Texto utilizado para esta edición digital:
Bernardo Dovizi da Bibbiena, La Calandria, Ireneo Sanesi (ed.), Commedie del Cinquecento (vol.1), Bari, Gius. Laterza & Figli, 1912.
- Badía Herrera, Josefa (Dicat)
- Revenga García, Nadia (Dicat)
Interlocutori
FESSENIO, servo |
POLINICO, precettore |
LIDIO, adulescentulo |
CALANDRO |
SAMIA, serva |
RUFFO, negromante |
SANTILLA |
FANNIO, servo |
FULVIA, moglie di Calandro |
MERETRICE |
FACCHINO |
SBIRRI di dogana |
PROLOGO [DEL CASTIGLIONE]
Voi sarete oggi spettatori d'una nova commedia intitulata «Calandria»:
in prosa, non in versi; moderna, non antiqua; vulgare, non latina.
«Calandria» detta è da Calandro el quale voi troverrete sí sciocco che
forse difficil vi fia di credere che Natura omo sí sciocco creasse giá
mai. Ma, se viste o udite avete le cose di molti simili, e precipue
quelle di Martino da Amelia (el quale crede la stella Diana essere suo'
moglie, lui essere lo Amen, diventare donna, Dio, pesce ed arbore a
posta sua), maraviglia non vi fia che Calandro creda e faccia le
sciocchezze che vedrete. Rappresentandovi la commedia cose familiarmente
fatte e dette, non parse allo autore usare il verso; considerato che e'
si parla in prosa, con parole sciolte e non ligate. Che antiqua non sia
dispiacer non vi dee, se di sano gusto vi trovate: per ciò che le cose
moderne e nove delettano sempre e piacciono piú che le antique e le
vecchie; le quale, per longo uso, sogliano sapere di vieto. Non è
latina: però che, dovendosi recitare ad infiniti, che tutti dotti non
sono, lo autore, che piacervi sommamente cerca, ha voluto farla vulgare;
a fine che, da ognuno intesa, parimenti a ciascuno diletti. Oltre che,
la lingua che Dio e Natura ci ha data non deve, appresso di noi, essere
di manco estimazione né di minor grazia che la latina, la greca e la
ebraica: alle quali la nostra non saria forse punto inferiore se la
esaltassimo, la osservassimo, la polissimo con quella diligente cura che
li greci e altri ferno la loro. Bene è di sé inimico chi l'altrui lingua
stima piú che la sua propria. So io bene che la mia mi è sí cara che non
la darei per quante lingue oggi si trovano. E cosí credo intervenga a
voi. Però grato esser vi deve sentire la commedia nella lingua vostra.
Avevo errato: nella nostra, non nella vostra, udirete la commedia; ché a
parlare aviamo noi, voi a tacere. De' quali se sia chi dirá lo autore
essere gran ladro di Plauto, lassiamo stare che a Plauto staria molto
bene lo essere rubato per tenere, il moccicone, le cose sua senza una
chiave, senza una custodia al mondo; ma lo autore giura, alla croce di
Dio, che non gli ha furato questo («facendo uno scoppio con la mano»); e
vuole stare a paragone. E, che ciò sia vero, dice che si cerchi quanto
ha Plauto e troverrassi che niente gli manca di quello che aver suole.
E, se cosí è, a Plauto non è suto rubbato nulla del suo. Però non sia
chi per ladro imputi lo autore. E, se pure alcuno ostinato ciò ardisse,
sia pregato almeno di non vituperarlo accusandolo al bargello; ma vada a
dirlo secretamente nell'orecchio a Plauto. Ma ecco qua chi vi porta lo
Argumento. Preparatevi a pigliarlo bene, aprendo ben ciascuno il buco de
l'orecchio.
