA
(Mangiaresti i polli per te, eh?)

CRIVELLO
(Che ne credi?)

LELIA
Or volete altro?

ISABELLA
Udite un poco.

LELIA
Eccomi.

ISABELLA
Ecci nissun costi fuora?

LELIA
Non si vede anima nata.

CRIVELLO
(Che diavol vòl colei?)

SCATIZZA
(Questa dimestichezza è troppa).

CRIVELLO
(Sta’ a vedere).

ISABELLA
Udite una parola.

CRIVELLO
(Costor s’accostan molta).

SCATIZZA
(Che sì! che sì!)

ISABELLA
Sapete? Vorrei…

LELIA
Che vorreste?

ISABELLA
Vorrei… Accostatevi.

SCATIZZA
(Accostati, salvaticaccio!)

ISABELLA
Mirate se v’è niuno.

LELIA
Non v’è, ho detto. Non si vede persona.

ISABELLA
Oh! Io vorrei che voi tornasse dopo disinare quando mio padre sarà fuora.

LELIA
Lo farò; ma, come passa il mio padron di qui, di grazia, fuggite e serrategli la finestra in fronte.

ISABELLA
S’io non lo fo, non mi vogliate più bene.

SCATIZZA
(Dove diavol gli tien la man, colei?)

CRIVELLO
(Oh povero padrone! Che sì, che sì, ch’io sarò indivino!)

LELIA
A Dio!

ISABELLA
Udite. Vi volete partire?

SCATIZZA
(Basciala, che ti venga il cancaro!)

CRIVELLO
(L’ha paura di non esser veduta).

LELIA
Orsù! Tornatevi in casa.

ISABELLA
Voglio una grazia da voi.

LELIA
Quale?

ISABELLA
Entrate un poco dentro a l’uscio.

SCATIZZA
(Le cosa è fatta).

ISABELLA
Oh! Voi sète salvatico!

LELIA
Noi sarem veduti.

CRIVELLO
(Oimè, oimè! O seccareccio! Altrettanto a me).

SCATIZZA
(Non ti diss’io che la baciarebbe?)

CRIVELLO
(Or ben ti dico ch’io non vorrei aver guadagnato cento scudi e non aver veduto questo bacio).

SCATIZZA
(Il veggio. Così fusse tócco a me!)

CRIVELLO
(Oh! Che farà il padrone, come egli ‘l sappia?)

SCATIZZA
(Oh diavol! Non si vòl dirglielo).

ISABELLA
Perdonatemi. La vostra troppa bellezza e ‘l troppo amor ch’io vi porto è cagion ch’io fo quello che forse voi giudicarete esser di poca onesta fanciulla. Ma Dio lo sa ch’io non me ne son potuta tenere.

LELIA
Non fate queste scuse con me, signora; ché so ancor io come io sto e quel che, per troppo amore, mi son messo a fare.

ISABELLA
E che cosa?

LELIA
Oh! Che? A ingannare il mio signore, che non sta però bene.

ISABELLA
Il malan che Dio gli dia!

CRIVELLO
(Vatti po’ fida di bagasce! Ben gli sta. Non è maraveglia che ‘l fegatello confortava il padrone a lasciar questo amore).

SCATIZZA
(Ogni gallina ruspa a sé. Infine, tutte le donne son fatte a un modo).

LELIA
L’ora è già tarda ed io ho da trovare il padrone. Rimanete in pace.

ISABELLA
Udite.

CRIVELLO
(Ohi! e due! Che ti si secchi, che ti facci il mal pro!)

SCATIZZA
(Al corpo di Dio, che m’è infiata una gamba che par che la voglia recere).

LELIA
Serrate. A Dio.

ISABELLA
Mi vi dono.

LELIA
Son vostro. (Io ho, da un canto, la più bella pastura del mondo di costei che si crede pur ch’io sia maschio; dall’altro, vorrei uscir di questa briga e non so come mi fare. Veggio che costei è già venuta al bacio; e verrà, la prima volta, più avanti, e trovarommi aver perduta ogni cosa: talché forza è che si scuopra la ragia. Voglio andare a trovar Clemenzia di quanto gli par ch’io faccia. Ma ecco Flamminio).

CRIVELLO
Scatizza, il padrone mi disse aspettarmi al banco de’ Porrini. Vo’ dargli questa buona nuova. Caso non mi creda, fa’ che non mi facci parer bugiardo.

SCATIZZA
Io non ti posso mancare. Ma, facendo a mio modo, te ne starai queto e arai sempre questo calcio in gola a Fabio per poterlo far fare a tuo modo.

CRIVELLO
Dico ch’io gli vo’ male, ché m’ha rovinato.

SCATIZZA
Govèrnatene come ti piace.

Scena 7

Flamminio e Lelia da ragazzo.

FLAMMINIO
(È possibil, però, ch’io sia tanto fuor di me e mi stimi sì poco ch’io voglia amare a suo dispetto costei e servir chi mi strazia, chi non fa conto di me, chi non mi vuol pur compiacer sol d’uno sguardo? Sarò io sì da poco e sì vile ch’io non mi sappi levar questa vergogna e questo strazio da dosso? Ma ecco Fabio). Or ben, che hai fatto?

LELIA
Nulla.

FLAMMINIO
Perché sei stato tanto a en tornare? Tu vorrai diventar un forca, sì?

LELIA
Io ho indugiato perch’io volevo pur parlare a Isabella.

FLAMMINIO
E perché non gli hai parlato?

LELIA
Non mi ha voluto ascoltare. E, se voi facesse a mio modo, pigliaresti altro partito e vi risolvaresti de’ casi vostri: ché, per quel ch’io n’ho potuto comprendere insino a qui, voi vi perdete il tempo; ché la si mostra ostinatissima a non voler far mai cosa che vi piaccia.

FLAMMINIO
E, se ‘l dicesse Iddio, l’ha pure il torto. Non sai che, or ora, passando di là, si levò subito, come la mi vidde, dalla finestra con tanto sdegno e con tanta furia come s’ell’avesse visto qualche cosa orribile o spaventosa.

LELIA
Lasciatela andar, vi dico. E possibil che, in tutta questa città, non sia un’altra che meriti l’amor vostro quanto lei? Non vi è piaciuta mai altra donna che lei?

FLAMMINIO
Così non fusse! ch’io ho paura che questo non sia la cagion di tutto ‘l mio male: perché io amai già molto caldamente quella Lelia di Virginio Bellenzini di ch’i’ ti parlai; e ho paura ch’Isabella non dubiti che questo amor duri ancora e, per questo, non mi voglia vedere. Ma io gli farò intendere ch’io non l’amo più; anzi, l’ho in odio e non la posso sentir ricordare. E gli farò ogni fede ch’ella vorrà di non arrivar mai dove lei sia. E voglio che glie lo dica tu, a ogni modo.

LELIA
Oimè!

FLAMMINIO
Che hai? Par che tu venga meno. Che ti senti?

LELIA
Oimè!

FLAMMINIO
Che ti duole?

LELIA
Oimè, il cuore.

FLAMMINIO
Da quanto in qua? Appoggiati ùn poco. Duolti forse il corpo?

LELIA
Signor no.

FLAMMINIO
È forse lo stomaco ch’è indebolito?

LELIA
Dico ch’è il cuore che mi duole.

FLAMMINIO
Ed a me, forse, molto più. Tu hai perduto il colore. Vattene a casa: e fatti scaldare qualche panno al petto e far qualche frega dietro alle spalle; ché non sarà altro. Io sarò or ora là e, bisognando, farò venire il medico che ti tocchi il polso e vegga che male è il tuo. Da’ qua un poco il braccio. Tu sei gelato. Orsù! Vattene pian piano. A che strani casi è sottoposto l’uomo! Non vorrei che costui mi mancasse per quanto vale tutto ‘l mio; ch’io non so se fusse mai al mondo servidor più accorto, meglio accostumato di questo giovanetto; e, oltre a questo, mostra d’amarmi tanto che, se fusse donna, pensarei che la stesse mal di me. Fabio, va’ a casa, dico; e scaldati un poco i piei. Io sarò or ora là. Di’ che apparecchino.

LELIA
Or hai pur, misera te, con le tue propie orecchie, dall’istessa bocca di questo ingrato di Flamminio, inteso quanto egli t’ami, misera, scontenta Lelia! Perché più perdi tempo in servir questo crudele? Non ti è giovata la pazienzia, non i preghi, non i favori che gli hai fatti; or non ti giovan gl’inganni. Sventurata me! rifiutata, scacciata, fuggita, odiata! Perché serv’io a chi mi rifiuta? perché domando chi mi scaccia? perché seguo chi mi fugge? perché amo chi m’ha in odio? Ah Flamminio! Non ti piace se non Isabella. Egli non vuole altro che Isabella. Abbisela, tenghisela; ch’io lo lasciarò o morrò. Delibero di non più servirli in questo abito né più capitargli innanzi, poiché tanto m’ha in odio. Andarò a trovar Clemenzia che so che m’aspetta in casa; e con essa disporrò quel che abbi da essere della vita mia.

Scena 8

Crivello e Flamminio.

CRIVELLO
È, si non è così, fatemi impicar per la gola; non tanto tagliar la lingua. Vi dico che gli è così.

FLAMMINIO
Da quanto in qua?

CRIVELLO
Quando voi mi mandasti a cercar di lui.

FLAMMINIO
Come andò? Dimmelo un’altra volta, perché egli mi niega d’averle oggi potuto parlare.

CRIVELLO
Sarà buon che vel confessi! Dico che, aspettando io di vedere s’egli dava di volta intorno a quella casa, lo vidi uscir fuore. E, volendosi già partire, Isabella lo richiamò dentro: e, guardando se fuore era alcuno che gli vedesse, non vi vedendo persona, si baciorno insieme.

FLAMMINIO
Come non vider te?

CRIVELLO
Perch’io m’era ritratto in quel portico rincontro, e non me potevan vedere.

FLAMMINIO
Come gli vedesti tu?

CRIVELLO
Con gli occhi. Credete forse ch’io gli abbi veduti con le gombita?

FLAMMINIO
E basciolla?

CRIVELLO
Io non so s’ella baciò lui o egli lei; ma io credo che l’un basciassi l’altro.

FLAMMINIO
Accostorono il viso l’uno a l’altro tanto che si potessen baciare?

CRIVELLO
Il viso no, ma le labbra sì.

FLAMMINIO
Oh! Possonsi accostar le labbra senza il viso?

CRIVELLO
Se l’uomo avesse la bocca nelle orecchie o nella cicottola, forse; ma, stando dove le stanno, credo che no.

FLAMMINIO
Guarda che tu vedesse bene, che tu non dica poi: - “è mi parve”, che questa è una gran cosa che tu mi dici.

CRIVELLO
Maggiore è il Mangia che sta in cima alla torre di Siena.

FLAMMINIO
Come vedesti?

CRIVELLO
Vegliando, con gli occhi aperti, stando a vedere, né avendo a far altra cosa che mirarte.

FLAMMINIO
Se questo è vero, tu m’hai morto.

CRIVELLO
Questo è vero. Lo chiamò, se gli accostò, l’abbracciò, lo basciò. Or, se tu vuoi morir, muore.

FLAMMINIO
Non è maraviglia che ‘l traditor negava di non esservi stato! Or so perché il ribaldo mi confortava a lasciarla: per goderla lui. Se io non fo tal vendetta che, finché questa terra dura, sarà esempio ai servidori che non sieno traditori a’ padroni, non voglio esser tenuto uomo. Ma, infine, se altra certezza non n’ho, io non te ‘l vo’ credere. So che tu sei un tristo e gli debbi voler male; e fai perch’io me lo levi dinanzi. Ma, per quel Dio che s’adora, ch’io ti farò dire il vero o t’ammazzarò. Di’ su! Hailo veduto?

CRIVELLO
Signor sì.

FLAMMINIO
Baciolla?

CRIVELLO
Baciârsi.

FLAMMINIO
Quante volte?

CRIVELLO
Due volte.

FLAMMINIO
Ove?

CRIVELLO
Nel suo ridotto.

FLAMMINIO
Tu menti per la gola. Poco fa, dicesti in su l’uscio.

CRIVELLO
Volsi dir vicino all’uscio.

FLAMMINIO
Di’ il vero!

CRIVELLO
Ohi! ohi! M’incresce d’avervel detto.

FLAMMINIO
Fu vero?

CRIVELLO
Signor sì. Ma io mi so’ scordato ch’io avevo un testimonio.

FLAMMINIO
Chi era?