PROLOGO [DEL BIBBIENA]
Oh che tranquillo sonno e che piacevol sogno m'ha rotto ser Giuliano con
quella suo' voce da camera, che gli venga il canchero! Se mi donassi il
miglior poder ch'egli abbi, non mi ristorerebbe del piacere che m'ha
tolto svegliandomi. Io dormiva qua come un tasso e sognava d'aver
trovato l'anel d'Angelica; quell'anel, dico, che chi lo portava in bocca
non poteva esser veduto da persona. Pensate or voi, donne mie, se io era
allegro di sí fatta ventura! Io faceva pensiero di andarmene invisibile
alle casse di certi pigoloni avaracci, a' quali non si trarrebbe un
grosso delle mani con le tanaglie di Nicodemo, e quivi volevo fare un
ripulisti di tal sorte che non rimanessi loro un marcio quatrino. In
ogni modo egli è un peccato che cotali miseracci abbin del fiato, poi
che, per non spendere un soldo, tengano a patti quasi di lasciarsi morir
di fame. Alle spese loro volevo io ragunar tanti denari che io comprassi
due bonissime porzioni: chi sarebbe poi stato meglio di me, dite il
vero? Pensava poi di vedere tutte le donne di Firenze quando si levano:
e forse che i' non arei potuto farlo, potendo andar per tutto senza
esser veduto! –So–diceva io– che non gioverá far meco lo schizzinoso di
non voler esser vedute, perché le giugnerò in lato che non potranno
nascondermisi!– E giá mi pareva essere a' ferri, quando, cosí dormendo,
mi ricordai che stasera si faceva una veglia. –Orsú –diss'io– in anzi
che i' faccia altro, vo' dare una scorribandola per queste case e vedere
quel che fanno quelle donne che vi sono invitate. –Fatto il pensiero, mi
pongo l'anello in bocca; e, parendomi di non poter esser veduto, entro
in una casa. E truovo che 'l marito faceva un grande afrettare la moglie
che andassi via presto, e non le dava tanto agio che la poveretta si
potessi a pena assettare. Maraviglia'mi di tanta fretta che colui le
faceva; e, considerando molto bene a ogni cosa, m'aveggo che il
galantuomo aveva fatto assegnamento adosso alla fante, e però gli pareva mill'anni di levarsi la moglie dinanzi. Non vi dico se mi gonfiò lo
stommaco vedendo che colui faceva sí poca stima della moglie giovane e
bella, per andar dietro a una fante: e, s'io avessi potuto, l'arei
confinato in una cucina a succiar broda e a leccare strofinacci, poi che
n'è sí giotto; e starebbe, la state, molto bene a questi tali. Basta che
poi si scusano con dire: “Ogni cosa è me' che moglie”. Mi partii di
quivi, mezzo sdegnato con lui; e, giunto in un'altra casa, truovo la
moglie e il marito che facevano un gran contendere insieme. Ella
piangeva, e voleva pur venir alla veglia, e diceva al marito: –Se voi
non volevi che io v'andassi, bisognava dirlo prima e non mi lassar
promettere. Voi volete pure che ognuno sappia chi voi sète, che
maladetto sia il punto e l'ora che io mi maritai! cosí poteva io farmi
monaca, se non ho mai a avere un piacere come l'altre. –Ben,
be' –rispondeva il marito geloso, –veglie, eh? veglie, eh? Se tu volessi
bene al tuo marito, tu non ti cureresti d'andarvi. Tu non sai bene quel
che si fa a queste veglie. Statti, statti in casa meco; e sará molto
meglio che andar notticon tutta notte. –Deh sí, lasciatemi
andare –soggiugneva ella: –alle veglie si va una volta l'anno, e vaccene
tante de l'altre: avete voi paura ch'io non sie mangiata? –Che belle
parole! che vuol dir mangiata, cervellinuzza? –disse il geloso. –Oh!
sta' costí, e non mi romper piú la testa.– Io messi mano a un legno, con
animo di dargli venticinque bastonate per fargli uscire la gelosia del
capo: ma pensai poi che fusse meglio lasciarne far la vendetta a lei,
che, se sará savia, com'io credo, lo fará esser geloso di qualcosa. E
forse che ci mancano e' giovani sfaccendati, in questa cittá! E' gli
fará il dovere al dappochello: gli è ben vero che la gelosia non vien da
altro che da dappocaggine. Anda'mene in un altro luogo: e trovai che la
padrona si aveva messo il brigante in casa e, per non venire alla
veglia, dava ad intendere al marito che un suo bambino, o bambina che si
fusse, si sentiva male; e, per farlo piangere, non restava di
pizzicarlo, talché 'l poverino né con lusinghe né con altro si
rachetava. Onde ella diceva: –Vedi, marito mio, io non voglio lasciare
questo povero bambino a guardia di fante e non son per venire alla
veglia altrimenti. Ma facciam cosí: vavvi tu, acciò che non paia che noi
faccián poca stima di chi ci ha invitati.– Il buono uomo, per non sentir
quel pianto tutta notte, e non sapendo come potessi giovare al
figliuolo, si uscí di casa e dette campo franco alla moglie, piú
aveduta e piú savia di lui. Parvemi d'entrar poi in una altra casa e
trovare la padrona che si faceva affibbiar dalla fante e le diceva: –Uh,
sciocca, dappocuza! ancor non sai tu affibbiare una vesta? Comínciati di
sotto, in malora!– A cui la fante rispondeva: –E che noia dá, che
importa cominciarsi di sotto o di sopra? Quando io affibbiava
quell'altra mia padrona, io cominciava pur sempre di sopra.– Sai tu
perché? –rispondeva la padrona:– perché ella ha troppe le puppe grosse,
e cominciavasi di sopra per tirarsele in giú a poco a poco acciò non
apparissino sí ritte. Ma io, perché son magra ed ho il petto piccolo,
bisogna, se io non voglio parer fatta colla pialla, che mi cominci
affibbiar di sotto, acciò che io abbia un poco di apparienzia e non paia
una spigolista; ben sai! –Oh quanto mi risi di questa astuzia da donne!
Trova'ne, doppo questa, un'altra, piú vana che una zucca secca; la quale
si stava in una sua anticameretta dintorno allo specchio, con un paio di
mollettine in mano, e davasi una riveduta solenne alle ciglia; e, poi
che si fu pelata e spelata a suo modo, messe mano a un fiaschetto pieno
d'una certa aqua sbiancata, che pareva latte marcio, e con essa si lavò
molto bene il viso e la gola per infino al petto. Doppo, presa la
pezzetta di levante, si dipinse un viso che pareva una mascara modanese: e, poi che si fu lisciata a suo modo, cominciò a mettersi tanti fiori in seno e agli urecchi che la pareva un maggio; e, guardandosi nello
specchio e parendole che non campeggiassino a suo modo, forse dieci
volte li levò e ripose, tanto che mi venne a noia e me ne partii senza
voler vederne la fine. Entrai in piú di diece altre case: e sempre
sempre trovai donne che si lisciavano; e alcuna ne viddi che era aiutata
dal marito, molto piú vano di lei. –Diacin ne vadia, con tanto
lisciarsi! –diceva io fra me medesimo:– può egli essere che queste
meschine non si accorghino che, per voler parer piú belle, si fanno
maschere e si guastan la vita ed invechiano dieci anni inanzi al tempo e
diventano grinze e isdentate o vero co' denti sí sudici e lordi che
sarebbe manco schifo a baciar loro... presso che io non dissi qualche
mala parola... che baciar loro la bocca? Quante ne è qui che, cariche di
panni e del mal che Dio die loro, stanno intirizzate come statue e non
si possan muovere, scoppiano di caldo e di affanno, per parer belle! E
pensan forse, queste tali, esser tenute piú belle che l'altre? Le
s'ingannano, perché belle son tenute quelle che né poco né molto le lor
persone procurano. –Mi deliberai di rompere quanti fiaschetti di liscio
e quante ampolle io trovava: e, stendendo la mano cosí nel sonno,
credendo pigliare un fiaschetto, presi un orinale, pien d'altro che
d'aqua d'angioli, per trarlo nel muro; e a punto lo batteva nel capo a
ser Giuliano che m'era a canto per svegliarmi; e vi so dire che io
l'arei profumato di buona sorte, se a punto in su quello egli non mi
avessi svegliato, per impormi vi dicessi quello che si vergogna a dir
lui. E questo è che certi sua amici gli avevan promesso di aver in
ordine per questa sera una bella commedia; e lui, fidandosi di loro, non
si è curato vederla o udirla, credendo che la commedia fussi, se non
buona in tutta perfezione, almeno ragionevole: ma stamane, ch'egli l'ha
udita provare, conosce che invero la non è degna di voi, e gli duole in
sino al cuore che voi siate qui, parendoli d'avervi fatto perdere
l'aconciatura. Onde vi prega vi degnate averlo per iscusato,
promettendovi che, la prima volta tornerete in casa sua, vi fará sentire
una commedia d'un'altra sorte e piú bella e sanza comparazione piú
piacevole. Ma mi pare vedere che gli ará una bazza, perché questi
gentiluomini sono tanto intenti a contemprare le bellezze di voi altre
donne che poco o niente della commedia si cureranno. Di grazia,
nobilissime donne, se pensate di far cosa grata a lui e a chi l'ha a
recitare, mostratevi loro piú del solito favorevoli e benigne, acciò che
la commedia quel manco gl'infastidisca. Che dite? faretelo? Non bisogna
storcere il viso: chi di voi non vuol far questo, o li paressi stare a
disagio, se ne può ire a suo' posta, ché l'uscio è aperto. Fate largo,
lá! E chi resterá udirá la commedia che costoro hanno ordinato di fare,
quale ella si sia, che forse vi fará ridere per la sua goffezza. Poco
stará non so chi di loro a uscir fuora; e voi, donne, di grazia,
spalancate bene il buco de l'urecchio vostro a ciò non ne perdiate una
gocciola.