CRIVELLO
Lo Scatizza di Virginio.

FLAMMINIO
Vidde egli ancora?

CRIVELLO
Come me.

FLAMMINIO
E se egli nol confessa?

CRIVELLO
Ammazzatremi.

FLAMMINIO
Farollo.

CRIVELLO
E s’egli il confessa?

FLAMMINIO
Amazzarò tutt’e due.

CRIVELLO
Oimè! Perché?

FLAMMINIO
Non dico te; ma Isabella e Fabio.

CRIVELLO
E che voi abbruciate quella casa, con Pasquella e con chi v’è dentro.

FLAMMINIO
Andiamo a trovar lo Scatizza. S’io non nel pago… s’io non fo dir di me… se tutta questa terra non lo vede… Ne farò tal vendetta! … Oh traditore! Vatti poi fida!


Atto III

Scena 1

Pedante, Fabrizio giovine figliuol di Virginio e Stragualcia servo.

PEDANTE
Questa terra mi par tutta mutata poi ch’io non vi fui. Vero è ch’io non vi fui se non per transito con li oratori d’Ancona, ed alloggiammo al «Guicciardino». Pur vi stemmo da sei giorni. Tu ricognoscine cosa alcuna?

FABRIZIO
Come mai più non l’avessi veduta.

PEDANTE
Credotelo, perché te ne partisti sì piccolo che non è maraviglia. Or pur cognosco la strada dove siamo. Quello è il palazzo de’ Rangoni; qui sotto passa il Canal Grande; quel che vedi là in capo è il duomo. Hai tu sentito dire «Sarestu mai la potta da Modana?» o vero «Gli pare esser la potta da Modana?».

FABRIZIO
Mille volte. Mostratemela, di grazia.

PEDANTE
Vedila sopra il duomo.

FABRIZIO
È quella?

PEDANTE
Quella.

FABRIZIO
Oh! Questa è una baia!

PEDANTE
Tu vedi.

FABRIZIO
Ho sentito ancor dire «Tu hai tolto a menar l’orso a Modana». Che vuoi dire? dov’è questo orso?

PEDANTE
E’ son dettati antiqui de quibus nescitur origo.

FABRIZIO
Certo, maestro, che questa terra par che mi venga di buono.

STRAGUALCIA
Ed a me vien di migliore, ch’io sento qua presso uno odor da rosto che mi fa morir di fame.

PEDANTE
Oh! Non sai quel che dice Catalicio? «Dulcis amor patriae». E Cantone: «Pugna pro patria». Hoc, in summa, e’ non c’è la più dolce cosa che la patria.

STRAGUALCIA
Io credo che sia molto più dolce il tribiano, maestro. Così n’avessi’io un boccale! ch’io sono spallato a portar questa valigia.

PEDANTE
Queste strade paion fatte di nuovo. Quand’io ci fui, eran tutte sordide e fangose.

STRAGUALCIA
Aviamo a contare i mattoni? Ci sarà facenda! Vorrei che noi andassemo più presto in qualche luogo che facessemo colazione, io.

PEDANTE
Iandudum animus est in patinis.

FABRIZIO
Che arma è quella di quei succhielli?

PEDANTE
Quella è l’arma di questa communità e chiamasi la Trivella. E, come Fiorenza si grida: «Marzocco! Marzocco!» e a Vinegia: «San Marco! San marco!» e a Siena: «Lupa! Lupa!», così qui esclamano: «Trivella! Trivella!».

STRAGUALCIA
Io vorrei più tosto che noi gridassemo: «Padella! Padella!».

FABRIZIO
Quella conosco. È l’arme del duca.

STRAGUALCIA
Maestro, vorrei che voi portasse un poco questa valigia, voi. Io ho sì secche le labbra ch’io non posso parlare.

PEDANTE
Orsù, che ti cavarai la sete poi!

STRAGUALCIA
Quand’io son morto, fatemi un brodetto agli archi.

FABRIZIO
Basta che ne la prima giunta, questa terra mi piace assai. E a te, Stragualcia?

STRAGUALCIA
A me pare un paradiso, ché non vi si mangia e non vi si beve. Orsù! Non perdiam più tempo a veder la terra, ché la vedremo a bello agio.

PEDANTE
Tu vedrai qui il più solenne campanile che sia in tutta la machina mondiale.

STRAGUALCIA
È quello al qual i modanesi volevon far la guaina? e che dicono che la sua ombra fa impazzar gli uomini?

PEDANTE
Sì, cotesto.

STRAGUALCIA
Io so ch’io non uscirò di cucina, per me. Chi ci vuole andar ci vada. Or sollecitiam d’alloggiare.

PEDANTE
Tu hai una gran fretta.

STRAGUALCIA
Cancaro! Io mi muoio di fame e non ho mangiato altro, stamattina, ch’una mezza gallina che v’avanzò in barca.

FABRIZIO
Chi trovarem noi che ci meni a casa di mio padre?

PEDANTE
A me pare che noi ci andiamo a metter prima in una ostaria, e quivi assettarci un poco, e con commodità poi investigarne.

FABRIZIO
Mi piace. Queste debbono esser l’ostarie.

Scena 2

L’Agiato oste, Frulla oste, Pedante, Fabrizio, Stragualcia.

AGIATO
Oh gentil uomini! Questa è l’ostaria, se volete alloggiare. Allo «Specchio», allo «Specchio»!

FRULLA
Oh, voi siate li ben venuti! Io v’ho pure alloggiati altre volte. Non vi ricorda del vostro Frulla? Entrate qua dentro, ove alloggiano tutti e’ par vostri.

AGIATO
Venite a star con me. Voi arete buone camere, buon fuoco, buonissime letta, lenzuola di bocata, e non vi mancarà cosa che voi aviate.

STRAGUALCIA
Di cotesto mel sapevo.

AGIATO
Volsi dir che voi vogliate.

FRULLA
Io vi darò il miglior vin di Lombardia, starne tanto larghe, salciccioni di questa fatta, piccioni, polastri e ciò che voi sapresti domandare; e goderete.

STRAGUALCIA
Questo voglio sopratutto.

PEDANTE
Tu che dici?

AGIATO
Io vi darò animelle di vitella, mortatelle, vin di montagna; e, soprattutto, starete dilicati.

FRULLA
Io vi darò più robba e manco dilicatura. Se venite con me, trattarovvi da signori e ‘l pagamento sarà a vostro modo; ove allo «Specchio» vi mettarà a conto fino le candele. Fate voi.

STRAGUALCIA
Padrone, stiam qui, ché gli è meglio.

AGIATO
E fate a mio modo, se volete star bene. Volete che si dica che voi siate allogiati al «Matto»?

FRULLA
È cento mila volte meglio il mio «Matto» che non è il tuo «Specchio».

PEDANTE
Speculum prudentia significat insta illud nostri Catonis «Nosce te ipsum». Intendi, Fabrizio?

FABRIZIO
Intendo.

FRULLA
Veggasi chi ha più osti: o tu o io.

AGIATO
Veggasi dove van più uomini da bene.

FRULLA
Vegassi ove son meglio trattati.

AGIATO
Vegassi chi tien più dilicato.

STRAGUALCIA
Che tanto «dilicato, dilicato, dilicato»? Io vorrei una volta empire il corpo meglio e star manco dilicato, per me, io. Ché tanta delicatezza è cosa da fiorentini.

AGIATO
Tutti cotesti allogian con me.

FRULLA
Alloggiavano; ma, da tre anni in qua, tutti vengono a questa insegna.

AGIATO
Garzon, pon giù quella valigia; ché m’avveggo che la ti spalla.

STRAGUALCIA
Non ti curar di questo, tu; ch’io non voglio alleggerir la spalla, s’io non veggo di caricar prima il ventre.

FRULLA
Bastarannoti un paio di capponi? Porta qua. Questi son per te solo.

STRAGUALCIA
Non, eh! Ma gli è per uno antipasto.

AGIATO
Guardate che prosciutto! Se non pare un cremisi!

PEDANTE
Questo non è cattivo.

FRULLA
Chi s’intende di vino?

STRAGUALCIA
I’, io, meglio che i franzesi.

FRULLA
Assaggia se ti piace; se non, te ne darò di dieci sorti.

STRAGUALCIA
Frulla, al mio parer tu sei più prattico di questo altro, che prima ci mostra il modo da far bere che sappia se ‘l vin ci piace. O padrone, gli è buono. Tolle, tolle questa valigia.

PEDANTE
Aspetta un poco. Tu che dici?

AGIATO
Dico che i gentili uomini non si curan d’empire il corpo di tanta robba; ma di poca, buona e dilicata.

STRAGUALCIA
Costui debbe essere spedaliere o oste d’amalati.

PEDANTE
Non parli male. Che ci darai.

AGIATO
Domandate.

FRULLA
Ed io mi maraveglio de voi, gentiluomini. Quando c’è de la robba assai, l’uom può mangiar quel poco o quel molto che gli piace; il che del poco no accade. Poi, come l’uomo comincia, l’appetito cresce e bisogna empirsi il corpo di pane.

STRAGUALCIA
Tu sei più savio delli statuti. Io non viddi mai uomo che intendesse meglio il mio bisogno di te. Va’, ch’io ti vo’ bene.

FRULLA
Va’ un poco in cucina, fratello, e vede.

PEDANTE
Omnis repletio mala, panis autem pessima.

STRAGUALCIA
Pedante poltrone! Ti rompo, un dì, la bocca, s’io vivo.

AGIATO
Venite, gentiluomini, ché lo star fuore al freddo non è cosa da savi.

FABRIZIO
Eh! Noi non siam così gelosi, no.

FRULLA
Sapiate, signori, che questa ostaria dello «Specchio» soleva esser la megliore ostaria di Lombardia. Ma, come io apersi questa del «Matto», non alloggia, in tutto uno anno, dieci persone; e ha più nome questa mia insegna, per tutto il mondo, che ostaria che sia. Qui vengon francesi a schiera, todeschi quanti ne passano.

AGIATO
Non dici il vero, ché i todeschi vanno al «Porco».

FRULLA
Qui vengono i milanesi, i parmigiani, i piagentini.

AGIATO
Alla mia vengono i veneziani, i genovesi e i fiorentini.

PEDANTE
Ove allogiano i napoletani?

FRULLA
Con me.

AGIATO
Lasciatevi dire. Alloggian, la più parte, all’«Amore».

FRULLA
E quanti ne allogian con me?

FABRIZIO
Il duca di Malfi, dove alloggia?

AGIATO
Quando alla mia, quando alla sua, quando alla «Spada», quando all’«Amore», secondo che ben gli mette.

PEDANTE
Dove alloggiano i romani? perché noi siam da Roma.

AGIATO
Con me.

FRULLA
Non è vero; non trovarete un che v’alloggi in tutto l’anno. Vero è che certi cardenali antichi, per usanza, vi sono alloggiati, ma tutti questi novi dan del capo nel «Matto».

STRAGUALCIA
Io non mi partirei di qui, s’io ne fusse strascinato. Vadin costoro dove vogliono. Padrone, son tante pignatte intorno al fuoco, tanti pottaggi, tanti savoretti, tanti intengoli, spedonate di starne, di tordi, di piccioni, capretti, capponi lessi, arrosto e miramessi, guazzini, pasticci, torte che, s’egli aspettasse il carnovale o la corte di Roma tutta, gli bastarebbe.

FRULLA
Hai tu bevuto?

STRAGUALCIA
E che vini!

PEDANTE
Variorum ciborum commistio pessima generat digestionem.

STRAGUALCIA
Bus asinorum, buorum, castronorum, tatte, batatte pecoronibus! Che diavolo andate intrigando l’accia? Che vi venga il cancaro a voi e quanti pedanti si truova! Mi parete un manigoldo, a me. Padrone, entriam drento.

FABRIZIO
Dove alloggian gli spagnuoli?

FRULLA
Io non m’impaccio con loro. Cotesti vanno al «Rampino». Ma che bisogna più cose? Non c’è persona che vada a torno che non alloggi a questa insegna. Dai sanesi in fuora che, per esser quasi una cosa medesma coi modanesi, non giungan prima in questa terra che truovan cento amici che se gli menano a casa loro. Signori e gran maestri, poveri e ricchi, soldati e buon compagni, tutto corrono al «Matto».

AGIATO
Io dico che i dottori, i giudici, i frati, i virtuosi, tutti vengono alla mia insegna.

FRULLA
Ed io vi dico che passan pochi giorni che qualcun di quelli che sono alloggiati allo «Specchio» non eschino fuore e non venghino a star con me.

FABRIZIO
Maestro, che faremo?

PEDANTE
Etiam atque etiam cogitandum.

STRAGUALCIA
O corpo mio, fatti capanna; ch’io so che, per una volta, alzarò il fianco.

PEDANTE
Io penso, Fabrizio, che noi aviam pochi denari.

STRAGUALCIA
Maestro, io ci ho veduto un figliuol dell’oste bello come uno angiolo.

PEDANTE
Orsù! Stiam qui. In ogni modo, tuo padre, se lo troviamo, pagarà l’oste.

STRAGUALCIA
Parti che ‘l cimbel fusse a tempo per far calare il tordo? Io ho già bevuto tre volte e ho detto una. Io non mi partirò di cucina, ch’io assaggiarò ciò che v’è; e poi dormirò intorno a quel buon fuoco. E cancar venga a chi vuol far robba!

AGIATO
Ricordati, Frulla, che tu me n’hai fatte troppo e, un dì, ci spezzarem la testa, a bene.

FRULLA
A tua posta. Non posso più presto che ora.

Scena 3

Virginio vecchio e Clemenzia balia.

VIRGINIO
Questi sono i costumi che tu gli hai insegnati? Questo è l’onor ch’ella mi fa? Oh sfortunato a me! Per questo ho io campato tante fortune? per veder la mia robba senza erede? per veder la mia casa disfatta, la mia figliuola una puttana? per diventare una fabula del vulgo? per non più potere alzar la fronte fra gli uomini? per esser mostrato a dito da’ fanciulli, deleggiato dai vecchi, messo in comedia dagli Intronati, posto per esempio nelle novelle e portato per bocca dalle donne di questa terra? E forse che non son novelliere? Forse che no gli piace di dir male! Già credo che si sappia per tutto; anzi, ne son certo, ché basta ch’una sola il sappia che, fra tre ore, va per tutta la terra. Disgraziato padre! Misero e doloroso vecchio troppo vissuto! Virginio, che farò io? che pensiero ha da essere il mio?

CLEMENZIA
Farai bene di farne manco romore che puoi e veder di proveder, meglio che si potrà, che la torni a casa senza che tutta questa città se ne accorga. Ma tanto avesse ella fiato, suor Novellante Ciancini, quanto io credo che sia vero che Lelia vada vestita da uomo! Guarda che elle non dichin così perché la vorrebbeno far monaca e che tu gli lassi tutta la robba tua.

VIRGINIO
Come non dice il vero? Ella m’ha per infin detto ch’ella sta per ragazzo con un gentiluomo di questa terra e che egli non s’è ancora accorto ch’ella sia donna.

CLEMENZIA
Potrebbe essere ogni cosa; ma, per me, non lo posso credere.

VIRGINIO
Né io non lo posso credere che non la conosca per donna.

CLEMENZIA
Non dico cotesto, io.

VIRGINIO
Il dico io, ché mi tocca: bench’io stesso mi feci il male, dandola a nutrire a te che sapevo chi tu eri.

CLEMENZIA
Virginio, non più parole. S’io son stata una trista, m’hai fatta tu. Sai bene che prima che tu non mi ebbe altri che il mio marito. Io dico che le fanciulle si voglion trattare altrimenti. Non ti vergognavi di volerla maritare a un vecchio rantacoso che le potrebbe esser nonno?

VIRGINIO
E che hanno i vecchi, manigolda? Son mille volte meglio che i giovani.

CLEMENZIA
Tu sei uscito del sentimento; e però fa bene ognuno a socorgerti e darti ad intender le ciaramelle.

VIRGINIO
S’io la truovo, la strascinarò a casa pe’ capegli.

CLEMENZIA
Farai pur come colui che le corna di seno se le mette in capo.

VIRGINIO
Non me ne curo. Tanto se ne saria. Basti ch’io me le tagliarò.

CLEMENZIA
Govèrnate a tuo modo, ché non ti dorrà la testa.

VIRGINIO
Io ho avuti i segnali come la va vestita. Tanto la cercarò ch’io la trovarò. Poi bastisi.

CLEMENZIA
Fa’ come tu vuoi, ch’io mi vo’ partire; ch’io perderei il tempo a lavar carboni. Mah!.

Scena 4

Fabrizio giovinetto e Frulla oste.

FABRIZIO
Mentre che questi due miei servidori si riposano, io andarò a vedere la terra. Come si levan, digli che venghino verso piazza.

FRULLA
Per certo, padron mio, che, se io non vi avesse veduto vestir questi panni, io giurarei che voi fusse un giovinetto, servidor d’un gentiluomo di questa terra, che veste come voi di bianco e tanto vi s’assomiglia che quasi parete lui.

FABRIZIO
Saria forse qualche mio fratello?

FRULLA
Potrebbe essere.

FABRIZIO
Direte poi al maestro che cerchi di colui chi sa.

FRULLA
Lasciate l’impaccio a me.

Scena 5

Pasquella fante e Fabrizio giovinetto.

PASQUELLA
In buona fé, eccolo. Avevo paura di non aver a cercar tutta questa terra prima ch’io ‘l trovassi. Fabio, che tu sia il ben trovato! Ti venivo a cercare; tu m’hai tolto fattica. Amor mio, dice la padrona che, per una cosa ch’importa a te e a lei, che tu venga or ora a trovarla. Non so già quel che si sia.

FABRIZIO
Chi è la tu’ padrona?

PASQUELLA
Tu lo sai ben, tu, chi ella è. In buona fé, che l’uno e l’altro s’è attaccato bene!

FABRIZIO
Io non son però attaccato! Ma, s’ella vuole, ci attaccaremo, e presto.

PASQUELLA
Perché sète due da pochi. Vorrei esser giovine per potere ancor io tôrmene una corpacciata! E so che, s’io fusse in voi, avrei già posti i sospetti e i rispetti da canto. Ma bene il farete, sì.

FABRIZIO
Eh, madonna! Voi non mi cognoscete. Andate, ché voi m’avete còlto in iscambio.

PASQUELLA
Oh! Non l’aver per male, Fabio mio, ch’io ‘l dico per farti bene.

FABRIZIO
Io non ho per male niente. Ma io non ho questo nome e non so’ chi voi credete.

PASQUELLA
Or fate pur fra voi due a vostro modo. Ma sai? Figliuole delle sue pari, così ricche e così belle, in questa terra ne son poche. E vorrei che voi cavasse le mani di quel che s’ha da fare; ché andar dinanzi e di dietro, ogni giorno, e tôr parole e dar parole dà che dire alle genti, senza util tuo e con poco onor di lei.

FABRIZIO
(Che cosa nova è questa? Io non l’intendo. O che costei è pazza o che m’ha còlto in iscambio. Vo’ pur veder dove la mi vuol menare). Andiamo!

PASQUELLA
Oh! Mi par sentir gente in casa. Fermati un poco qui intorno, ché vederò se Isabella è sola. E accennaroti che tu entri se non vi sarà alcuno.

FABRIZIO
Voglio stare a vedere che fine ha d’avere questa favola. Forse costei è serva di qualche cortigiana e credemi fare stare a qualche scudo; ma gli è male informata, ch’io son quasi allievo di spagnuoli e, alla fine, vorrò più presto uno scudo del suo che dargli un carlin del mio. Qualcun di noi ci sarà incòlto. Lasciami scostare un poco da questa casa e por mente che gente v’entra ed esce per saper che razza di donna sia.

Scena 6

Gherardo, Virginio e Pasquella.

GHERARDO
Tu mi perdonarai. Se gli è cotesto, te la renuncio. E lasciamo stare ch’io penso che, se la tua figliuola ha fatto ciò, l’abbi fatto perché la non voglia me. Ma penso anco ch’ella abbi tolto altri.

VIRGINIO
Nol creder, Gherardo. Credi ch’io te ‘l dicesse? Ti prego che non vogli guastar quel chi è fatto.

GHERARDO
Io ti priego che non me ne parli.

VIRGINIO
Oh! Vòi mancar della tua parola?

GHERARDO
A chi m’ha mancato di fatti, sì; oltra che tu non sai se la potrai riavere o no. Tu mi vòi vendere l’uccello in su la frasca. Ho ben sentito quando tu ragionavi con Clemenzia il tutto.

VIRGINIO
Quando io non la riabbia, io non te la vo’ dare; ma, s’io la riaverò, non sei contento che le nozze si faccin subito?

GHERARDO
Virginio, io ho avuta la più onorata moglie che fusse in questa città ed ho una figliuola che è una colombina. Come vòi ch’io mi metta in casa una che s’è fuggita dal padre e va per questa casa e per quella vestita da maschio come le disoneste donnacce? Non vedi ch’io non trovarei da maritar mia figliuola?

VIRGINIO
Passato qualche dì, non se ne ragionarà più. Che credi che sia? è non vi è altri che tu e io che lo sappi.

GHERARDO
E poi ne sarà piena tutta questa terra.

VIRGINIO
E’ non è vero.

GHERARDO
Quant’è ch’ella è fuggita?

VIRGINIO
O ieri o questa mattina.

GHERARDO
Dio ‘l voglia. Ma che sai ch’ella sia in Modena?

VIRGINIO
Sollo.

GHERARDO
Or truovala e poi ci riparleremo.

VIRGINIO
Promettimi di pigliarla?

GHERARDO
Vedrò.

VIRGINIO
Or dimmi di sì.

GHERARDO
No! dico, ma...

VIRGINIO
Or dillo liberamente.

GHERARDO
Adagio! Che fai costi, Pasquella? Che fa Isabella?

PASQUELLA
E che! Sta in ginocchioni dinanzi al suo altaruccio.

GHERARDO
Benedetta sia ella! Io ho una figliuola che sempre sta in orazione. È la maggior cosa del mondo.

PASQUELLA
Oh quanto ben dite! La digiuna tal vigilia che Dio vel dica; dice l’officio, come una santarella.

GHERARDO
Somiglia quella benedetta anima di sua madre.

PASQUELLA
Dice il vero. Oh quanto ben faceva quella meschina! Eran più le discipline ch’ella si dava e i cilici ch’ella portava che non è quanto bene l’altre fanno oggi: Limosiniera per la vita; e, se non fusse stato per amor di voi, non capitava né frate, né prete, né povarello a quello uscio che non ricettasse e non gli desse ciò ch’ella aveva.

VIRGINIO
Coteste eran buone parti.

PASQUELLA
Vi dico più oltre che la si levò dugento volte, una e due ore innanzi dì, per andar alla prima messa de’ frati di San Francesco, ché non voleva esser veduta né tenuta una pòrchita, come fanno certe graffiasanti ch’io conosco.

GHERARDO
Come «pòrchita»? Che tu vuo’ dire?

PASQUELLA
Pòrchita, sì; come si dice?

VIRGINIO
Cotesta è una mala parola.

PASQUELLA
So ch’io sentivo dir così a lei.

GHERARDO
Tu vuoi dire “ipocrita”, tu.

PASQUELLA
Forse. Ma vi dico che sua figliuola sarà ancor più di lei.

GHERARDO
Dio il voglia.

VIRGINIO
Oh, Gherardo, Gherardo! Questa è colei di che aviam ragionato. Oh scontento padre! Forse che si nasconde o che si fugge per avermi veduto? Accostiamoglici.

GHERARDO
Vedi di non far errore, ché forse non è essa.

VIRGINIO
Chi non la consceria? Non veggi’io tutti i segnali che m’ha dati suor Novellante?

PASQUELLA
(La cosa va male. Che sì ch’io n’arò le mie!)

Scena 7

Virginio, Gherardo e Fabrizio giovinetto.

VIRGINIO
A Dio, buona fanciulla. Parti che questo sia abito conveniente a una tua pari? Questo è l’onor che tu fai alla casa tua? Questo è il contento che tu dài a questo povero vecchio? Almen fuss’ io morto quando io t’ingenerai! ché non sei nata se non per disonorarmi, per sotterarmi vivo. Oh Gherardo! Che ti par della tua sposa? parti ch’ella ci facci onore?

GHERARDO
Cotesto non dich’io. Sposa, eh?

VIRGINIO
Ribalda, scelerata! Come ti starebbe bene che costui non ti volesse più per moglie e non trovasse più partito! Ma ei non guardarà alle tue pazzie; e’ ti vuol pigliare.

GHERARDO
Adagio!

VIRGINIO
Entra costi in casa, sciaurata! che fu ben maladetto il latte che tua madre ti porse il dì ch’io t’ingenerai.