Argumento
Demetrio, cittadin di Modon, ebbe uno figliolo maschio chiamato Lidio e
una femmina chiamata Santilla, amendua d'un parto nati, tanto di forma e di presenzia simili che, dove il vestire la differenzia non facea, non
era chi l'uno dall'altro cognoscere potessi. Il che credere dovete:
perché, lassando molti esempli che adducere vi potremmo, bastar vi deve
quel degli due di sangue e di virtú nobilissimi frategli romani Antonio
e Valerio Porcari; sí consimili che, ogn'ora, da tutta Roma è preso
l'uno per l'altro. Alli dua putti ritorno a' quali, giá di anni sei,
manca il padre. Li turchi prendeno e ardeno Modone uccidendo quanti
trovano per la cittá. La nutrice loro e Fannio servo, per salvare
Santilla, da maschio la vesteno e Lidio la chiamano, stimando il
fratello da' turchi essere stato morto.
Di Modon parteno. Tra via, son presi e prigioni in Costantinopoli
condotti. Perillo mercante fiorentino tutti a tre li riscatta, a Roma
seco gli mena, in casa sua li tiene: ove dimorando lungo tempo,
ottimamente lo abito, i costumi e 'l parlar pigliano. E, questo giorno,
Perillo vuole dare la sua figliuola per moglie alla detta Santilla, da
ciascuno Lidio chiamata e per maschio sempre creduta. Lidio, il maschio,
con Fessenio servo da Modon esce salvo; in Toscana e in Italia si
conduce; ivi il vestire, il vivere e la lingua apprende. Essendo di anni
diciassette in diciotto, a Roma viene, di Fulvia se innamora e,
parimente da lei amato, piú volte, vestito da donna, seco a sollazzar si
va. Dopo molti scambiamenti, Lidio e Santilla lietamente si riconoscano.
Guardate or voi, aprendo ben l'occhio, a non scambiar l'un dall'altro.
Però che io ve avvertisco che amendua d'una statura e d'una presenzia
sono, amendua si chiamano Lidio, amendua ad un modo vestono, parlano, ridano, amendua sono oggi in Roma ed amendua or or qui comparir li vedrete. Né crediate però che, per negromanzia, sí presto da Roma venghino qui; per ciò che la terra che vedete qui è Roma. La quale giá esser soleva sí ampia, sí spaziosa, sí grande che, trionfando, molte
cittá e paesi e fiumi largamente in se stessa riceveva; ed ora è sí
piccola diventata che, come vedete, agiatamente cape nella cittá vostra.
Cosí va il mondo.
Atto I
SCENA I
SCENA II
SCENA III
SCENA IV
SCENA V
SCENA VI
SCENA VII
SCENA VIII
Atto II
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SCENA II
SCENA III
SCENA IV
SCENA V
SCENA VI
SCENA VII
SCENA VIII
SCENA IX
SCENA X
Atto III
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SCENA VII
SCENA VIII
SCENA IX
SCENA X
SCENA XI
SCENA XII
SCENA XIII
SCENA XIV
SCENA XV
SCENA XVI
SCENA XVII
SCENA XVIII
SCENA XIX
SCENA XX
SCENA XXI
SCENA XXII
SCENA XXIII
Atto IV
SCENA I
SCENA II
SCENA III
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SCENA V
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Atto V
SCENA I
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SCENA III
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SCENA IX
SCENA X
SCENA XI
SCENA XII