FABRIZIO
O buon vecchio, avete voi figliuoli, parenti o amici in questa terra a’ quali appartenga aver cura di voi?

VIRGINIO
Guarda che risposta! Perché dici cotesto?

FABRIZIO
Perché mi maraviglio che, avendo voi tanto bisogno di medico, vi lascino uscir di casa; ché, in ogni altro luogo che voi fusse, vi terreben legato.

VIRGINIO
Legata dovevo io tener te, che mi vien voglia di scanarti! Portami un coltello.

FABRIZIO
Vecchio, voi non mi cognoscete bene; e ditemi villania, forse pensando ch’io sia forestiero. Ed io son così ben da Modana come voi e figliuol di sì buon padre e di sì buona casa come voi.

GHERARDO
(Gli è bella, infine. Se non c’è altro errore che quanto si vede, io la vo’ pigliare).

VIRGINIO
E perché ti sei partita da tuo padre e dove io t’avevo mandata?

FABRIZIO
Me non raccommandaste voi mai, ch’io sappia; ma il partir mi fu forza.

VIRGINIO
Forza, eh? e chi ti sforzò?

FABRIZIO
Gli spagnuoli.

VIRGINIO
E adesso donde vieni?

FABRIZIO
Di campo.

VIRGINIO
Di campo?

FABRIZIO
Di campo, sì.

GHERARDO
(Non ne sia fatto nulla).

VIRGINIO
Oh sventurata a te!

FABRIZIO
Questo sia sopra di voi.

VIRGINIO
Gherardo, di grazia, mettiamola in casa tua, ch’ella non sia veduta così.

GHERARDO
Non farò. Menala pure alla tua.

VIRGINIO
Per mio amore, fa’ un poco aprire l’uscio.

GHERARDO
Non, dico.

VIRGINIO
Ascolta un poco. E voi aviate cura che costei non vada altrove.

FABRIZIO
Io ho conosciuti molti modanesi pazzi li quali non contarei per nome; ma pazzi come questo vecchio che non stesse o legato o rinchiuso non viddi alcuno mai. Guarda che bello umore! È impazzato in questo, per quanto mi sono accorto, che i gioveni gli paion donne. Oh! Questa è molta più bella pazzia che quella donne. Oh! Questa è molto più bella pazzia che quella che il Molza disse della donna sanese che gli pareva essere una vettina: essendo più propio delle donne aver poco cervello che de’ vecchi. Ché per mille ragioni dovea essere savissimo! E non vorrei per cento scudi non poter contar questa pazzia alle veglie, al tempo dei carnovali. Or vengono in qua. Vediamo quel che dicono.

GHERARDO
Io ti dirò il vero: da un canto mi pare, dall’altro no. Pure, se gli può domandare un poco meglio.

VIRGINIO
Vien qua.

FABRIZIO
Che volete, buon vecchio?

VIRGINIO
Tu sei ben trista, tu.

FABRIZIO
Non mi dite villania, ch’io non comportarò.

VIRGINIO
Sfacciata!

FABRIZIO
Oh, oh, oh, oh, oh, oh, oh!

GHERARDO
Lascial dire: non vedi che gli è scorrucciato? Fa’ a suo modo.

FABRIZIO
Che vuoi da me? che ho da far né con voi né con lui.

VIRGINIO
Ancor hai ardir di parlare? Di chi sei figliuola, tu?

FABRIZIO
Di Virginio Bellenzini.

VIRGINIO
Volesse Dio che tu non fusse! ché tu mi farai morir innazi tempo.

FABRIZIO
Innanzi tempo muore un vecchio di sessant’anni? Tanto vivesse ognuno! Morite a vostra posta, ché sète vissuto troppo.

VIRGINIO
Tua colpa, ribalda!

GHERARDO
Eh! Lasciate queste parole, figliuola mia e sorella mia. Non si risponde così al padre.

FABRIZIO
Lascia andare. I colombini s’appaiano. Tutt’ a due questi peccano d’un medesimo umore. Eh, che bel caso! Ah, ah, ah, ah, ah!

VIRGINIO
Ancor ridi?

GHERARDO
Questo è un mal segno, a farsi beffe del padre.

FABRIZIO
Che padre? che madre? Io non ebbi mai altro padre che Virginio né altra madre che Giovanna. Voi mi parete una bestia. Che vi credete? Forse ch’io non abbi alcun per me?

GHERARDO
Virginio, sai che dubito? che per maninconia non abbi a questa povera giovane dato volta il cervello.

VIRGINIO
Trist’a me! ch’io me n’accorsi fino al principio, quando vidi che con sì poca pazienzia mi venne innanzi.

GHERARDO
No. Questo poteva proceder da altro.

VIRGINIO
E da che?

GHERARDO
Com’una donna ha perduto l’onore, tutto ‘l mondo è suo.

VIRGINIO
Io dico che l’ha qualche pazzia nel capo.

GHERARDO
Pur, si ricorda del padre e della madre, e mentre par che non tu conosca.

VIRGINIO
Faciamola entrare in casa tua, poi che gli è qui vicina, ché alla mia non la potrei far condurre senza farmi scorgere a tutta la terra.

FABRIZIO
(Che se consegliano quei rimbanbiti, fratelli di Melchisedec?)

VIRGINIO
Faciamo in prima con le buone tanto che noi la conduciamo dentro; poi, per forza, la serraremo in camara con tua figliuola.

GHERARDO
Che si faccia.

VIRGINIO
Orsù, figliuola mia! Io non voglio star teco più in còlora. Ti perdono ogni cosa, purché attendi a viver bene.

FABRIZIO
Vi ringrazio.

GHERARDO
Cosi fanno le buone figliuole.

FABRIZIO
(Ecco l’altro rosto fresco).

GHERARDO
Orsù! Non v’è onore esser visti ragionar fuore in questo abito. Entratevene in casa. Pasquella, apre l’uscio.

VIRGINIO
Entra, figliuola mia.

FABRIZIO
Cotesto non farò io.

GHERARDO
Perché?

FABRIZIO
Perché non voglio entrar per le case d’altri.

GHERARDO
Costei sarà una Penelope, beato a me!

VIRGINIO
Non diss’io che la mia figliuola era bella e buona?

GHERARDO
L’abito ‘l mostra.

VIRGINIO
Ti vo’ dir solamente una parola.

FABRIZIO
Ditela di fuore.

GHERARDO
Eh, che non sta bene! Questa casa è la tua; tu hai da esser la mia moglie.

FABRIZIO
Che moglie? Vecchio buggia... bugiardo!

GHERARDO
Tuo padre mi t’ha pur promessa.

FABRIZIO
Che pensate ch’io sia forse qualche bagascia che si faccia... eh? ...

VIRGINIO
Orsù! Non la far corrucciar. Odi, figliuola mia, io non vo’ far se non quel tanto che tu vorrai.

FABRIZIO
Eh, vecchio, mi conoscete male.

VIRGINIO
Ode una parola qui dentro.

FABRIZIO
Dieci, non tanto una. Ho forse paura di voi?

VIRGINIO
Gherardo, ora che voi l’avete qui drento, ordiniamo di serrarla in camara con tua figliuola fino a tanto che si rimanda pei suoi panni.

GHERARDO
Ciò che tu vuoi, Virginio. Pasquella, porta la chiave della camera da basso e chiama Isabella che venga giù.


Atto IV

Scena 1

Pedante e Stragualcia.

PEDANTE
Egli ti starebbe molto bene ch’egli ti desse cinquanta bastonate per insegnarti, quando e’ va fuore, a fargli compagnia e non t’imbriacasse e poi dormire, come hai fatto, e lasciarlo andar solo.

STRAGUALCIA
E voi doveria far caricar di scope, di solfo, di pece, di polvere e darvi fuoco per insegnarvi a non esser quel che voi sète.

PEDANTE
Imbriaco! imbriaco!

STRAGUALCIA
Pedante! pedante!

PEDANTE
Lassa ch’io trovi il padrone! ...

STRAGUALCIA
Lasciate ch’io truovi suo padre! ...

PEDANTE
Oh! A suo padre che puoi dir di me?

STRAGUALCIA
E voi che potete dir di me?

PEDANTE
Che tu sei un gaglioffo, un manigoldo, un infingardo, un poltrone, un pazzo, uno imbriaco, posso dire.

STRAGUALCIA
E io che voi sète un ladro, un giocatore, una mala lingua, un barro, un mariuolo, un frappatore, un vantatore, un capo grosso, uno sfacciato, uno ignorante, un traditore, un sodomito, un tristo, posso dire.

PEDANTE
Noi siamo conosciuti.

STRAGUALCIA
Voi dite ‘l vero.

PEDANTE
Basta! Non più parole; non mi vo’ metter con un par tuo, ché non m’è onore.

STRAGUALCIA
Sì, per Dio! Tutta la nobilità della Maremma è in voi! Sareste mai altro che figliuol d’un mulattiere? Non son io nato meglio di voi? Pare onesto a questo furfante, poi che sa dir «cuius mascolini», di tener ognun sotto i piei.

PEDANTE
«Povera e nuda vai, filosofia». In bocca di chi son venute le povere lettere? D’uno asino.

STRAGUALCIA
L’asino sarete voi, se non parlate altrimenti, ché vi caricarò di legname.

PEDANTE
Sai che ti ricordo? Furor sit laesa saepius sapientia. Tu mi farai un tratto uscir del manico, Stragualcia. Lasciami stare, famegliaccio di stalla, poltrone, arcipoltrone!

STRAGUALCIA
Doh! Pedante, arcipedante, pedante, pedantissimo! Puossi dir peggio che pedante? Trovasi la peggior genia? Ecci la maggior canaglia? Trovasi esercizio peggiore? Forse che non vanno gonfiati perché altri gli chiama «messer tale» e «maestro quale»? e che non rispondono con riputazione a una sbirettata discosto un miglio? Com’andò, messer caca, messer stronzo, maestro squaquara, messer merda?

PEDANTE
Tractanti fabrilia fabri. Tu parli propio da quel che sei.

STRAGUALCIA
Parlo di quel che vi piace.

PEDANTE
Vòimiti levar dinanzi?

STRAGUALCIA
Io non vi ci fui mai dinanzi, benché non è restato da voi.

PEDANTE
Al corpo di...

STRAGUALCIA
Al corpo di... Guarda chi mi vuol dir villania! Sa che non fece mai tristizia ch’io non sappia e che, s’io volesse, il potrei fare ardere, e pur mi sta a rompere il culo.

PEDANTE
Ti menti per la gola, ch’io non son uomo da ciò.

STRAGUALCIA
Sarebbe forse il primo.

PEDANTE
Ho deliberato, Stragualcia, o che tu non starai in casa o ch’io non ci starò io.

STRAGUALCIA
È forse la prima volta che l’avete detto? Voi non ve ne partiresti se altri ve ne cacciasse con le granate. Ditemi un poco: chi trovareste voi che vi tenesse a tavola seco, nello studio seco, a dormire seco, se non questo giovinetto che è meglio del pane?

PEDANTE
Per Dio, sì, mi mancarebbeno i partiti quando io gli volesse! Ho tal che mi prega.

STRAGUALCIA
Oh la buona robba! Passate, passate.

PEDANTE
Vogliam far poche parole; e farai bene. Tórnatene a l’ostaria ed abbi cura alle robbe del padrone. Poi faremo conto insieme.

STRAGUALCIA
All’ostaria tornarò io volentieri, e conto farò io a vostra posta; ma pensate d’avere a pagar voi. (S’io non facesse qualche volta il viso dell’arme a questo sciagurato, non potrei viver con lui. Egli è più vil ch’un coniglio. Com’io lo bravo, non fa parola; ma, s’io me gli mettesse sotto, mi squartarebbe, sì gross’ha la discrezione! Buon per me che lo cognosco!)

PEDANTE
(Il Frulla m’ha detto che Fabrizio sarà in verso piazza; e però sarà buono ch’io pigli di qua).

Scena 2

Gherardo, Virginio e Pedante.

GHERARDO
De la dote, quel che è detto è detto. La dotarò come tu vorrai; e tu aggiugni mille fiorini, quando tu figliuol non si truovi.

VIRGINIO
Così sia.

PEDANTE
(S’io non m’inganno, io ho veduto questo gentiluomo altre volte; né mi ricordo dove).

VIRGINIO
Che mirate, uoma da bene?

PEDANTE
(Certo, questo è il padrone).

GHERARDO
Lascia mirar quel che gli piace. Debb’esser poco pratico in questa terra: ché negli altri luochi non si pon mente a chi mire, come qui, ma si lascia mirar ognuno.

PEDANTE
S’io miro, io non miro sine causa. Ditemi: cognoscete voi in questa terra messer Virginio Bellenzini?

VIRGINIO
Sì, cognosco; e non potrebb’esser più mio amico di quel che gli è. Ma che volete voi da lui? Se pensate d’alloggiar seco, vi dico che gli ha altre facende e che non vi po’ attendere; sì che cercate pur altro oste.

PEDANTE
Voi sète per certo esso. Salvete, patronorum optime!

VIRGINIO
Sareste mai messer Pietro de’ Pagliaricci, maestro di mio figliuolo!

PEDANTE
Sì, sono.

VIRGINIO
Oh figliuol mio! Trist’a me! Che nuove mi portate di lui? Ove il lasciaste? Ove moritte? Perché sète stato tanto avvisarmi? Ammazzoronlo quei traditori, quei iudei, quei cani? Figliuol mio! Era quanto bene io avevo al mondo! O caro maestro mio, presto ditemelo! Ve ne prego.

PEDANTE
Non piangete, messer, di grazia.

VIRGINIO
Oh Gherardo, genero mio. Ecco chi m’allevò quel povero figliuolo mentre che visse. Oh maestro! Oh figliuol mio, dove se’ tu sotterato? Sapetene nulla? Ché non mel dite? Ch’io muoio di voglia di saperlo e di paura di non intender quello ch’io intenderò.

PEDANTE
O padron mio, non piangete. Perché piangete?

VIRGINIO
Non piangerò io un così dolce figliuolo? Così savio? Così dotto? Così bene allevato? Che quei traditori me l’ammazzorono.

PEDANTE
Iddio ve ne guardi, voi e lui. Vostro figliuolo è vivo e sano.

GHERARDO
(Mal per me, se questo è. Perdut’ho io mille fiorini).

VIRGINIO
Vivo e sano? Che se così fusse, saria ora con voi!

GHERARDO
Virginio, cognosci ben costui, che non sia qualche barro?

PEDANTE
Parcius ista viris,tamen obiicienda memento.

VIRGINIO
Ditemi qualche cosa, maestro.

PEDANTE
Vostro figliuolo, nel sacco di Roma, fu prigione d’un capitano Orteca.

GHERARDO
State a udire, ché ora comincia la favola.

PEDANTE
E perché gli era a compagnia con due altri, pensando d’ingannarli, secretamente ci mandò a Siena. Di li a pochi giorni venn’egli dubitando che quelli gentiluomini sanesi – che sono molto amici del dritto e del ragionevole e molto affezionati a questa nazione, e sopra tutto uomini da bene – non glielo tollesseno e liberassero, lo cavò di Siena e mandò a un castel del signor di Piombino; e, per usque millies ci fece scrivere per mille ducati di taglia che gli avea posto.

VIRGINIO
Figliuol mio! Straziavanlo almanco?

PEDANTE
Non certo, ma il trattavan da gentiluomo.

GHERARDO
Io sto con la morte alla bocca.

PEDANTE
Non avemmo mai risposta di lettere che noi mandassemo.

GHERARDO
Tu intendo, che si che ti cavarà di man qualche scudo.

VIRGINIO
Segue.

PEDANTE
Or, essendoci condotti col campo spagnuolo in Corregia, fu questo capitano amazzato; e la corte prese la sua robba e noi ha liberati.

VIRGINIO
E dov’è il mio figliuolo?

PEDANTE
Più presso che non credete.

VIRGINIO
È forse in Modana?

PEDANTE
Se mi promettete il beveraggio, quia omnis labor optat praemium, io ve ‘l dirò.

GHERARDO
Or questa è la cosa, truffatore!

PEDANTE
Voi avete il torto. Truffatore io? Absit!

VIRGINIO
Prometto ciò che voi volete. Dove è?

PEDANTE
Nell’ostaria del «Matto».

GHERARDO
(La cosa è fatta: i mille fiorini son giocati. Ma che mi fa a me? Pur ch’i’ abbi lei, mi basta. Io son ricco d’avanzo).

VIRGINIO
Andiamo, maestro, ch’io non credo veder quell’ora ch’io ‘l vegghi, ch’io l’abbracci, ch’io ‘l baci e lo pigli in collo!

PEDANTE
Padrone, oh quanto mutatus ab illo! è non è più fanciullo da pigliare in collo. Voi non lo cognoscereste. Gli è fatto grande, e so’ certo che non riconoscerà voi, così sète mutato. Praeterea, avete questa barba, che prima non la portavate, e, s’io non vi sentivo parlare, non vi arei mai cognosciuto. Che è di Lelia?

VIRGINIO
Bene. Gli è fatta grande e grossa.

GHERARDO
Come «grossa»? Se gli è cotesto, tientela, ch’io per me non la voglio.

VIRGINIO
Oh! oh! Io dico che gli è fatta già una donna. O maestro, io non v’ho ancor baciato.

PEDANTE
Padrone, io non dico per vantarmi; ma io ho fatto per il vostro figliuolo... so ben io; e n’ho avuta cagione ch’io non lo richiesi mai di cosa che subito egli non s’inchinasse a farla.

VIRGINIO
Come ha imparato?

PEDANTE
Non ha perduto il tempo a fatto, ut licuit per varios casus, per tot discrimina rerum.

VIRGINIO
Chiamatelo un poco fuore; e non gli dite niente. Vo’ veder se mi conosce.

PEDANTE
Egli era uscito dell’ostaria poco fa. Veggiamo se gli è tornato.

Scena 3

Pedante, Stragualcia, Virginio e Gherardo.

PEDANTE
Stragualcia! O Stragualcia! È tornato Fabrizio?

STRAGUALCIA
Non anco.

PEDANTE
Vien qua. Fa’ motto al padron vecchio. Questo è messer Virginio.

STRAGUALCIA
Evvi passata la còllora?

PEDANTE
Non sai ch’io non tengo mai còllora con te?

STRAGUALCIA
Fate bene.

PEDANTE
Or da’ qua la mano al padre di Fabrizio.

STRAGUALCIA
Porgetemela voi.

PEDANTE
Non dico a me, dico a questo gentiluomo.

STRAGUALCIA
È questo il padre del nostro padrone?

PEDANTE
Sì, è.

STRAGUALCIA
O padron magnifico, a tempo veniste per pagar l’oste. Ben giunto!

PEDANTE
Costui è stato un buon servitore a vostro figliuolo.

STRAGUALCIA
Volete forse dir ch’io non gli son più?

PEDANTE
No.

VIRGINIO
Che tu sia benedetto, figliuol mio! Pensa ch’io ho da ristorar tutti quelli che gli han fatto buona compagnia.

STRAGUALCIA
Voi mi potete ristorar con poca cosa.

VIRGINIO
Dimanda.

STRAGUALCIA
Acconciatemi per garzon con questo oste che è il meglio compagno del mondo e ‘l meglio fornito e ‘l più savio e quel che meglio intende il bisogno del forestiero che oste che mai io vedesse. Io, per me, non credo che sia altro paradiso al mondo.

GHERARDO
Gli ha nome di tener molto bene.

PEDANTE
Hai tu fatto colazione?

STRAGUALCIA
Un poco.

VIRGINIO
Che hai mangiato?

STRAGUALCIA
Un par di starne, sei tordi, un cappone, un poca di vitella; e bevuto due boccali solamente.

VIRGINIO
Frulla, dàgli ciò che vuole; e lascia pagare a me.

PEDANTE
Or che vuoi?

STRAGUALCIA
Vi bacios las manos. A questo modo son fatti i padroni, maestro! Messer Piero, voi sète troppo misero e volete ogni cosa per voi. Sapete da quanti v’è stato detto. Frulla, porta un poco da bere a questi gentiluomini.

PEDANTE
Non bisognano.

STRAGUALCIA
So che voi berete. Pagarò io. Che credete che sia? Due animelle, una fetta di salsiccione... Volete? Maestro, bevete voi ancora.

PEDANTE
Per far teco la pace son contento.

STRAGUALCIA
Oh! Gli è buono, padrone. Voi avete da voler bene al maestro che vuol meglio al vostro figliuolo che agli occhi suoi.

VIRGINIO
Dio gli facci di bene!

STRAGUALCIA
Tocca prima a voi e poi a Dio. Bevete, gentiluomo.

GHERARDO
Non accade.

STRAGUALCIA
Per gentilezza, entrate drento, tanto che Fabrizio torni, e, poi che la cena è in ordine, cenaremo qui, questa sera.

PEDANTE
Questo non è forse male.

GHERARDO
Io vi lasciarò, ché ho un poco di facenda a casa.

VIRGINIO
Abbi cura che colei non si parta.

GHERARDO
Non ci vo per altro.

VIRGINIO
Gli è tua. Fanne a tuo modo. Per me, te ne do licenzia.

GHERARDO
Infine, e’ non si possono aver tutti i contenti. Pazienzia! Ma, si veggo bene, questa è Lelia che sarà uscita fuora. Quella da poco della fantesca l’arà lasciata fuggire!

Scena 4

Lelia da ragazzo, Clemenzia balia e Gherardo.

LELIA
Parti, Clemenzia, che la Fortuna si tolga giuoco del fatto mio?

CLEMENZIA
Dàtene pace e lascia fare a me, ché trovarò qualche modo da contentarti. Va’, cavati questi panni, ché tu non sia veduta così.

GHERARDO
Io la vo’ pur salutare e intender come gli è fuggita. Dio ti contenti e te, Lelia, sposa mia dolce. Chi t’ha aperto l’uscio? La fantesca, eh? A me piace ben che tu sia venuta a casa della tua balia; ma l’esser veduta in questo abito è poco onore e a te e a me.

LELIA
(Oh sventurata! Costui m’ha conosciuta). Con chi parlate voi? Che Lelia! Io no son Lelia.

GHERARDO
Oh! Poco fa che noi t’inserrammo con Isabella mia figliuola, tuo padre ed io, non confessasti tu d’esser Lelia? E poi, credi ch’io non ti conoschi, moglie mia? Va’, cavati questi panni.

LELIA
Tanto v’aiti Dio, io arei voglia di marito!

CLEMENZIA
Vanne in casa, Gherardo mio. Tutte le donne fan delle citolezze, chi in un modo e chi in un altro. E sappi che poche e forse niuna ve n’è che non scapuzzi qualche volta. Pure, son cose da tenerle segrete.

GHERARDO
Per me, non se ne saprà mai nulla. Ma come è fuggita di casa mia, che l’avevo serrata con Isabella?

CLEMENZIA
Chi? Costei?

GHERARDO
Costei.

CLEMENZIA
Tu t’inganni, ché non s’è mai oggi partita da me. E per giambo, s’era testé messi questi panni, come fan le fanciulle, e dicevami ch’io mirasse se stava bene.

GHERARDO
Tu mi vuoi far travedere. Dico che noi la inserrammo in casa con Isabella.

CLEMENZIA
Donde venite voi adesso?

GHERARDO
Dall’ostaria del «Matto», che v’andai con Virginio.

CLEMENZIA
Beveste?

GHERARDO
Un trattarello.

CLEMENZIA
Or andate a dormire, ché voi n’avete bisogno.

GHERARDO
Fammi veder un poco Lelia prima ch’io mi parti; ch’io gli vo’ dare una buona nova.

CLEMENZIA
Che nuova?

GHERARDO
Gli è tornato suo fratello sano e salvo, e che ‘l padre l’aspetta all’ostaria.

CLEMENZIA
Chi? Fabrizio?

GHERARDO
Fabrizio.

CLEMENZIA
S’io ‘l credesti, ti darei un bacio.

GHERARDO
Sì che la gioia è bella! Famel più presto dare a Lelia.

CLEMENZIA
Io vo’ correre a dirglielo.

GHERARDO
Ed io a darne un follo a quella sciagurata che l’ha lasciata partire.

Scena 5

Pasquella fante, sola.

PASQUELLA
Uh, trista a me! Io ho avuta sì fatta la paura ch’io son uscita fuor di casa. E so che s’io non vi dicessi di che, donne mie, voi nol sapreste. A voi lo vo’ dire, e non a questi uominacci che se ne farebben le belle risa. Que’ due vecchi pecoroni dicevan pur che quel giovinetto era donna e rinserronolo in camera con Isabella mia padrona e a me dieder la chiave. Io vòlsi entrar dentro e veder quel che facevano: e trovai che s’abbracciavano e si baciavano insieme. Io ebbi voglia di chiarirmi se era o maschio o femina. Avendolo la padrona disteso in sul letto, e chiamandomi ch’io l’aiutassi mentre ch’ella gli teneva la mani, egli si lasciava vincere. Lo sciolsi dinanzi: e, a un tratto, mi sentii percuotere non so che cosa in su le mani; né cognobbi se gli era un pestaglio o una garotta o pur quell’altra cosa; ma, sia quel che si vuole, e’ non è cosa che abbia sentita la grandine. Come io la viddi cosi fatta, fugge, sorelle, e serra l’uscio! E so che, per me, non ve tornarei sola; e, se qualcuna di voi non mel crede e voglia chiarirsene, io gli prestarò la chiave. Ma ecco Giglio. Io vo’ vedere s’io posso far tanto ch’io gli cavi di man quella corona e uccellarlo; perché si tengon tanto accorti, questi spagnuoli, che non si credon ch’altri si truovi al mondo che loro che tanto ne sappi.

Scena 6

Giglio spagnuolo e Pasquella fante.

GIGLIO
(Aglià sta Pasquella. Ya penso que le paresca que muccio tardasse, per arta gana que tiene de ser conmigo. Ya sape, la malditta, quanto valen los spagnuolos en las cosas dellas migeres. Oh come se holgan de nosotros estas puttas italianas).

PASQUELLA
(Io ho già pensato in che modo ho fare a farlo star forte. Lascia pur fare a me).

GIGLIO
(Esta male aventurada lavandera, sì se piensa ch’io gli desse el rosario. Renniego dell’imperador se io non quiero que la hurti tanto à suo amo que me compri calzas y giuppon y camisas de dos in dos. Holgaromme yo con ella a mio plazer y despuès tommaré à mio rosario sin dezir nada, que ya me pienso que ya non s’accorda d’ello).

PASQUELLA
(Se mi lascia una volta in mano quella corona, se la vede mai più, cavami gli occhi. E, se mi dirà niente, gli farò fare un sì fatto spauracchio dal mio Spela, che mai non n’ebbe un sì fatto).

GIGLIO
Oh que benditta sia quella bien aventurada madre que vi feziò e criò tan hermosa, tan bien criada, tan verdadera! Ya penso que me speravate!

PASQUELLA
(Mira che dolci paroline che gli hanno). T’ho aspettato in su questo uscio più d’una mezza ora per veder se tu ci passavi, chè ‘l mio padrone non era in casa e aremmo avuto tempo di stare insieme un pezzo.

GIGLIO
Rencrescime, per Dios, che ho tenuto que facer. Mas entriamo.

PASQUELLA
Ho paura che ‘l padron non torni, ché ha un pezzo de andò fuora. Ma tu ti debbi esser scordata la corona, eh?

GIGLIO
Non, madonna; que aquì sta.

PASQUELLA
Mostra. Oh! Tu volevi fare acconciare il fiocco. Perché non l’hai fatto?

GIGLIO
Io la farò acconciar otra volta; y, per dezir la verdade, io non me ne so’ accordato.

PASQUELLA
Oh! È segno che tu facevi un gran conto di me, feminaccio che tu sei! Mi vien voglia...

GIGLIO
Non vi corruzate, madonna, con vostro figliuolo; que ben sapite que non tengo otra amiga que vos.

PASQUELLA
Son stata molto a cogliarti in bugia! Poco fa tu dicesti che n’avevi due, delle gentildonne, per amiche.

GIGLIO
Io las ho lasciatas per a voi, que non voglio io otra que voi. Non m’intendite?

PASQUELLA
Or bene sta. Mostrami un poco se questa corona è rosario. La mi par molto lunga.

GIGLIO
Non so, io quanti siano.

PASQUELLA
È segno che la dici spesso: nol debbi tu forse sapere il paternostro. Eh! Dagli un po’ qua, ch’io gli conti.

GIGLIO
Tommala; mas vamo dentro en casa.

PASQUELLA
Sai? Guarda che tu non sia veduto entrare.

GIGLIO
Aquì non sta ninguno.

PASQUELLA
Entriamo. Uh trista a me! Le mie galline son tute qui. Fermati, Giglio, un poco costi, ché, se fuggissero, non le giugnerei oggi.

GIGLIO
Facite presto.

PASQUELLA
Chino, chino, belline, belline, belline, isciò, isciò! Che ve rompiate il collo! Che sì che se ne fuggirà qualcuna. Para, para ben, Giglio.

GIGLIO
Donde stan estos pollos? Aquì non veo ni gallos ni gallinas.

PASQUELLA
Non gli vedi? Eccoli qui. Levati; lasciami un poco serrare l’uscio tanto ch’io ce gli rimetta.

GIGLIO
Oh! Voi inserrate col fierro. Oh! Este porqué?

PASQUELLA
Perch’io non vorrei che questi polli l’aprisseno.

GIGLIO
Fazite presto, ché algun non vienga y desturbe nostra fazienda.

PASQUELLA
Venga pur chi vuole, ché qua dentro non è per intrare.

GIGLIO
Oh que malditta seas, vieia putta! Dizetemi: porqué non aprite?

PASQUELLA
Giglio, sai, ben mio? Io vo’ prima dir tutta questa corona. Tu pòi andartene, per istasera. E non mi ricordavo ch’io ho anco a dire una orazione che non la soglio mai lasciare.

GIGLIO
Que trepparie son este? Que corona, que orazion es esta?

PASQUELLA
Che orazione? Vuoi ch’io te la insegni? Sai? È buona a dire. «Fantasima, fantasima, che dì e notte vai, se a coda ritta ci venisti, a coda ritta te n’andrai. Tristi con tristi, in malora ci venisti, e me coglier ci credesti, e ‘ngannato ci remanesti. Amen».

GIGLIO
Io no intendo à esta vostra orazione. Se non volite aprire, renditemi mio rosario, que io me iré con Dios. Voto allos santos martilogios que esta vieia alcahueta, disdicciada, vellacca ingagnommi. Madonna Pasquella, aprite; presto, per vostra vida!

PASQUELLA
«Che fa lo mio amor ch’egli non viene? L’amor d’un’altra donna me lo tiene». Meschina a me!

GIGLIO
E que! Non faze, donna Pasquella, que aquì sta sperando que gli apriate.

PASQUELLA
«Non ti posso servir, signor mio caro». Oimè!

GIGLIO
Aze musiga esta male avventurada! Ya non se accuerda que aquì sto. Daré colpo in esta puerta, voto à Dios. (Tic, tac, tic, toc).

PASQUELLA
Chi è là?

GIGLIO
Vostro figliuolo.

PASQUELLA
Che volete? Il padron non è in casa. Bisogna che si gli dica niente?

GIGLIO
Una parabla.

PASQUELLA
Aspetate, ché non può stare a venire.

GIGLIO
Aprite, que aspettarò drento. Partióse. Do renniego de todo el mondo, se non bruso toda esta posada, se non mi rende mio rosario. (Tic, tic, toc).

PASQUELLA
Olà! ch’è da esser? Voi avete una poca discrezione, perdonatemi. Chi voi séte? Oh! Par che voi vogliate spezzar questa porta.

GIGLIO
Voto à Dios e a santa Letania che anco la brusciarò, se non mi rendide mio rosario.

PASQUELLA
Cercatevene pure altrui; ché in tu l’orto non ce ne abbiam, de’ rosai.

GIGLIO
Non dico se non mis paternostros.

PASQUELLA
Che n’ho io a fare, se voi non dite se non i vostri paternostri? Vorreste forse ch’io diventasse una marrana come voi e imparasse a dirgli ancor io?

GIGLIO
Oh reniego de la putta, vellacca! Aùn me dizeis marrano?

PASQUELLA
Sai? Se tu non ti levi d’intorno a l’uscio, ti bagnarò.

GIGLIO
Gettate l’agua; el fuego porrò io a esta puerta. Malditta sea! Todo me ha mollado, esta putta, vellaca, viegia, alcahueta, male aventurada! Oh reniego de todos los frailes!

PASQUELLA
Bagna’vi? Non me ne avviddi. Ma ecco il padrone. Se volete niente, domandatelo a lui e non mi rompete più il capo.

GIGLIO
Se aquì me truova esto vieio, mil palos non mi mancan. Meior es de fuir.

Scena 7

Gherardo e Pasquella.

GHERARDO
Che facevi tu, intorno a l’uscio, di quello spagnuolo? Che hai tu da far con lui?

PASQUELLA
Domandava non so che rosaio. Io, per me, non l’ho mai inteso.

GHERARDO
Oh! Tu hai fatto ben quel ch’io ti dissi! Ho cosi voglia di romperti l’ossa.

PASQUELLA
Perché?

GHERARDO
Perché hai lasciato partir Lelia? Non ti diss’io che tu non gli aprisse?

PASQUELLA
Quando parti? Non è ella in camera?

GHERARDO
È il malan che Dio ti dia.

PASQUELLA
So che la v’è, io.

GHERARDO
So che la non v’è, ché l’ho lasciata in casa di Clemenzia sua balia.

PASQUELLA
Non l’ho testé lasciata in camara, in ginochioni, che infilzavano i paternostri?

GHERARDO
Forse è tornata prima di me.

PASQUELLA
Dico che non s’è partita, ch’io sappi. La camara è pur stata serrata.

GHERARDO
Dov’è la chiave?

PASQUELLA
Eccola.

GHERARDO
Dammela, ché, se non v’è, ti vo’ rompere l’ossa.

PASQUELLA
E, se la v’è, daretemene una camiscia?

GHERARDO
Son contento.

PASQUELLA
Lasciate aprire a me.

GHERARDO
No, voglio aprir io. Tu trovaresti qualche scusa.

PASQUELLA
Oh! Io ho la gran paura che non gli truovi a’ ferri. Pure ha un pezzo ch’io gli lasciai.

Scena 8

Flamminio, Pasquella e Gherardo.

FLAMMINIO
Pasquella, quant’è che ‘l mio Fabio non fu da voi?

PASQUELLA
Perché?

FLAMMINIO
Perché gli è un traditore; ed io lo gastigarò. E poi ch’Isabella ha lasciato me per lui, se l’arà come merita. Oh che bella lode d’una gentildonna par sua, innamorarsi d’un ragazzo!

PASQUELLA
Uh! Non dite cotesto, ché le carezze ch’ella gli fa, gli le fa per amor vostro.

FLAMMINIO
Digli che ancor un dì se pentirà. A lui, com’io lo truovo (i’ porto questo coltello in mano a posta), gli vo’ tagliar le labbra, l’orecchie e cavargli uno occhio, e metter ogni cosa in un piatto e poi mandarglielo a donar. Vo’ che la si sfami di baciarlo.

PASQUELLA
Eh sì! (“Mentre che ‘l cane abbaia, il lupo si pasce”).

FLAMMINIO
Tu il vedrai.

GHERARDO
Oimè! A questo modo son giuntato io? A questo modo, eh? Misero a me! Quel traditor di Virginio, traditoraccio! m’ha pure scorto per un montone. Oh Dio! Che farò io?

PASQUELLA
Che avete, padrone?

GHERARDO
Che ho, ah? Chi è colui chi è con mia figliuola?

PASQUELLA
Oh! Nol sapete voi? non è la cìtola di Virginio?

GHERARDO
Cìtola, eh? Cìtola che farà fare a mia figliuola de’ cìtoli, dolente a me!

PASQUELLA
Eh! Non dite coteste parolacce! Che cos’è? non è Lelia?

GHERARDO
Dico che gli è un maschio.

PASQUELLA
Eh, non è vero! Che ne sapete voi?

GHERARDO
L’ho veduto con questi occhi.

PASQUELLA
Come?

GHERARDO
Adosso alla mia figliuola, trist’a me!

PASQUELLA
Eh, che dovevano scherzare!

GHERARDO
È ben che scherzavano.

PASQUELLA
Avete veduto che sia maschio?

GHERARDO
Sì, dico, ché aprendo l’uscio a un tratto, egli s’era spogliato in giubbone e non ebbe tempo a coprirsi.

PASQUELLA
Vedeste voi ogni cosa? Eh, mirate che gli è femina.

GHERARDO
Io dico che gli è maschio e bastarebbe a far due maschi.

PASQUELLA
Che dice Isabella?

GHERARDO
Che vuo’ tu ch’ella dica? Svergognato a me!

PASQUELLA
Ché non lasciate andar or quel giovine? Che ne volete fare?

GHERARDO
Che ne vo’ fare? Accusarlo al governatore; e farollo gastigare.

PASQUELLA
Oh, forse fuggirà.

GHERARDO
Eh! Io l’ho rinserrato drento. Ma ecco Virginio. Apponto non volevo altro.

Scena 9

Pedante, Virginio e Gherardo

PEDANTE
Io mi maraviglio, per certo, che già non sia tornato a l’ostaria; e non so che me ne dire.

VIRGINIO
Aveva arme?

PEDANTE
Credo de sì.

VIRGINIO
Costui sarà stato preso, ché abbiamo un podestà che scorticarebbe li cimici.

PEDANTE
Io non credo però che a’ forestiere si faccia queste scortesie.

GHERARDO
A Dio, Virginio. Questo è atto da uomo da bene? Questa è cosa convenevole a uno amico? questo è il parentado che volevi far con esso me? chi t’hai pensato di gabbare? Credi ch’io sia per comportarla? Mi vien voglia...

VIRGINIO
Di che cosa ti lamenti di me, Gherardo? Che t’ho io fatto? Io non cercai mai di far parentado teco. Tu me n’hai rotto il capo uno anno. Ora, se non ti piace, non vada avanti.

GHERARDO
Anco hai ardimento di rispondere, come s’io fusse un beccone? Traditoraccio, giuntatore, barro, mariuolo! Ma il governatore saprà ogni cosa.

VIRGINIO
Gherardo, coteste parole non pertengono a un par tuo, e massimamente con me.

GHERARDO
Anco non vuol ch’io mi lamenti, questo tristo! Sei diventato superbo perché hai ritrovato tuo figliuolo, eh?

VIRGINIO
Tristo se’ tu.

GHERARDO
Oh Dio! Perché non son giovine com’io era? Ch’io ne farei pezzi del fatto tuo.

VIRGINIO
Puossi intender quel che tu vuoi dire o no?

GHERARDO
Sfacciato!

VIRGINIO
Io ho troppo pazienzia.

GHERARDO
Ladro!

VIRGINIO
Falsario!

GHERARDO
Menti per la gola. Aspetta...

VIRGINIO
Aspetto.

PEDANTE
Ah gentiluomo, che pazzia è questa?

GHERARDO
Non mi tenete!

PEDANTE
E voi, messer, mettetevi la veste.

VIRGINIO
Con chi si pensa avere a fare? Rendemi la mia figliuola.

GHERARDO
Scannarò te e lei.

PEDANTE
Che cosa ha da far questo gentiluomo con esso voi?

VIRGINIO
Non so, io, se non che, poco fa, gli messi Lelia mia figliuola in casa, ché la voleva per moglie. Ora voi vedete. E temo non gli faccia dispiacere.

PEDANTE
Ah, ah, gentiluomo! Non si vuole con l’arme! Con l’arme?

GHERARDO
Lasciatemi.

PEDANTE
Che differenzia è la vostra?

GHERARDO
Questo traditore m’ha disfatto.

PEDANTE
Come?

GHERARDO
S’io non lo taglio a pezzi, s’io non lo squarto con questa ronca...

PEDANTE
Ditemi, di grazia, come la cosa sta.

GHERARDO
Entriamo in casa, poché il traditore s’è fuggito, ch’io vi contarò ogni cosa. Non sète voi il maestro di suo figliuolo, che veniste a l’ostaria con noi?

PEDANTE
Sì, sono.

GHERARDO
Entrate.

PEDANTE
Sopra la fede vostra?

GHERARDO
Oh! Si è.


Atto V

Scena 1

Virginio, Stragualcia, Scatizza, Gherardo, Pedante e Fabrizio.

VIRGINIO
Venite con me quanti voi sète. Stragualcia, vien tu ancora.

STRAGUALCIA
Con l’arme o senza? Io non ho arme.

VIRGINIO
Tolle costì, in casa dell’oste, qualche arme.

STRAGUALCIA
Padrone, col targone bisognarebbe una lancia.

VIRGINIO
Non mi curo più di lancia. Mi basta questo.

SCATIZZA
Questa rotella sarebbe più galante per voi, essendo in giubbone.

VIRGINIO
No, questa copre meglio. Oh! Par che questo montone m’abbia trovato a furare. Ho paura ch’ el non abbia amazzata quella povera figliuola.

STRAGUALCIA
Questa è buona arme, padrone. Io lo voglio infilzare con questo spedone come un beccafico.

SCATIZZA
Oh! Che vuoi tu far dell’arrosto?

STRAGUALCIA
Son pratico in campo e so che, la prima cosa, bisogna far provision di vettovaglia.

SCATIZZA
Oh! Cotesto fiasco perché?

STRAGUALCIA
Per rinfrescare i soldati, se alla prima battaglia fusser ributtati indrieto.

SCATIZZA
Questo mi piace, ché ei avverrà.

STRAGUALCIA
Volete che insieme insieme infilzi il vecchio e la figliuola, i famegli, la casa e tutti come fegatelli? Al vecchio cacciarò lo spedone in culo e faroglielo uscir per gli occhi; gli altri tutti a traverso come tordi.

VIRGINIO
La casa è aperta. Costoro aran fatto qualche imboscata.

STRAGUALCIA
Imboscata? Mal va. Io ho più paura del legname che delle spade. Ma ecco il maestro che esce fuora.

PEDANTE
Lasciate fare a me, ch’io vi do la cosa per acconcia, messer Gherardo.

STRAGUALCIA
Guardatevi, padrone, ché questo maestro si potrebbe essere ribellato e accordato coi nimici; ché pochi si trovan de’ suo’ pari che tenghino il fermo. Volete ch’io cominci a infilzaro e ch’io dica «e uno»?

PEDANTE
Messer Virginio, padrone, perché queste arme?

STRAGUALCIA
Ah! ah! Non tel dissi io?

VIRGINIO
Che è della mia figliuola? Dìemela, ch’io la vo’ menare a casa mia. E voi avete trovato Fabrizio?

PEDANTE
Sì, ho.

VIRGINIO
Dov’è?

PEDANTE
Qui dentro, che ha tolto una bellissima moglie, se ne sète contento.

VIRGINIO
Moglie, eh? e chi?

STRAGUALCIA
(Molto presto ricco ricco!)

PEDANTE
Questa bella e gentil figliuola di Gherardo.

VIRGINIO
Oh! Gherardo testé mi voleva amazzare.

PEDANTE
Rem omnem a principio audies. Entriamo in casa, ché saprete il tutto. Messer Gherardo, venite fuora.

GHERARDO
O Virginio, il più strano caso che fusse mai al mondo! Entra.

STRAGUALCIA
(Infilzolo? Ma gli è carne da tinello).

GHERARDO
Fa’ metter giù queste arme, ché gli è cosa da ridere.

VIRGINIO
Follo sicuramente?

PEDANTE
Sicuramente, sopra di me.

VIRGINIO
Orsù, andate a casa, voi altri! E ponete giù l’armi e portatemi la mia veste.

PEDANTE
Fabrizio, viene a conoscer tuo padre.

VIRGINIO
Oh! Questa non è Lelia?

PEDANTE
No, questo è Fabrizio.

VIRGINIO
O figliuol mio!

FABRIZIO
O padre tanto da me desiderato!

VIRGINIO
Figliuol mio, quanto t’ho pianto!

GHERARDO
In casa, in casa, ché tu sappia il tutto. E più ti dico, che tua figliuola è in casa di Clemenzia sua balia.

VIRGINIO
O Dio, quante grazie ti rendo!

Scena 2

Crivello, Flamminio e Clemenzia balia.

CRIVELLO
Io l’ho veduto in casa di Clemenzia balia con questi occhi e udito con questi orecchi.

FLAMMINIO
Guarda che fusse Fabio.

CRIVELLO
Credete ch’io nol cognoscesse?

FLAMMINIO
Andiam là. S’io ‘l truovo...

CRIVELLO
Voi guastarete ogni cosa. Abbiate pazienzia fino ch’egli esca fuore.

FLAMMINIO
E’ nol farebbe Iddio ch’io avessi più pazienzia.

CRIVELLO
Voi guastarete la torta.

FLAMMINIO
Io mi guasti! (Tic, toc, toc).

CLEMENZIA
Chi è?

FLAMMINIO
Un tuo amico. Viene un poco giù.

CLEMENZIA
Oh! Che volete, messer Flamminio?

FLAMMINIO
Apre, ché tel dirò.

CLEMENZIA
Aspettate, ch’io scendo.

FLAMMINIO
Com’ell’ha aperto l’uscio, entra dentro; e mira se vi è e chiamami.

CRIVELLO
Lasciate fare a me.

CLEMENZIA
Che dite, signor Flamminio?

FLAMMINIO
Che fai in casa del mio ragazzo?

CLEMENZIA
Che ragazzo? E tu, dove entri, prosuntuoso? vuoi intrare in casa mia per forza?

FLAMMINIO
Clemenzia, al corpo della sagrata, intemerata, pura, se tu non me ‘l rendi...

CLEMENZIA
Che volete ch’io vi rendi?

FLAMMINIO
Il mio ragazzo che s’è fuggito in casa tua.

CLEMENZIA
In casa mia non vi è servidor nissun vostro, ma sì bene una serva.

FLAMMINIO
Clemenzia, e’ non è tempo da muine. Tu mi sei stata sempre amica, ed io a te. Tu m’hai fatti de’ piaceri, ed io a te. Or questa è cosa che troppo importa.

CLEMENZIA
Qualche furia d’amor sarà questa. Orsù, Flamminio, lasciatevi un poco passar la collera!

FLAMMINIO
Io dico: rendemi Fabio.

CLEMENZIA
Vel renderò.

FLAMMINIO
Basta! Falli venir giù.

CLEMENZIA
Oh! Non tanta furia, per mia fé! Ché, s’io fusse giovane, e ch’io vi piacessi, non m’impacciarei mai con voi. E che è di Isabella?

FLAMMINIO
Io vorrei che la fosse squartata.

CLEMENZIA
Eh! Voi non dite da vero.

FLAMMINIO
S’io non dico da vero? Ti so dir che la m’ha chiarito!

CLEMENZIA
E sì! A voi giovinacci sta benne ogni male, ché sète più ingrati del mondo.

FLAMMINIO
Questo non dir per me: ch’ogni altro vizio mi si potrebbe forse provare, ma questo dell’essere ingrato, no, ché più mi dispiace che ad uom che viva.

CLEMENZIA
Io non lo dico per voi. Ma è stata in questa terra una giovane che, accorgendosi d’esser mirata da un cavaliere par vostro modanese, s’invaghì tanto di lui che la non vedeva più qua né più là che quanto era lungo.

FLAMMINIO
Beato lui! felice lui! Questo non potrò già dir io.

CLEMENZIA
Accade che ‘l padre mandò questa povera giovane innamorata fuor di Modena. E pianse, nel partir, tanto che fu maraviglia, temendo ch’egli non si scordasse di lei. Il qual subito ne riprese un’altra, come se la prima mai non avesse veduta.

FLAMMINIO
Io dico che costui non può esser cavaliere, anzi, è un traditore.

CLEMENZIA
Ascolta: c’è peggio. Tornando, ivi a pochi mesi, la giovane, e trovando che ‘l suo amante amava altri e da quella tale egli era poco amato, per fargli servizio, abbandonò la casa, suo padre e pose in pericolo l’onore; e, vestita da famiglio, s’acconciò con quel suo amante per servitore.

FLAMMINIO
È accaduto in Modena questo caso?

CLEMENZIA
E voi cognoscete l’uno e l’altro.

FLAMMINIO
Io vorrei più presto esser questo aventurato amante che esser signor di Milano.

CLEMENZIA
E che più? Questo suo amante, non la cognoscendo, l’adoperò per mezzana tra quella sua innamorata e lui; e questa poveretta, per fargli piacere, s’arrecò a fare ogni cosa.

FLAMMINIO
Oh virtuosa donna! oh fermo amore! cosa veramente da porre in esempio a’ seculi che verranno! Perché non è avvenuto a me un tal caso?

CLEMENZIA
Eh! In ogni modo, voi non lasciareste Isabella.

FLAMMINIO
Io lasciarei, quasi che non t’ho detto, Cristo, per una tale. E pregoti, Clemenzia, che tu mi facci cognoscer chi è costei.

CLEMENZIA
Son contenta. Ma io voglio che voi mi diciate prima, sopra alla fede vostra e da gentiluomo, se tal caso fusse avvenuto a voi, quello che voi fareste a quella povera giovane, e se voi la cacciareste, quando voi sapesse quello che la v’ha fatto, se l’uccidereste o se la giudicareste degna di qualche premio.

FLAMMINIO
Io ti giuro, per la virtù di quel sole che tu vedi in cielo, e ch’io non possa mai comparire dove sien gentiluomini e cavalieri par miei, s’io non togliesse prima per moglie questa tale, ancorché fusse brutta, ancorché la fusse povera, ancorché la non fusse nobile, che la figliuola del duca di Ferrara.

CLEMENZIA
Questa è una gran cosa. E così mi giurate?

FLAMMINIO
Così ti giuro, e così farei.

CLEMENZIA
Tu sia testimonio.

CRIVELLO
Io ho inteso e so ch’egli il farebbe.

CLEMENZIA
Ora io ti vo’ far cognoscer chi è questa donna e chi è quel cavaliere. Fabio! o Fabio! Vien giù al signor tuo che ti domanda.

FLAMMINIO
Che ti par, Crivello? Parti ch’io amazzi questo traditore o no? Egli è pure un buon servitore.

CRIVELLO
Oh! Io mi maravigliavo ben, io! Sarà pur vero quel ch’io mi pensavo. Orsù! Perdonategli: che volete fare? In ogni modo, questa chiappola d’Isabella non vi volse mai bene.

FLAMMINIO
Tu dici il vero.

Scena 3

Pasquella, Clemenzia, Flamminio, Lelia da femina e Crivello.

PASQUELLA
Lasciate fare a me, ché gli dirò quanto me avete detto, ché ho inteso.

CLEMENZIA
Questo è, messer Flamminio, il vostro Fabio. Miratel bene: cognoscetelo? Voi vi maravigliate? E questa medesima è quella sì fedele e sì costante innamorata giovane di chi v’ho detto. Guardatela bene, se la ricognoscete o no. Voi sète ammutito, Flamminio? Oh! Che vuol dire? E voi sète quel che sì poco apprezzate l’amor della donna sua. E questo è la verità. Non pensate d’essere ingannato. Cognoscete se io vi dico il vero. Ora attenetemi la promessa o ch’io vi chiamarò in steccato per mancatore.

FLAMMINIO
Io non credo che fusse mai al mondo il più bello inganno di questo. È possible ch’io sia stato sì cieco ch’io non l’abbi mai cognosciuta?

CRIVELLO
Chi è stato più cieco di me che ho voluto mille volte chiarirmene? Che maladetto sia! Oh! io son stato il bel da poco!

PASQUELLA
Clemenzia, dice Virginio che tu venga adesso adesso a casa nostra perché gli ha dato moglie a Fabrizio suo figliuolo chi è tornato oggi. E bisogna che tu vada a casa per metterla in ordine, ché tu sai che non vi sono altre donne.

CLEMENZIA
Come moglie? E chi gli ha data?

PASQUELLA
Isabella, figliuola di Gherardo mio padrone.

FLAMMINIO
Chi? Isabella di Gherardo Foiani tuo padrone o pure un’altra?

PASQUELLA
Un’altra? Dico lei. Flamminio, sapete bene che “porco pigro non mangia mai pera marza”.

FLAMMINIO
È certo?

PASQUELLA
Certissimo. Io son stata presente a ogni cosa. Io gli ho veduto dare l’anello, abbracciarsi, baciarsi insieme e farsi una gran festa. E, prima che gli desse l’anello, la padrona gli aveva dato... so ben io.

FLAMMINIO
Quanto ha che questo fu?

PASQUELLA
Adesso, adesso, adesso. Poi mi mandorno, correndo, a dirlo a Clemenzia e a chiamarla.

CLEMENZIA
Digli, Pasquella, ch’io starò poco poco a venire. Va’.

LELIA
(O Dio, quanto bene insieme mi dài! Io muoio d’allegrezza).

PASQUELLA
Sta’ poco, ché io ancora ho tanto da fare che guai a me! Voglio ire adesso a comprare certi lisci. Oh! Io m’ero scordata di domandarti se Lelia è qui in casa tua; ché Gherardo gli ha detto di sì.

CLEMENZIA
Ben sai che la v’è. Vuol forse maritarla a quel vecchio messer Fantasima di tuo padrone? che si doverebbe vergognare!

PASQUELLA
Tu non cognosci bene il mio padrone; ché, se tu sapesse come gli è fiero, non diresti così, eh!

CLEMENZIA
Sì, sì; credotelo. Tu ‘l debbi aver provato.

PASQUELLA
Come tu hai fatto il tuo. Orsù! Io vo.

FLAMMINIO
A Gherardo la vuoi maritare?

CLEMENZIA
Sì, trista a me! Vedi se questa povera giovane è sventurata!

FLAMMINIO
Tanto avesse egli vita quanto l’averà mai. Infine, Clemenzia, io credo che questa sia certamente volontà di Dio che abbia avuto pietà di questa virtuosa giovane e dell’anima mia, ch’ella non vada in perdizione. E però, madonna Lelia, quando voi ve ne contentiate, io non voglio altra moglie che voi; e promettovi, a fé di cavaliere, che, non avendo voi, non son mai per pigliar altra.

LELIA
Flamminio, voi mi sète signore; e ben sapete, quel ch’io ho fatto per quel ch’io l’ho fatto, ch’io non ho avuto mai altro desiderio che questo.

FLAMMINIO
Ben l’avete mostrato. E perdonatemi se qualche dispiacere v’ho io fatto, non cognoscendovi; perch’io ne son pentitissimo e accorgomi dell’error mio.

LELIA
Non proteste voi, signor Flamminio, aver fatta mai cosa che a me non fusse contento.

FLAMMINIO
Clemenzia, io non voglio aspettare altro tempo, ché qualche disgrazia non m’intorbidasse questa ventura. Io la vo’ sposare adesso, se gli è contenta.

LELIA
Contentissima.

CRIVELLO
Oh ringraziato sia Dio! E voi, padrone, signor Flamminio, sète contento? E avertite ch’io son notaio; e, se nol credete, eccovi il privilegio.

FLAMMINIO
Tanto contento quanto di cosa ch’io facesse già mai.

CRIVELLO
Sposatevi e poi colcatevi a vostra posta. Oh! Io non v’ho detto che voi la baciate, io!

CLEMENZIA
Or sapete che mi par che ci sia da fare? Che ve ne intriate in casa mia intanto ch’io andarò a fare intendere il tutto a Virginio e darò la mala notte a Gherardo.

FLAMMINIO
Va’, di grazia; e contalo ancora a Isabella.

Scena 4

Pasquella e Giglio spagnuolo.

GIGLIO
(Por vida del rey, que esta es la vellacca di Pasquella que se burlò de mì y urtommi mis quentas per enganno. Oh como me huelgo de topalla!)

PASQUELLA
(Maladetto sia questo appoioso! Ben mi s`è dato tisté tra’ piei, che possi egli rompere il collo con quanti ne venne mai di Spagna! Che scusa trovarò ora?)

GIGLIO
Signora Pasquella!

PASQUELLA
(La cosa va bene. Io son già fatta signora).

GIGLIO
Vos me haveis burlado y mi tolleste mio rosario y non fazieste lo que me teniades promettido.

PASQUELLA
Zi! zi! zi! Sta’ queto, sta’ queto!

GIGLIO
Por qué? es ninguno aquì que nos oda?

PASQUELLA
Zi! zi! zi!

GIGLIO
Io non veo aquì ninguno. Non m’engagnarete otra volta. Que dezite voi?

PASQUELLA
Tu mi vòi rovinare.

GIGLIO
Tu mi vòi ingagnare.

PASQUELLA
Va’ via, lasciami stare adesso, ché ti parlarò otra volta.

GIGLIO
Renditeme mio rosario y después parlate lo que volite, que non quiero que podiate dezir que m’engagnaste.

PASQUELLA
Tel darò. Credi ch’io l’abbi qui? Tu credi forse ch’io ne facci una grande stima? Mi mancarà delle corone, s’io ne vorrò!

GIGLIO
Por qué m’enseraste de fuore y después aziedes musigas y dizieste non so que «fantasmas, fantasmas» y non so que orazion y non so que traplas?

PASQUELLA
Di’ piano. Tu mi vuoi rovinare. Ti dirò ogni cosa.

GIGLIO
Que cosa? Que nol dezite?

PASQUELLA
Tirate più in qua, in questo canto, ché la padrona non vegga.

GIGLIO
Burlatime otra volta o no?

PASQUELLA
Ben sai ch’io ti burlo. Son forse avvezza a burlare, eh? Vero, eh?

GIGLIO
Hor dezite presto: que es esto?

PASQUELLA
Sai? Quando noi parlavamo insieme, Isabella, la mia padrona, era venuta giù pian piano e stava nascosta accanto a me e sentiva ogni cosa. Quando io volsi cacciare i polli, ella se n’andò in camera e da un buco stava a vedere quel che noi facevamo. Io, che me ne accorsi, feci vista di non l’aver veduta e d’averti voluto ingannare; tanto ch’io gli mostrai que’ paternostri. Ella me gli tolse e, credendo che io t’avessi giuntato, se ne rise e se gli messe al braccio. Ma io glie li torrò stasera e renderotegli, se tu non me gli vuoi aver dati.

GIGLIO
Y es verdade todo esto? Cata che non m’enganni.

PASQUELLA
Giglio mio, se non è vero, ch’io non ti possa più mai vedere. Credi ch’io non abbi cara la tua amicizia? Ma voi spagnuoli non credete in Cristo, non che il altro!

GIGLIO
Hora, que non fazite quello que era concertado entra nos?

PASQUELLA
La mia padrona è maritana e questa sera faciam le nozze; e ho da far tanto ch’io non posso attendere. Aspetta a un’altra volta. (Uh, come son rincrescevoli!)

GIGLIO
Alla magnana! A domattina, digo. Non es asì?

PASQUELLA
Lascia fare a me; ché mi ricordarò di te, quando sarà tempo. Non dubitare. Uh! uh! uh! uhimene!

GIGLIO
Voto à Dios que te daré escuccilladas per la cara, se otra veze m’engannes.

Scena 5

Cittina figliuola di Clemenzia balia, sola.

CITTINA
Io non so che stripiccio sia drento a questa camara terrena. Io sento la lettiera fare un rimenio, un tentennare che pare che qualche spirito la dimeni. Uhimene! Io ho paura, io. Oh! Io sento uno che par si lamenti; e dice piano: “Oimè! non così forte!”. Oh! Io sento un che dice: “Vita mia, ben mio, speranza mia, moglie mia cara!”. Oh! Non posso intendere il resto. Mi vien voglia di bussare. Oh! Dice uno: “Aspettami”. Si debbono voler partire. Odi l’altro che dice: “Fa’ presto tu ancora”. Che sì che rompon quel letto. Uh! uh! uh! Come si rimena a fretta a fretta! In buona fica, ch’io lo voglio ire a dire alla mamma.

Scena 6

Isabella, Fabrizio e Clemenzia balia.

ISABELLA
Io credevo del certo che voi fusse un servitor di un cavalier di questa terra che tanto vi s’assomiglia che non può esser che non sia vostro fratello.

FABRIZIO
Altri sono stati oggi che m’hanno còlto in iscambio: tanto ch’io dubitavo quasi che l’oste non m’avesse scambiato.

ISABELLA
Ecco Clemenzia, la vostra balia, che vi debbe venire far motto.

CLEMENZIA
Non può esser che no sia questo, ché par tutto Lelia. O Fabrizio, figliuol mio, che tu sia il ben tornato: che è di te?

FABRIZIO
Bene, balia mia cara. Che è di Lelia?

CLEMENZIA
Bene, bene. Ma entriamo in casa, ché ho da parlare a longo con tutti voi.

Scena 7

Virginio e Clemenzia.

VIRGINIO
Io ho tanta allegrezza d’aver trovato mio figliuolo ch’io son contento d’ogni cosa.

CLEMENZIA
Tutta è stata volontà di Dio. È stato pur meglio così che averla maritata a quel cannavana di Gherardo. Ma lasciatemi intrar drento, ch’io vegga come la cosa sta, ch’io lasciai gli sposi molto stretti, e son soli. Venite, venite. Ogni cosa va bene.

Scena 8

Stragualcia a li spettatori.

STRAGUALCIA
Spettatori, non aspettate che costoro eschin più fuore perché, di lunga, faremmo la favola lunghissima. Se volete venire a cena con esso noi, v’aspetto al «Matto». E portate denari, perché non v’è chi espedisca gratis. Ma, se non volete venire (che mi par di no), restativi e godete. E voi, Intronati, fate segno d’allegrezza.